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09/05/23

Tra Conrad e Herzog, "Le cose che sappiamo" il (bellissimo) romanzo di Frédéric Dévé


Quando un bel libro è scritto anche da un amico, la soddisfazione è doppia. Conosco Frédéric da molti anni e ora che arriva la traduzione italiana del suo romanzo "Le Miroir de Charco Verde", per merito dell'editore Artemide, faccio una notevole scoperta.

Il romanzo, uscito anni fa in Francia, in Italia viene - piuttosto enigmaticamente - intitolato "Le cose che sappiamo", un titolo ingannatore, perché le cose che "si sanno", al termine dell'avventura cui ci conduce il libro, sono provvisorie, ambigue, e tutt'altro che acquisite. Sollevano anzi molti, molti interrogativi.
E credo che questo sia proprio il pregio maggiore di questa storia. Frédéric vi dipana la sua personale esperienza di vita e di lavoro, in America Latina - più in particolare nel Nicaragua subito dopo la rivoluzione sandinista - che lui conosce assai bene, essendosi occupato per decenni dei programmi alimentari dell'Onu.
Qui, il protagonista, francese come l'autore, che si chiama Hector Ruetcel, dopo essere stato ferito nella capitale, Managua, giunge nella meravigliosa isola di Ometepe, una sorta di paradiso terrestre, entro due laghi su cui svettano due vulcani (uno dei quali l'alto e attivo Concépcion), in mezzo a un mondo edenico, popolato di gente povera, legata alla coltivazione della terra e alle leggende arcaiche del luogo.
Si imbatte così nel Charco Verde, uno stagno nelle cui acque la leggenda popolare crede abiti un demone, disposto a fare patti con chi gli vende l'anima.
Comincia dunque un viaggio nel mistero che soggioga lentamente il razionalista Ruetcel, esponendolo alle ambigue lusinghe di un notabile del luogo, don Eugenio, che sembra legato all'origine e allo sviluppo della leggenda del Charco Verde. Leggenda o realtà? Perché gli abitanti sono così spaventati? Perché sono così disposti a vendersi a un demone e ad accettare di essere trasformati in animali? Perché nessuno indaga? Cosa nascondono i registri di Don Eugenio?
Con prosa limpida e avvolgente, Dévé ci conduce per mano dentro il mistero che non si scioglie mai del tutto, fino alle ultime e ultimissime sorprendenti pagine.
Tra Conrad e Herzog, "Le cose che sappiamo" è un romanzo di qualità piuttosto rara nel panorama contemporaneo. Che merita di essere letto, e le cui domande non smettono di interrogare, anche dopo l'ultima pagina.

04/12/20

Libro del Giorno: "Le civette impossibili" di Brian Phillips

 


In tempi così come quelli che stiamo vivendo, questo libro è ossigeno puro. L'ha pubblicato da poche settimane l'editore Adelphi, nella Collana dei casi, e lo ha scritto un grande giornalista sportivo americano, erede di quella tradizione anglosassone che prende molto sul serio lo sport e l'avventura, nobilitandola come genere letterario. E' perciò un libro colto e divertente, da cui si impara molto. Ed è anche un libro di viaggi o un "libro in viaggio", una sorta di Bruce Chatwin più leggero e ironico, ma con la medesima curiosità dettata dal gusto per la scoperta, dell'altrove come luogo dell'affascinante. 

Brian Phillips - come scrive Davide Coppo che lo ha intervistato per Rivista Studio -  è americano, ama il calcio (e tante altre cose, ma principalmente il calcio) e ne scrive per lavoro. Ha un sito, si chiama The Run of Play, e scrive anche per Grantland, una delle migliori riviste (e sito online) e siti di sport e pop del panorama web.   Brian può essere definito una delle migliori penne sportive del pianeta senza eccedere in adulazione. Quello che fa è difficilmente descrivibile, è una sorta di mix tra cultura pop, cultura sportiva, e cultura letteraria. Qualcosa - scrive Coppo -  che ti fa vedere le cose da punti di vista completamente inediti.

Le Civette impossibili è un libro composito, fatto di storie apparentemente del tutto scollegate ambientate in angoli diversissimi del pianeta.  Alcune di queste parti ricalcano il format del reportage giornalistico, arricchendolo però con una vena narrativa pura e brillante dentro la quale l'autore entra e esce nel ruolo di voce narrante e/o testimone.

Anche quando si comincia a conoscere Brian Phillips, come è scritto nella bandella – dopo aver partecipato con lui a una corsa di cani da slitta attraverso l’Alaska, o essersi fatti spiegare in dettaglio il complicatissimo rituale dell'antica arte del Sumo giapponese –, è dif­ficile capire dove porterà la prossima tap­pa: senza preavviso, ci si può ritrovare fra le tigri (e i cacciatori di tigri) della giungla indiana, nella dacia di Jurij Norštejn a par­lare del suo Cappotto (e del perché non si decida a finirlo), o nelle vene dell’America profonda in cui Phillips è cresciuto. Quel che però è certo è che passando il tempo insieme a Phillips è impossibile annoiarsi, e non essergli grati per le infinite sorprese che ogni viaggio, non importa se in un al­tro continente o nel cinema vicino a casa, finisce per riservare.

Un libro da consigliare e da leggere con vero piacere.

13/10/20

Amore e Desiderio - Umberto Galimberti

 


AMORE E DESIDERIO

Privo di desiderio, l'amore garantisce tenerezza, intimità, sicurezza, ma non prevede l'avventura, la tensione e il senso del rischio che alimentano la passione.
Dal canto suo il desiderio senza amore è stimolante, eccitante, vibrante, ma non ha l'intensità e il senso di un'elevata posta in gioco che rendono profonda la relazione.
Non ci è dato, se non per brevi attimi, di fare esperienza nello stesso tempo dell'amore e del desiderio verso la stessa persona. E questo perché l'amore, che nasce sotto il segno della stabilità e dell'eternità, vuole ciò che il desiderio rifiuta.
Il desiderio infatti, non sa cosa vuole. E' un atto infondato che trova insopportabile ogni gesto della ripetizione volto a confermare se stesso.
Insinuandosi come un incidente nella propria vita, la fa traboccare, esponendola a un altro senso, quasi sempre fuorviante rispetto all'esigenza unitaria di una biografia.
E questo perché il desiderio, a differenza dell'amore che vuole costruzione e stabilità, è un movimento verso un punto di perdita.
Salvo rare eccezioni, nessuno è disposto a giocare tutto se stesso nel fascino ignoto dell'avventura. Perché, anche per avventurarsi, bisogna partire da un luogo che mi dia il senso del "da dove vengo", "a cosa appartengo" e magari un giorno "dove desidero tornare."
Non riusciamo infatti a immaginare una persona o una cultura che non si orientino a partire da un qualche senso di "casa" che Robert Lee Frost definisce come "il posto in cui, quando ci devi andare, ti devono accogliere."

20/05/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 22. Il volo della Fenice (The Flight of Phoenix) di Robert Aldrich (1965)



Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 22. Il volo della Fenice (The Flight of Phoenix) di Robert Aldrich (1965)


Questo celebre film (di cui è stato realizzato un remake in tempi recenti, nel 2004) è oramai un classico, per diversi motivi, primo fra tutti quello di essere il precursore assoluto di un intero genere, quello della gara per la sopravvivenza al seguito di una catastrofe, in questo caso aerea. 

Durante un volo di trasferimento l'aereo di una compagnia petrolifera statunitense, infatti, un bimotore da trasporto Fairchild C-82 Packet, condotto da Frank Towns (Jimmy Stewart, che in effetti anche nella vita reale fu un pilota di aerei durante la seconda guerra mondiale), un pilota veterano di guerra ormai in declino e afflitto dai rimorsi, e dal suo ufficiale di rotta alcolizzato Lew Moran (nientemeno che il grande Sir Richard Attenborough, qui nei panni di semplice attore coprotagonista), parte sulla rotta che lo conduce da una stazione estrattiva in pieno deserto del Sahara verso la costa del Mediterraneo, ed è costretto ad un atterraggio di fortuna a seguito di una violenta tempesta di sabbia che intasa i motori. 

Lo schianto sulla sabbia causa la morte di due passeggeri ed il grave ferimento di un terzo, il giovane italiano Gabriele (l'attore italiano Gabriele Tinti), lasciando illesi i due membri dell'equipaggio e gli altri passeggeri: il dottor Renaud, un medico francese; l'operaio petrolifero Trucker Cobb (il grande Ernest Borgnine), appena licenziato perché affetto da turbe psichiche; il capitano Harris (Peter Finch), un rigido militare dell'esercito britannico, e la sua "vittima" prediletta, il sergente Watson, Mike Bellamy, un prospettore petrolifero; Standish, un timido e devoto ragioniere; Ratbags Crow, un irriverente giornalista scozzese; il tedesco Heinrich Dorfmann, che ha fatto visita al fratello, un lavorante messicano e la sua scimmietta. 

La riserva d'acqua è sufficiente per le due settimane, mentre ci sono quintali di datteri in scatola da mangiare. Per evitare la tempesta, Towns è però stato costretto a deviare di quasi duecento chilometri dalla rotta dichiarata: dopo i primi giorni il gruppo si rassegna all'idea che i soccorritori devono avere ormai abbandonato le ricerche. 

Comincia così una avvincente e disperata lotta per la sopravvivenza: un primo tentativo di coprire a piedi la distanza che li separa dall'oasi più vicina si conclude con la morte del messicano e di Trucker Cobb, mentre le condizioni dell'italiano ferito si fanno sempre più disperate, tanto che morirà pochi giorni più tardi. 

A questo punto Dorfmann, il passeggero tedesco, propone un'idea geniale e a prima vista pazzesca: smantellare il relitto dell'aeroplano, utilizzandone i componenti per realizzare un velivolo più piccolo, in grado di portare in salvo i superstiti. 

 Dapprima oggetto di scherno e incredulità, la proposta appare via via l'unica speranza di salvezza, soprattutto alla luce delle misurazioni e dei calcoli elaborati dal suo ideatore, la cui professione è quella di ingegnere aeronautico. Dorfmann, con ingegnosi stratagemmi, riesce ad ovviare alla mancanza di utensili e componenti e si trova ad affrontare l'ostilità proprio del pilota Frank Towns, legato ai suoi pregiudizi da età "eroica" dell'aviazione. 

L'ala di tribordo viene smontata, mentre viene inventato un sistema con cui il velivolo dovrà scivolare sulla sabbia prima del decollo. A ostacolare il cammino verso la salvezza ci penserà anche una carovana di predoni che attraversano il deserto con i loro cammelli; non solo: a un certo punto lo stesso Dorfmann rivela candidamente di essere un progettista di aeromodelli, non di veri aerei; ma il progetto è ormai in stato avanzato per rinunciare e Towns suggerisce a Dorfmann di non rivelare agli altri che costruisce "giocattoli". Rimasti in sette, i superstiti infondono le loro ultime energie nel completamento dell'aereo, e alla fine Towns riesce a decollare, portando in salvo tutti ed atterrando in un'oasi dove avviene l'estrazione del petrolio. 

Diretto da uno dei migliori registi di sempre di Hollywood,  Robert Aldrich, Il volo della fenice, interpretato da uno straordinario cast interamente maschile è una straordinaria indagine sui caratteri umani e allo stesso tempo un perfetto racconto d'avventura. 

Il Volo della Fenice
(The Flight of the Phoenix)
di Robert Aldrich
Stati Uniti d'America, 1965 
Durata 142 min 
con James Stewart, Richard Attenborough,  Peter Finch, Ernest Borgnine