28/09/23

"STORIE DI ROMA" - Un nuovo ciclo di incontri tematici su Roma e le sue infinite storie presso la Libreria Eli - Domenica 1 ottobre ore 11

 


STORIE DI ROMA - Una nuova bella iniziativa che ho il piacere di presentare, Domenica prossima, 1 ottobre alle ore 11 alla bellissima Libreria Eli (con ingresso gratuito), per chi ama Roma e le sue infinite Storie.


Il ciclo d’incontri:



Il corso/seminario da tenersi da ottobre 2023 a maggio 2024 affronterà in percorsi di circa due ore ciascuno, le tappe significative della storia trimillenaria di Roma mediante l’attraversamento dei luoghi conosciuti e meno conosciuti e degli aneddoti, curiosità, letture, citazioni, ecc.. con l’uso di slides e il coinvolgimento totale dei partecipanti, alla conoscenza dei molti segreti e misteri della Città Eterna.

In ogni incontro la Passeggiata virtuale consentirà di conoscere meglio i luoghi, la storia le infinite curiosità su Roma, come di solito non si vedono mai.

Quando:

MERCOLEDI'  1 ottobre 2023  Ore 11:00

Il piano degli incontri:

  • Ottobre: Le origini della Città – I Luoghi e le leggende della Fondazione, i Re di Roma.
  • Novembre: L’età antica – La Roma Repubblicana
  • Dicembre: L’età antica – La Roma Imperiale
  • Gennaio: Dalla Caduta dell’Impero Romano d’Occidente all’Anno Mille
  • Febbraio: La Roma Medievale
  • Marzo: Il Rinascimento a Roma
  • Aprile: Il Risorgimento a Roma e l’Ottocento
  • Maggio: Dai primi del Novecento ai giorni nostri

Rileggere "La Storia" - Il coraggio delle lacrime e le accuse di "patetismo"


Terminata la rilettura de La Storia e fatti i conti con le ultime pagine strazianti, capisco meglio cos'è che diede fastidio, di questo romanzone di 700 pagine, nella temperie degli anni '70, a una parte consistente degli intellettuali dell'epoca (con le notevoli eccezioni di Cesare Garboli, della Ginzburg e di altri, entusiasti)

Dietro l'accusa esplicita, sferzante o allusiva di "patetismo", si celavano più generali riserve (o censure) riguardanti una concezione della Storia vista dalla parte dei deboli (non dei sommersi di Levi, perseguitati per via dell'essere nati appartenenti alla razza "sbagliata"), ma da coloro - Ida, i suoi figli Nino e Useppe, gli avventori tutti dello Stanzone di Pietralata, anche Davide alla fine - che subiscono, come bovini al macello, il destino di sottomessi, di disegni inafferrabili e crudeli : il Fascismo, l'alleanza con i nazisti, la Guerra, la malvagità, il disastro che si abbatte sulle loro case, sui progetti, sulle speranze, sulle illusioni.
E' tutto quel che vede nelle ultime pagine Ida, subito prima della fine di Useppe, come un film a ritroso: un vortice, o meglio, un Maelstrom, imponderabile e cieco che ha inghiottito la sua famiglia, i suoi figli, lei stessa, obbedendo a nessuna logica, se non alla logica di un destino che non si può e che è inutile contrastare.
C'è odore di cristianesimo, insomma, e specialmente di quel cristianesimo continuamente frainteso dalla critica analitica marxista.
Perché il cristianesimo, come si sa, è molte cose. E se si vede soltanto una cosa, del cristianesimo, non si capisce nulla di cosa esso sia. Morante era credente (lo era a tal punto dal non voler concedere il divorzio a Moravia, perché convinta dell'indissolubilità del legame spirituale), ma era cristiana "pauperista" (il cristianesimo di Carlo Borromeo, il cristianesimo degli ultimi, dei poveri, degli analfabeti, degli indifesi).
Confondere questo con l'accettazione supina del proprio destino (nella speranza, evidentemente di una "ricompensa" nell'altra vita), vuol dire non aver capito niente del cristianesimo della Morante, che poi era lo stesso (senza vera fede) di Pasolini e del suo Vangelo secondo Matteo.
Cristo non è un masochista che vuole soffrire e essere macellato sul Golgota: Cristo, nell'orto degli ulivi, è un uomo che chiede, piangendo, di poter evitare quel calice molto amaro.
Cristo è un cantore, anzi IL cantore, della bellezza del vivere, del vivere in pace, della vita intesa come dono: la pianta di fichi che fa frutti meravigliosi, il granello di senape che diventa florido albero, la vigna che produce botti abbondanti, la pesca che sfama tutti e rende tutti sazi.
È lo stesso incanto che ha Useppe, come tutti i bambini e i puri di cuore.
Se nella creazione le cose non vanno come dovrebbero andare, la colpa non è di Cristo e non è degli ultimi. Loro sono le vittime. Cantare questo e piangere con loro, non è patetismo: altrimenti bisognerebbe buttare a mare non soltanto Manzoni, ma anche Chaplin, De Sica, Rossellini e buona parte del neorealismo italiano.
La "colpa" della Morante fu semmai, quella di essere arrivata "fuori tempo massimo". Ma lei era fatta così: pubblicò Menzogna e Sortilegio quando il romanzo classico, di impianto ottocentesco, era morto e sepolto e pubblicò l'Isola d'Arturo quando il lirico-fantastico era già fuori moda. Poi La Storia, pubblicato mentre le avanguardie chiedevano lo scalpo dei "passatisti".
Sul finire della vita, Morante si prese forse la rivincita definitiva con Aracoeli, romanzo indefinibile che spiazzò tutti e brilla ancora oggi come un diamante grezzo: la dimostrazione (o la conferma) che poteva scrivere tutto, meglio di tutti.
"La Storia" doveva essere così: Elsa Morante era maestra di destini (aveva imparato con tutta la durezza possibile a fare i conti con il suo personale, privato), e sapeva che ogni sua opera avrebbe avuto il suo: ben oltre la mancanza di visione dell'attuale e del contingente.

Fabrizio Falconi - 2023

21/09/23

La Lettera su "Il Manifesto" che attaccò frontalmente - da sinistra - "La Storia", il grande romanzo di Elsa Morante


E' una delle pagine più imbarazzanti (e anche abbastanza vergognosa) della storia letteraria italiana del Novecento:

La lettera pubblicata su Il Manifesto del 15 luglio 1974 (che riporto nell'originale in calce all'articolo e si può integralmente leggere ingrandendo l'immagine) contro La Storia di Elsa Morante, e soprattutto contro il giornale, che aveva osato pubblicare qualche giorno prima una recensione elogiativa del romanzo - il quale nel frattempo stava vendendo centinaia di migliaia di copie in tutta Italia, pubblicato da Einaudi.
Ad attaccare in modo frontale la scrittrice al suo terzo romanzo è in Italia, incredibilmente, soprattutto la sinistra intellettuale. Dopo una recensione ammirata e entusiasta di Cesare Garboli, e una dichiarazione commossa di Natalia Ginzburg, scoppia la bagarre.
Sulle pagine del «Manifesto» arriva questa velenosa lettera a firma di Nanni Balestrini, Elisabetta Rasy, Letizia Paolozzi e Umberto Silva, la quale stigmatizza la recensione positiva di Liana Cellerino, che inizia con l'arroganza e il disprezzo tipici di quegli anni: "qualcuno di noi ha letto qualche riga, qualcuno qualche pagina...."
Seguiranno interventi di Rina Gagliardi, positivo, e per fortuna una tirata d’orecchie di Pintor ai firmatari, poi però altre recensioni negative e il finale tombale di Rossana Rossanda, decisamente contro.
Arriva così il fuoco ad alzo zero contro il romanzo: tutti schierati: la neoavanguardia, la sinistra extraparlamentare, capitanata da Asor Rosa (lo paragona a un Kolossal cinematografico: puro kitsch), Romano Luperini (ne critica l’impianto ideologico piccolo borghese) e Franco Fortini, che latita e si nasconde (la storia della sua mancata recensione è un saggio nel saggio); ma anche il gruppo romano intorno a Moravia, ex marito della Morante, che entra in campo con una secca stroncatura di Enzo Siciliano.
Così è.
A rileggere oggi questa lettera viene il prurito. Questi censori ideologici - che accusano la Morante di scrivere con un impianto piccolo borghese - vengono da famiglie e salotti borghesi e dai loro divani attaccano la Morante che - indiscutibilmente - viene davvero dal popolo, ha sofferto la fame vera, è stata sfollata, ha rischiato la vita anche per la sua origine mezza ebrea.
Una studiosa italiana, Angela Borghesi, ha recentemente ricostruito il caso "La Storia/Morante" in un corposo saggi uscito da Quodlibet.
La Borghesi mette in luce l’incomprensione che in un paese, dominato culturalmente da marxisti e cattolici, coglie la critica davanti a un’opera che spiazzava le ideologie dell’epoca con una visione del mondo che Garboli giustamente definisce «poetica», al di là delle convinzioni politiche e sociali.
Perché questa reazione? Ci sono almeno tre aspetti che Borghesi riassume nelle pagine finali, arrivando sino al nostro tempp oggi, dove in Italia, in mezzo a tanti "capolavori" dimenticati, La Storia vende 7-8.000 copie ogni anno.
Il primo lo spiega Garboli, il solo che si schiera con decisione e motivazioni a favore della Morante: invidia.
Gran parte degli articoli con un linguaggio politico-militare stigmatizzano l’aspetto commerciale, il best seller che diventa. Aveva successo, quindi non poteva essere un buon libro.
Borghesi ha strada facile nel segnalare come in gran parte delle critiche, con qualche eccezione, manchi l’analisi critica, l’approfondimento, e dire che narratologia e critica stilistica erano ben sviluppate all’epoca.
La seconda ragione, scrive l’autrice, è «il pregiudizio di genere», un tema oggi attuale, forse non così profondamente marcato all’epoca; di certo, in quanto romanziere donna, Morante ha sempre suscitato molte diffidenze.
La terza ragione è probabilmente la più profonda, e anche letterariamente più importante: il rifiuto del patetico. Italo Calvino, che pure stimava Elsa, e a cui il romanzo non piace fino in fondo, lo dice con molta evidenza: un narratore contemporaneo può far ridere o far paura al suo lettore, ma «farlo piangere no».
Quello che la critica marxista in particolare rifiuta è proprio il pathos narrativo de La Storia. Non si concede alla scrittrice di far piangere i suoi lettori, o che usi quella che Calvino chiama la «tecnica letteraria della commozione». All’ "uterina" scrittrice romana non è concesso utilizzare impunemente il registro patetico sentimentale.
L’autore del Marcovaldo si chiede: «Cosa fare allora? Guardarsi dell’essere "umani" nello scrivere?». Il punto probabilmente è qui: il patetico.
Morante non è kitsch, ci dice questo librone, perché quella che suscita non è «la seconda lacrima», per dirla con Milan Kundera, bensì la prima, quella vera.
Ma la sinistra italiana di quegli anni non può capirlo, accecata da un pregiudizio ideologico: in più, dice Borghesi, la sinistra italiana non ha mai fatto bene i conti con il kitsch, nonostante Gillo Dorfles e altri.
Quello che non colsero i critici, come scrisse ex post Marino Sinibaldi, è che una concezione tragica della storia e dei limiti della modificabilità del mondo, come quella del romanzo di Morante, era «utile alla definizione dei confini, dei limiti della politica».
Ma letta oggi questa lettera riassume il massimalismo cieco di certa critica di quegli anni: l'incapacità di riconoscere un capolavoro, la violenza di degradarlo (senza averlo letto) paragonandolo a De Amicis (!), la vergogna di non riconoscerne l'alto valore civile, oltre che letterario.
Negli anni '70 avevamo una Morante. E tutto il mondo, a quanto pare (visto che continua ad essere studiata e letta in tutto il mondo), l'aveva capito. E l'avevano capito anche gli italiani di allora, tutti tranne la critica militante che "ha sempre ragione".

Fabrizio Falconi - 2023

20/09/23

L'attrazione di Elsa per gli omosessuali: un "vulnus" non risolto


Tra i suoi diversi amori, Elsa Morante è attratta, in vita, anche dai maschi omosessuali. Molti sono artisti che frequenta, e di cui diventa anche confidente.

Spesso diventano protagonisti dei suoi romanzi, come il più famoso, Wilhelm Gerace, l'anaffettivo padre di Arturo, nel romanzo vincitore del Premio Strega nel 1957.
C'è una ragione, probabilmente, in questa attrazione, che ha a che fare con la vita personale di Elsa: un vulnus irrisolto e irrisolvibile, contenuto nel segreto che le viene rivelato, senza mezzi termini e con l'impiego di ogni dettaglio, quando lei ha soltanto dieci anni, dalla madre che l'ha generata: Irma Poggibonsi.
Irma le rivela che lei, e i suoi tre fratelli, non sono figli di quello che loro ritengono il loro padre e che ha dato loro il cognome, Augusto Morante, di professione sorvegliante presso il riformatorio giovanile di Trastevere, ma di un "amico di famiglia" che da sempre, i bambini hanno visto aggirarsi in casa loro, un certo Francesco Lo Monaco, portalettere siciliano, amico del padre.
La verità, come brutalmente rivela ai figli la madre, in quel giorno, è che Augusto, sin dalla prima notte di nozze si è manifestato "impotente". E questa impotenza 'coeundi', non solo 'generandi', ha fatto sì che la madre Irma, non rassegnandosi all'idea di non avere figli, abbia accettato di averne con un altro uomo, presentatole proprio dal marito, quindi con l'approvazione di lui.
Francesco Lo Monaco, anche se è già sposato e ha una sua famiglia, si prodiga nell'attività di "donatore di figli", senza mai rivelare il suo vero ruolo. Irma ne diventa perfino gelosa, perché sa che lui, oltre alla sua famiglia e a lei, frequenta anche altre donne.
Tanto per aggiungere dramma al dramma, un giorno Francesco Lo Monaco si toglie di mezzo, suicidandosi.
Augusto, invece, è rimasto sempre al suo posto, sempre più marginale, sempre più umiliato da Irma, sempre più squalificato agli occhi dei suoi stessi figli.
Elsa dirà più tardi di non aver mai avuto un padre, perché il suo vero padre era un estraneo, e quello che viveva con lei non era suo padre.
Ma chi era nella realtà Augusto? Per Elsa rimase probabilmente sempre un mistero.
Il sospetto che in realtà fosse omosessuale è molto più che un sospetto, e questa è forse l'unica versione che poteva dare una spiegazione valida a tutta la faccenda.
Sicuramente Elsa si sforzò nella sua vita adulta, e nella sua attività di scrittrice di elaborare questa figura di padre-non padre, di cercare di penetrarne la sofferenza, la negazione emotiva e sentimentale: padre in fondo non lo era mai stato, per lei. Ma di sicuro quel padre ombroso e lontano fu - nel suo modo - più "padre" di un prestatore d'opera, che davvero con il mondo di Elsa aveva poco o punto a che fare.

Fabrizio Falconi - 2023

14/09/23

Ricordate "Il Danno" ? Torna, sotto la veste di una nuova miniserie, intitolata "Obsession" su Netflix


Dieci minuti dopo che è partito il pilot della miniserie "Obsession" (4 brevi puntate, visibili su Netflix), del 2023, risuona una frase che negli spettatori più accorti risulta inconfondibile: "Ho subito un danno. Le persone danneggiate sono pericolose. Sanno di poter sopravvivere... "
Si capisce subito, allora, che - anche se il titolo è diverso - si tratta del rifacimento di un celebre film - regia del grande Louis Malle, 1992 - a sua volta tratto dal celebre e fortunatissimo romanzo di Josephine Hart, pubblicato nel 1991, che ha venduto l'incredibile cifra di 5 milioni di copie in tutto il mondo: "Il Danno".
Siamo dunque esattamente come nel romanzo, dentro la storia di uno stimato professionista, William Farrow, brillante chirurgo e rampante politico, altoborghese, felicemente sposato con due figli, che perde completamente la testa per la donna che è la fidanzata di suo figlio Jay, e che suo figlio Jay sta per sposare.
La donna, Anna Barton, ha un passato di storie familiari torbide, piuttosto misterioso: il chirurgo ne resta soggiogato già dal primissimo incontro, e nonostante il vincolo familiare, intraprende con lei una rovente storia sessuale, basata sulla sottomissione, con virate bondage e sadomaso.
C'è subito da dire che la serie - una coproduzione franco-inglese - si fa apprezzare per qualità e sviluppo (non ci sono lungaggini o ovvietà), presentando qualche differenza abbastanza sostanziale con la storia originale (e con il film di Malle). Di più, è di sicuro una delle serie televisive dal contenuto sessuale più esplicito e il legame quasi senza parole tra i due - funereo, nichilista - viene mostrato senza orpelli, un po' come ha insegnato la scuola del film di Bertolucci ("Ultimo Tango a Parigi").
Il segreto del successo della storia e del libro originario risiede probabilmente nella esplorazione del lato oscuro della sessualità, nel suo legame con la morte (il vecchio binomio eros/thanatos) e nella ineluttabilità del danno elaborato attraverso la perversione: d'altronde lo stesso Freud ammoniva che "la nevrosi si può curare, ma con la perversione non si può fare niente."
Chi è stato danneggiato, dunque, è questa la "morale" della Hart, è più forte, più attrezzato per sopravvivere (anche se nella relazione si traveste da quello più fragile) e chi è più vittima è in fondo chi si avvicina e cade nella rete del danneggiato.
E' una tesi forse rassicurante o forse no, ed è per questo che il successo arrivò copioso.
Questa serie è un buon esercizio su (quel) tema, ambientando la vicenda in una Londra gelida e piuttosto lugubre. Gli interpreti sono all'altezza, a parte Richard Armitage nei panni del protagonista, il chirurgo doppiamente fedifrago, che ha una sola espressione per tutta la serie, e rigido e pallido com'è, fa rimpiangere dalla prima scena, il sensuale e sontuoso Jeremy Irons del film di Malle.
Bravissima è invece Charlie Murphy (già vista in Happy Valley 2 e 3), che offre mille sfumature alla fatale, estrema Anna Barton (anche nelle difficili, esplicite scene di nudo).
Bravissima è anche Indira Varma nel ruolo della moglie e Rish Shah in quello dell'innocente vittima, il ragazzo Jay.
Il finale della serie è diverso sia dal libro che dal film di Malle e concede una opzione in più sia ad Anna che a William: la vita può andare avanti anche quando si è fatto il peggio che si potesse fare (e di certo è una tesi molto, molto discutibile).
Insomma, un voto positivo per un lavoro difficile che aveva il compito di misurarsi con un un libro molto famoso e con un film di un grandissimo regista (che non fu, comunque, uno dei suoi migliori).

Fabrizio Falconi - 2023

06/09/23

Perché Oppenheimer è un grandissimo film, anzi, un "capolavoro"?


Perché Oppenheimer di Christopher Nolan è un grandissimo film per il quale si può scomodare l'abusatissimo termine "capolavoro"?

Perché è un film difficilissimo (trama, dialoghi intricatissimi) e allo stesso tempo perfettamente apprezzabile anche da chi non sa o capisce un acca di fisica, di quanti di luce, di fissione nucleare.
Eppure il film, ossessivamente dialogato per 180 continui minuti, potrebbe essere assai ostico: non ci sono effettacci di sceneggiatura o politically correct, che piacciono tanto al cinema contemporaneo; non ci sono eccentricità buttate a caso, c'è pochissimo sesso, la grande parte del film si svolge in asfittiche aule di oscure commissioni governative e non; si parla molto di scienza e di fatti accaduti 80 anni fa; c'è al centro un fisico vagamente antisociale, poco conosciuto, fino a ieri, dalla gente che di solito guarda fiction; c'è una colonna pervasiva, che come una creatura vivente segue lo sviluppo del film, di ogni suo passaggio, nessuno escluso, anche qui con piglio ossessivo; non ci sono toni consolatori o retorici, il mood generale è invece un tono dolente, disarmato, sconfitto.
Eppure..
Eppure è un film rapidamente diventato fenomeno di massa. Com'è possibile?
E' possibile perché è grande cinema. E il cinema, quando è grande, travalica ogni gusto personale, ogni pregiudizio, ogni linguaggio specifico, come la grande musica.
In un certo senso, poi, Oppenheimer, è il trionfo del cinema britannico, che oggi e da parecchi anni, è ormai la Superpotenza del cinema mondiale.
Britannico è il regista Christopher Nolan (di cui ho amato grandemente Interstellar, soprattutto), britannico è in gran parte l'incredibile cast allestito per questo film, dove anche il più umile dei partecipanti (anche con una o due scene in tutto), è un grande, grande attore, proveniente dalla infinita scuola di talenti britannica. Così, per un cinefilo, il godimento è doppio, perché si gode vedendo sfilare questa galleria di attori straordinari:
- Cillian Murphy è il protagonista, da Oscar (sarebbe meritato): un talento irlandese ormai globale, definitivamente affermatosi con Peaky Blinders, che regala al fisico Oppenheimer credibilità, sguardo allucinato, toni di tormento e sconfitta, fallimento, persecuzione.
- Florence Pugh è l'attrice inglese rivelatasi ormai da anni, che interpreta la tormentata, carnale, psichiatra comunista Jean Tatlock, ex amante di O.
- Emily Blunt è l'attrice britannica che impersona la moglie di Oppenheimer, Kitty
- il grande Robert Downey Jr. interpreta il cattivo Lewis Strauss, membro della commissione per l'energia atomica americana, nemico di O. La sua prova è straordinaria. Mi auguro vivamente che l'Oscar 2023 gli venga assegnato, perché lo stramerita, come attore non protagonista.
- Kenneth Branagh è un altro mostro sacro del teatro e del cinema britannico che qui interpreta il grande fisico Niels Bohr.
- il grande Matthew Modine, quasi irriconoscibile, invecchiato, il glorioso protagonista di Full Metal Jacket di Stanley Kubrick, è un alto burocrate, dalla parte di O.
- L'ormai indefinibile (sono finiti gli aggettivi) britannico, Gary Oldman (forse il più grande attore maschile vivente) con una sola scena, dà corpo e anima al 33mo presidente americano Harry Truman.
- lo scozzese Tom Conti (vincitore di ogni possibile premio teatrale tra cui il Tony Award e il Laurence Olivier Award) è Albert Einstein.
- Dane De Haan uno degli attori migliori delle nuove generazioni, già visto in moltissime serie e film, è l'infido generale Nichols, uno dei persecutori di O.
- Rami Malek, il Freddy Mercury di "Bohemian Rhapsody" è David Hill, colui che riuscirà a incastrare Strauss.
- Casey Affleck (fratello di Ben e straordinario talento) è Boris Pash, capo dei servizi segreti dell'esercito
- Matt Damon è come sempre perfetto nel ruolo del generale Leslie Groves, il costruttore e fondatore del centro di ricerche di Los Alamos, dove verrà costruita la prima bomba atomica della storia.
Insomma, il catalogo è questo.

Sì, il film dura 3 ore, ma per una volta non ci si annoia neanche per un istante.
Si esce anzi dalla sala piuttosto grati: sentirsi raccontare una storia, oggi, e una grande storia, e raccontata con stile sobrio, classe e profondità, è un regalo di cui essere grati.
(consiglio, se si vuol leggere poi il parere di un vero addetto ai lavori, di recuperare la recensione di Roberto Escobar, forse il miglior critico in giro in Italia attualmente, sul Domenicale del Sole 24 ore, uscito il 2 settembre, che dà al film 5 stelle, sulle cinque disponibili - e non è un punteggio che Escobar conferisce frequentemente).

Fabrizio Falconi - 2023