Ha scelto il giorno di San Pietro e
Paolo, patroni di Roma, per andarsene nel sonno, giusto 20 anni
fa il 29 giugno.
Non era romano Vittorio Gassman, figlio di un
ingegnere tedesco, passato per una breve stagione a Palmi,
cresciuto a Roma e rivelatosi a Milano; non era romano, ma
sapeva esserlo piu' di tanti suoi concittadini, capace pero' di
mimetizzarsi in ogni regione per la sua maniacale precisione nel
ripetere tutte le inflessioni dialettali e regionali.
Ma alla
fine e' stato tanto romano da meritarsi (come solo Anna Magnani e
Marcello Mastroianni) una doppia targa stradale nelle vie della
sua citta' adottiva.
Del "mattatore", appellativo che lo ha
sempre accompagnato dal 1959 quando ebbe grande successo
televisivo in uno spettacolo dallo stesso titolo che poi
trasloco' nella riuscita commedia di Dino Risi, non e' facile dare
una sola definizione: gli riusciva tutto e apparentemente senza
sforzo.
Ma quando decise di mettersi a nudo, prima come attore e
poi come uomo e svelo' nella sua autobiografia i tarli
dell'anima, si scopri' la fatica della perfezione, l'infaticabile
ricerca del dettaglio, la necessita' di superarsi ogni volta con
precisione maniacale.
Si e' detto che aveva personalita' bipolare e si descrisse malato
di depressione, nausea di vivere, fatica di convivere con la
propria immagine pubblica.
Eppure era felicemente ammalato di
vita, sprizzava giovialita', fisicita', intelligenza e per questo
fu sempre compagno e complice dei migliori registi, mai semplice
esecutore.
Aveva fin da giovane la presenza scenica del
prim'attore, ereditava il piglio roboante della generazione di
Renzo Ricci (padre della prima moglie di Vittorio), usava il
corpo come strumento della sua arte.
Prestante e bello, da ragazzo era arrivato a disputarsi lo
scudetto del basket universitario con la societa' sportiva
Parioli, ma il teatro ebbe presto la meglio, visto che gia'
svettava tra i compagni di corso all'Accademia d'arte
drammatica.
In piena guerra, nel '43, debutto' a Milano con Alda
Borelli nella "Nemica" di Niccodemi, ma fu all'Eliseo di Roma,
in compagnia di Tino Carraro ed Ernesto Calindri che si fece
notare svariando con naturalezza dal repertorio classico a
quello contemporaneo.
Se sul palcoscenico non ha mai avuto
difficolta' a imporsi (tra i primi a riconoscere il talento ci
furono Luchino Visconti, il compagno d'Accademia Luigi Squarzina
e piu' tardi Giorgio Strehler), al cinema dovette passare per
piccoli ruoli fino a costruirsi una certa fama da "villain" e
seduttore pericoloso come in "Riso amaro" di Giuseppe De Santis
nel 1949.
Ma nel decennio successivo fu il teatro a mantenere
alta la sua popolarita': fra il '52 e il '56 la sua lettura di
Shakespeare (prima "Amleto" e poi "Otello") fecero storia cosi'
come l'"Orestiade" di Eschilo con la regia di Pasolini.
Gassman
sembrava un dio greco, l'incarnazione del teatro, svettava in
un'Italia ancora piegata sotto le conseguenze della guerra
persa.
Ma il cinema, nella persona di Mario Monicelli, gli offri'
l'occasione di essere "altro". Ne "I soliti ignoti" (1958)
incontro' il successo nel modo meno atteso: con Peppe "er
Pantera", pugile suonato, dalla parlata incerta, ladro per caso,
indosso' una maschera comica che lo avrebbe accompagnato per
anni.
Fu l'inizio di un'escalation inarrestabile che lo consegna
alla storia della commedia all'italiana, uno dei "quattro
colonnelli" della risata insieme a Sordi, Tognazzi, Manfredi.
Questo nuovo registro espressivo lo rese complice di autori come
Dino Risi, Luciano Salce, Luigio Zampa, Ettore Scola, con
Monicelli in testa.
Fu lui a disegnare il suo Brancaleone sul
"Miles Gloriosus" plautino, cosi' come Risi gli offri' lo spaccone
disperato de "Il sorpasso", mentre Scola fu suo complice in
tutto l'itinerario della maturita' da "C'eravamo tanto amati" a
"La famiglia".
Meno nota, ma non meno intensa e' la carriera
internazionale di Vittorio Gassman: da sempre, grazie alla
conoscenza delle lingue, lo cercano le produzioni internazionali
e, dopo la rivelazione in "Guerra e Pace" (1956), dagli anni '70
in poi avra' i migliori registi: Robert Altman, Paul Mazursky,
Alain Resnais, Andre' Delvaux, Jaime Camino, Barry Levinson.
Si
provera' anche come regista in proprio, riversando una buona dose
di autobiografia in tentativi ambiziosi come "Kean" o
"Senzafamiglia, nullatenenti cercano affetto" in coppia con
Paolo Villaggio.
Chiudera' la carriera la' dove l'aveva iniziata,
in palcoscenico, tra l'intensa recitazione di pagine poetiche,
una memorabile edizione della "Divina Commedia" e lo spettacolo
"Ulisse e la balena bianca" che e' una sorta di testamento
artistico ed esistenziale.
Nato nel 1922, sognava di morire in
scena e per poco non ci e' riuscito.
Spirito irregolare e
controcorrente, ha dato scandalo nella vita privata con tre
mogli e tre compagne, tutte molto amate, da cui ha avuto quattro
figli, tre dei quali ne hanno seguito le orme.
Spirito inquieto,
paradossalmente e' stato il meno "italiano" dei nostri grandi
attori e forse per questo, pur tra tanti premi, non ha avuto
quella gloria che, oggi lo scopriamo, meritava.
Sognava un suo
teatro ma solo dopo morto il Quirino di Roma gli e' stato
intitolato; meritava l'Oscar ma lo prese Al Pacino al posto suo
per il remake di "Profumo di donna" e si dovette accontentare di
un premio a Cannes (per lo stesso film).
La Mostra di Venezia
gli ha dato il Leone d'oro alla carriera nel 1996, ma poteva
accorgersi di lui ben prima.
E' stato un gigante solo e forse
proprio questo enorme vuoto che lasciava ogni volta che usciva
di scena lo rapiva e terrorizzava insieme. Di certo e' il
sentimento che lascia nel cinema e nel teatro italiano anche
oggi. Sulla sua lapide sta scritto: "Non fu mai impallato".
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