Una delle più belle dichiarazioni d'amore mai scritte per Roma.
26/07/25
La più bella lettera d'amore scritta per Roma - il Podcast
Una delle più belle dichiarazioni d'amore mai scritte per Roma.
29/10/21
Qual è stato il primo Teatro costruito a Roma ? E dove si trovava ?
Quando
fu costruito il primo teatro a Roma?
Il primo teatro in muratura a Roma può essere considerato il Teatro di Pompeo, che sorgeva nei pressi dell’attuale Largo Argentina, tra via dei Chiavari e via dei Giubbonari, dove si trova oggi piazza di Grotta Pinta (resti importanti dell’edificio si possono ancora ammirare oggi nei locali dell’Hotel Lunetta), la cui forma richiama quelle della costruzione romana.
Il teatro prese il nome dal console Gneo Pompeo Magno che ne ordinò la costruzione al ritorno dalla sua campagna vittoriosa sui popoli orientali, tra il 60 e il 55 a.C.
Prima di Pompeo, vigeva il divieto di costruire edifici stabili di spettacolo in città. Il console aggirò il divieto facendo apporre sulla sommità della cavea un piccolo tempio dedicato a Venere Vincitrice, cosicché tutta la gradinata del teatro appariva come una grande scala d’accesso al tempio.
Il
teatro aveva dimensioni considerevoli – il diametro era di centocinquanta metri
– e fu il primo passo della grande opera di monumentalizzazione del Campo
Marzio, una zona destinata a diventare di vitale importanza nella vita della
città di Roma.
Tratto da Fabrizio Falconi - 501 domande e risposte sulla storia di Roma - Newton Compton, 2020
04/04/21
Pasqua insolita a Roma: Parlando di Resurrezione, la visita alle incredibili cripte dei Cappuccini in Via Veneto
Una visita a Roma nei giorni di Pasqua, può riservare molte sorprese.
Ne è un esempio la cosiddetta Chiesa dei Cappuccini in Via Veneto – il cui nome esatto è in realtà Santa Maria dell’Immacolata - celebre soprattutto per l’antico cimitero nel sotterraneo dell’edificio: la cripta, le cui cinque cappelle sono interamente ricoperte e decorate con parti di scheletri – omeri, femori, vertebre, teschi, scapole, clavicole - appartenenti a frati cappuccini che vissero per secoli nell’adiacente convento: più di quattromila scheletri formano una fantasmagorica e lugubre scenografia che serviva come memento mori, come ammonimento riguardo alla caducità della vita terrena.
Oggi
alle cripte si accede attraverso un modernissimo e funzionale Museo dedicato
alla confraternita dei Cappuccini (adiacente alla Chiesa), molto interessante,
che ricostruisce la storia dell’Ordine attraverso i suoi personaggi, le
curiosità, i luoghi e gli strumenti
della predicazione, sull’esempio del Santo assisiano.
Noi eravamo quello che voi siete e quello che noi siamo voi sarete, ammonisce
un cartello all’entrata, piantato direttamente nella terra delle sepolture.
Ma i
cappuccini professavano la loro fede nella Resurrezione e l’ultima delle
Cappelle è in questo senso, liberatoria, perché si assiste, in una tela, alla
raffigurazione del miracolo della resurrezione di Lazzaro. L’intera cripta è
quindi un passaggio pasquale,
attraverso la morte, nella sua rappresentazione più gotica, fino alla Resurrezione. E non è un caso che
questo luogo nei secoli abbia suscitato l’interesse di illustri e diversi
artisti, da Nathaniel Hawthorne e Goethe, fino al Marchese De Sade, che ne
rimase fortemente impressionato.
Ma se ancora oggi la Chiesa richiama molti visitatori per questa particolarità,
molti altri sono i motivi di interesse, prima di tutto quella grande tela
d’altare nella prima cappella a destra firmata dal genio di Guido Reni e
raffigurante San Michele Arcangelo che schiaccia con il piede la testa di
Satana.
Questo
dipinto ha una storia molto particolare, che pochi conoscono. Il bolognese Guido Reni era quel che si dice
uno spirito inquieto. Ammirato e ricercatissimo nella Roma di allora, era
quello che si potrebbe definire un dandy
ante-litteram. Sempre elegante e azzimato, orgoglioso e curioso, si sentiva
attratto dal soprannaturale, dalla magia e dall’azzardo.
Quando
nel 1635 ricevette da Antonio Barberini, che era il fratello del Papa di allora
– Urbano VIII, al secolo Maffeo Vincenzo Barberini – l’incarico di realizzare
una grande pala d’altare per la Chiesa dell’Ordine al quale lo stesso Antonio
apparteneva, Guido Reni pensò bene di prendersi una rivincita, a modo suo, nei
confronti di uno dei personaggi più influenti della Capitale, quel Giovanni
Battista Pamphilj, destinato a diventare qualche anno più tardi anch’esso Papa,
succedendo ad Urbano VIII con il nome di Innocenzo X.
Barberini
e Pamphilj si contendevano la scena a Roma, in quel periodo. Erano le due
famiglie più facoltose, le più potenti, quelle che con più numeri ambivano alla
elezione del Pontefice.
Guido
Reni era dalla parte dei Barberini. Anche per motivi personali che gli avevano
reso inviso Giovanni Battista Pamphilj, brillante avvocato di curia. Non si
conosce bene il motivo di questa antipatia: se si trattò di un affronto
personale, di una maldicenza o di un danno alla reputazione del pittore. Forse per vendicarsi di qualche torto subito,
Guido Reni ritrasse nella tela della Chiesa dei Cappuccini la testa del demonio
schiacciata dall’Arcangelo con i lineamenti di Giovanni Battista Pamphilj: lo
stesso viso allungato, la fronte stempiata e quel pizzetto che lo rendevano un
ottimo soggetto per la rappresentazione del Diavolo..
Quel
che è certo è che sin da quando il quadro fu esposto, la somiglianza parve a
molti innegabile. E lo stesso Giovanni
Battista, all’epoca Cardinale, ne rimase scandalizzato, chiedendo anche per vie
diplomatiche che si provvedesse a nasconderlo.
Ma quella Chiesa era territorio
dei Barberini e nonostante le rimostranze, furono creduti i motivi di discolpa
dell’artista il quale si giustificò dicendo che si era semplicemente ispirato
all’immagine del Demonio che più volte aveva segnato, nel corso dei suoi incubi
notturni..
Dunque
il quadro non fu mai spostato. Anche se i motivi di imbarazzo crebbero
ulteriormente qualche anno più tardi quando Giovanni Battista divenne
addirittura Papa.
E qualche voce maligna, nella Roma di allora, si
affrettò a constatare che “anche se in quella città si era visto di tutto, dall’epoca
di Romolo e poi di Nerone, non s’era mai visto un Papa assomigliare così tanto
ad un Demonio!”
Fabrizio Falconi - riproduzione riservata 2021
08/01/21
Il DNA degli antichi romani ricostruito: si è modificato nel tempo seguendo le fasi storiche di ROMA
Il DNA dei romani si è modificato nel tempo seguendo l’evoluzione delle fasi storiche che hanno segnato la vita e la crescita della città che al suo culmine ha raggiunto per prima al mondo la popolazione di un milione di abitanti come capitale di un Impero che univa tra loro tre continenti.
12/12/20
I Fori Romani ancora non hanno finito di stupire: Spunta dai secoli una Testa Monumentale di Augusto
20/10/20
Roma: La chiesa di Santa Francesca Romana e l’impronta del ginocchio di San Pietro
La chiesa di Santa Francesca Romana e l’impronta del ginocchio di San Pietro
Per la sua posizione scenografica – sul magnifico
prospetto rialzato del Foro Romano, prospiciente il Colosseo e i due archi, di
Costantino e di Tito – la Chiesa di Santa Francesca Romana è una delle più
richieste da sempre, dai romani per matrimoni e cerimonie religiose. Non solo: ogni anno, il 9 marzo, si svolge la
benedizione degli automobilisti che, provenienti da ogni parte di Roma, vengono
qui con la loro vettura.
Le origini della Chiesa sono lontane nel tempo. Fondata nel IX secolo
ricevette il titolo di Santa Maria Nova per
distinguerla dall’altra chiesa dedicata a Maria esistente già nel Foro Romano
con il nome di Santa Maria Antiqua.
La dedica alla Santa romana avvenne molto più tardi alla morte di
Francesca Ponziani, la nobildonna vissuta nel Quattrocento, benefattrice e
fondatrice dell’Ordine religioso delle Oblate Olivetane di Tor de’ Specchi.
Nella chiesa di Santa Francesca Romana si conserva anche una suggestiva
memoria dell’apostolo Pietro, le cui tracce del resto sono abbondanti nella
zona del Foro Romano dove sorgeva il Carcere Mamertino nel quale la tradizione
vuole che Pietro, insieme ad altri cristiani fu rinchiuso dopo il disastroso
incendio del 64 d.C.
In questo luogo – cioè nel Foro – è collocato anche il racconto del duello
tra i due apostoli, Pietro e Paolo e Simon Mago, il misterioso personaggio
citato negli Atti degli Apostoli, il quale secondo alcuni testi apocrifi – gli Atti di Pietro in primis – avrebbe
vissuto a Roma proprio sotto gli imperatori Claudio e Nerone.
Simon Mago, racconta la leggenda, al cospetto dei due apostoli, i più
diretti discepoli di Cristo, li avrebbe pubblicamente sfidati, proprio nel Foro
Romano, levandosi prodigiosamente in volo davanti ai loro occhi sbalorditi.
Per fermare questa magia, prosegue il racconto, i due apostoli si
inginocchiarono invocando a gran voce Dio perché fermassero l’eretico e
l’intervento del Padre non si fece attendere, visto che la magia di Simone si
spense come d’incanto, facendolo precipitare al suolo.
A ricordo di questo episodio, proprio nella Chiesa di Francesca Romana, è
conservata una pietra antichissima sulla quale è possibile osservare le
impronte lasciate dal ginocchio dell’apostolo Pietro.
Per ammirarla bisogna salire le rampe di scale ai lati della cripta e
proprio sulla parete destra del transetto si notano le due pietre protette da
una vecchia inferriata sulle quali vi sono due cavità annerite dalla adorazione
di migliaia di mani che le hanno baciate e toccate nel corso dei secoli. Al di
sopra delle grate si legge una antica iscrizione: In queste pose le ginocchia S. Pietro quando i demonii port(arono)
Simon Mago per aria.
La sua popolarità comunque, specie a partire dal Medioevo, fu grandissima, al punto tale che anche Dante lo inserisce nel diciannovesimo canto della Divina Commedia intitolandogli addirittura l’intero ottavo cerchio dell’Inferno dove sono ospitati proprio i seguaci di Simon Mago, ovvero i simoniaci (coloro che pretendono di comprare con beni preziosi materiali le capacità spirituali), con i celebri versi: O Simon mago, o miseri seguaci/che le cose di Dio, che di bontate/ deon essere spose, e voi rapaci/ per oro e per argento avolterate,/ or convien che per voi suoni la tromba,/però che ne la terza bolgia state. (v.1-6, canto XIX, Inferno).
Tratto da: Fabrizio Falconi, Misteri dei Rioni e dei Quartieri di Roma, Newton Compton, 2013
29/07/20
Quando i nazisti bruciarono le Navi di Caligola a Nemi
24/01/20
Cranio misterioso a Roma: potrebbe essere di Plinio il Vecchio
Fonte Enrica Battifoglia per ANSA
08/10/19
Quando Costantino incontrò Silvestro sul Monte Soratte
Ma soprattutto il Soratte si evidenzia subito come un naturale osservatorio celeste. Dalla sua cima, infatti, di notte è possibile ammirare la volta celeste senza ostacoli che ne limitino la visione. E di sicuro fu proprio questa peculiarità a giustificarne l’utilizzo sacrale sin dai tempi più remoti. Anche oggi, per chi visiti questo luogo, specialmente di notte, si realizza la suggestiva sensazione di trovarsi proiettati verso il cielo, come se ci si trovasse sul vertice di una piramide.
Ed è facile intuire come, dopo l’incomparabile visuale di cui si poteva godere durante le ore di luce, al calare delle prime ombre della notte fino al sorgere di una nuova alba, lo spettacolo del cielo stellato e dei suoi moti si prestasse in modo del tutto naturale alla funzione di divinazione delle cose umane, in base agli eventi astronomici che si scorgevano nel cielo; o ad accompagnare la scansione del tempo per le preghiere notturne.
Sulle fondamenta di questo antico tempio di Apollo, fu poi edificato, a partire dal sesto secolo dopo Cristo, un nuovo edificio che oggi – come nell’antichità – è conosciuto come Eremo di San Silvestro, che ancora oggi fa splendida mostra di sé sulla cima della montagna sacra. Il nome di questo eremo – oggi una Chiesa sottoposta a numerosi e recenti restauri - ha resistito nei secoli ed è presto spiegato: all’epoca della discesa di Costantino verso Roma, viveva infatti in eremitaggio, sulla cima del monte Soratte, l’episcopo Silvestro, personaggio destinato ad avere un ruolo di primissimo piano nella edificazione della chiesa di Roma divenendo il trentatreesimo Papa, e nel processo di cristianizzazione dell’Impero, voluto da Costantino.
Quel che sappiamo è che Silvestro, la cui data di nascita è ignota, era figlio di un certo Rufino, romano, e probabilmente di una certa Giusta. Divenuto presbitero, Silvestro divenne il rappresentante di quella parte dei cristiani rimasta ostile a Massenzio. L’usurpatore dapprima impedì per anni l’elezione del Vescovo, poi favorì l’elezione di Milziade, un presbitero nordafricano ritenuto fedele alla sua causa che però non fu riconosciuto da Silvestro e dalla sua fazione. Il mancato sostegno a Milziade suscitò l’ira di Massenzio che minacciò a tal punto Silvestro da costringerlo a fuggire nella capitale e a nascondersi nei territori vicini.
Ai fini del nostro discorso, è importante comunque sottolineare che fu proprio l’Actus Silvestri ad ispirare, parecchi secoli più tardi, e precisamente nel Duecento, uno dei capitoli di quel testo su cui torneremo molto più diffusamente in seguito, quando parleremo di Piero della Francesca e della sua versione del Sogno di Costantino, e cioè
Tratto da B. Carboniero, F. Falconi, In Hoc Vinces, Edizioni Mediteranee, Roma 2011
14/05/19
La Meravigliosa Coppa di Licurgo e i suoi segreti
Si tratta di un calice di vetro, conosciuto come ‘La Coppa di Licurgo’, acquistato nel 1950 dal British Museum, l’enigmatica proprietà del calice ha sconcertato gli scienziati per decenni.
Una prima risposta arrivò solo nel 1990, quando un team di ricercatori inglesi, esaminando alcuni frammenti del calice al microscopio, scoprì che gli artigiani romani furono pionieri nell’utilizzo di nanotecnologie.
La tecnica consisteva nell’impregnare il vetro con una miscela di particelle di argento e oro, fino a farle raggiungere le dimensioni di 50 nanometri di diametro, meno di un millesimo delle dimensioni di un granello di sale.
La precisione del lavoro e la miscela esatta dei metalli preziosi suggerisce che gli artigiani Romani sapessero esattamente quello che stavano facendo e che non si tratta di un effetto accidentale.
“Si tratta di un’impresa straordinaria”, spiega Ian Freestone, archeologo presso l’ University College di Londra. La vetusta nanotecnologia funziona in questo modo: quando il calice viene colpito con la luce, gli elettroni delle particelle metalliche vibrano in maniera tale da alterarne il colore, a seconda della posizione dell’osservatore. Ma una ricerca, di cui dà notizia lo Smithsonian Magazine, rivela alcune novità davvero sorprendenti.
Logan Gang Liu, ingegnere presso l’Università dell’Illinois, si è dedicato per anni allo studio del manufatto, fino a capire che questa antica tecnologia romana può avere utilizzi nella medicina, favorendo la diagnosi di alcune malattie e l’individuazione di rischi biologici ai controlli di sicurezza.
“I romani sapevano come fare e come utilizzare le nanoparticelle per creazioni artistiche”, spiega il ricercatore. “Noi abbiamo cercato di capire se fosse possibile utilizzarla per applicazioni scientifiche”.
Dal momento che non era possibile utilizzare il prezioso manufatto, il team guidato da Liu ha condotto un esperimento nel quale sono stati creati una serie di recipienti in plastica intrisi di nanoparticelle d’oro e d’argento, realizzando degli equivalenti della Coppa di Licurgo.
Una volta riempito ciascun recipiente con i più diversi materiali, come acqua, olio, zucchero e sale, i ricercatori hanno osservato diversi cambiamenti di colore.
Il prototipo è risultato 100 volte più sensibile dei sensori utilizzati per rilevare i livelli salini in soluzione attualmente in commercio.
Secondo i ricercatori, un giorno questa tecnica potrà essere utilizzata per rilevare agenti patogeni in campioni di saliva o di urina, e per contrastare eventuali terroristi intenzionati a trasportare liquidi pericolosi a bordo degli aerei.
Non è la prima volta che la tecnologia romana sorprende i ricercatori moderni, superando il livello attuale di conoscenza.
Un esempio è dato dallo studio sulla composizione del calcestruzzo romano, rimasto sommerso nelle acque del Mediterraneo per 2 mila anni.
I ricercatori hanno scoperto che la sua composizione è decisamente superiore al calcestruzzo moderno, sia in termini di durata che di ecocompatibilità.
Le conoscenze acquisite dai ricercatori vengono oggi utilizzate per migliorare il cemento che oggi utilizziamo. Non è ironico che gli scienziati si rivolgano alle tecniche utilizzate dai nostri antenati ‘primitivi’ per lo sviluppo di nuove tecnologie?
Fonte: http://www.ilnavigatorecurioso.it