Visualizzazione post con etichetta fino alla fine del mondo. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta fino alla fine del mondo. Mostra tutti i post

14/03/22

E' morto William Hurt - Due film per ricordarlo


Nel giorno della morte di William Hurt, mi piace ricordarlo con due tra i suoi film meno celebrati (anch'io ho nel cuore Smoke e come tutti tanti altri, compreso Il Grande freddo):

- Il primo è il suo film d'esordio, che all'epoca vedemmo in pochi: uscito nel 1980, quel geniaccio fuori di testa di Ken Russell lo aveva tratto da un copione (diventato poi romanzo) di Paddy Chayefsky (con il quale ovviamente litigò durante le riprese, al punto che Chayefsky ritirò la firma della sceneggiatura): vi si raccontavano le angosciose sperimentazioni di uno psichiatra (nella realtà era John Lilly) che mette alla prova se stesso, dentro una vasca di deprivazione sensoriale, per osservare senza distrazioni sensoriali di alcun tipo le proprie visioni interiori. Non contento, lo psichiatra aggiunge alla immersione nella vasca anche l'assunzione preventiva di sostanze allucinogene coltivate dagli sciamani sudamericani.
E' un film strano e inquietante che funziona grazie a William Hurt, il quale esordisce con una prova che gli valse la candidatura al Golden Globe di quell'anno come miglior attore esordiente. Vi si intravedevano già tutte le sue doti.
- Il secondo è uno dei film in assoluto meno riuscito di Wim Wenders: Fino alla Fine del Mondo, girato in mezzo mondo e uscito nel 1991 con un cast spettacolare (Max Von Sydow, Sam Neill, Jeanne Moreau, ecc..) e una colonna sonora strepitosa. Il film fu un flop al botteghino dappertutto. E anche la critica lo maltrattò. Risentiva delle avversità riscontrate da Wenders nella realizzazione, dell'eccessiva lunghezza e di un progetto affastellato per troppo tempo e poco chiaro forse anche nelle intenzioni dell'autore con riferimenti che andavano da "L'invenzione di Morel" di Bioy Casares a Orwell. Si trattava però di un apologo sulla società occidentale e sulla incapacità di guardare, del nostro rapporto con le immagini (tema da sempre wendersiano) che oggi andrebbe rivisto e forse rivalutato.
Hurt, al massimo del suo fascino estetico, vi recitava il ruolo di protagonista nei panni del figlio dello scenziato, Trevor Mc Phee, che porta con sé il dispositivo segreto capace di riprodurre o generare immagini inconsce e/o archetipiche.
Ora che ci penso sono anche due ruoli che si assomigliano, con due personaggi impegnati a sperimentare, a esplorare, il tempo, il futuro, le immagini, la vita.
Forse è per questo, che rappresentano un bel modo per ricordare oggi il grande William Hurt.

Fabrizio Falconi



27/03/21

Wim Wenders - "Non riuscire ad aiutare qualcuno che ami è la cosa più triste che possa accadere nella vita"



Wim Wenders - "Non riuscire ad aiutare qualcuno che ami è la cosa più triste che possa accadere nella vita" 


di Matteo Persivale


fonte: Corriere della Sera, Venerdì 4 dicembre 2015


Il regista de "Il cielo sopra Berlino" e la storia d'amore con Solveig, la trapezista del film. "Quando cadde dissi a me stesso: basta, le riprese finiscono qui. Ma lei non aveva paura di niente e mi stupì."

"Quasi tutti i miei film, a parte due o tre forse - che non sono poi così belli - sono ambientati in luogo preciso perché le storie che raccontano potevano succedere soltanto là. Ci sono registi che partono dallo stile, altri dai personaggi: io parto sempre dal posto in cui succederà l'azione."

Il cinema ha i suoi poeti e i suoi filosofi: in Wim Wenders ha trovato il suo geografo. Eppure il film più famoso del cineasta tedesco, "Il cielo sopra Berlino" (1987), racconta in bianco e nero le vite degli angeli della città che vegliano sulla città divisa dal Muro che sta per cadere, e anche se non poteva non essere ambientato a Berlino si regge non sulla città ma su uno sguardo, e su un sorriso. Il cuore di quel film batte grazie a Solveig Dommartin. trapezista di un circo piccolo e male in arnese. Un angelo, Bruno Ganz, si innamora, e per lei decide di diventare umano.

Dommartin è stata una delle donne più importanti della vita del regista - che ha avuto cinque mogli - anche se non sono mai stati sposati durante la loro lunga storia d'amore tra gli anni '80 e i primi anni '90. Lei era al suo fianco durante le riprese di "Tokyo-Ga" - di quel film curò il montaggio - e di tre film è stata musa, protagonista e di fatto coautrice: "Il cielo sopra Berlino", "Così lontano, così vicino" e "Fino alla fine del mondo".

La trapezista dal sorriso così dolce da far perdere le ali agli angeli non c'è più, scomparsa nel 2007 per un male improvviso e Wenders - gentilissimo ma altrettanto riservato - non ha mai parlato della sua morte. Ha fatto una eccezione, a sorpresa, in questa intervista con un monologo emozionante, pronunciato a fatica, con la voce molto basso e lo sguardo fisso su un punto indefinito della parete della sua grande stanza d'albergo milanese. Parlando piano. Con tristezza - e tenerezza - infinite. 

La storia mai raccontata

"Solveig non aveva mai paura di niente. E' la parola che la descrive meglio di tutte: era senza paura. Una volta avevamo appena cominciato le riprese di "Il cielo sopra Berlino", cadde da quel maledetto trapezio, cadde per terra in punto dove non c'erano protezioni, da sei metri di altezza. A volte vedi succedere qualcosa - un incidente d'auto per esempio - e le immagini rallentano tanto quanto i tuoi pensieri diventano veloci. Non aveva ancora toccato terra che avevo già pensato: basta è la fine del film, anche se per caso non è rimasta ferita, il film finisce qui. Niente "Cielo sopra Berlino".  Sul set restiamo tutti paralizzati: lei è ancora a terra. Corriamo tutti da lei. Ecco un medico. Qualcuno chiama un'ambulanza. Ma Solveig si alza, piano, si appoggia al braccio del suo istruttore, un ungherese, un acrobata del circo molto esperto che in tre mesi gli aveva insegnato tutto, torna sulla scaletta, sale, riprende la scena daccapo. "Devi tornare subito su, altrimenti la paura ti paralizza", mi dice l'ungherese. E lei è già lassù. Devo dare di nuovo il ciak. Ecco: era senza paura.

Non ha avuto paura neanche alla fine; eravamo rimasti sempre in contatto, anche dopo la fine della nostra storia. Sono stato con lei fino alla fine, quando nessuno poteva più aiutarla. Sono già passati..  dieci anni? (otto ndr.) . E' una delle cose più tristi che ti succedono nella vita, non poter aiutare qualcuno che ami. Una cosa terribile succede davanti ai tuoi occhi e non puoi fare niente.

Fu spaventoso vederla deteriorarsi così velocemente, lei così piena di vita. Per lei ogni giorno era una festa. Solo lei poteva convincere il pubblico che un angelo avrebbe rinunciato a volare per darle una carezza. E alla fine vedere lei, sempre piena di energia, di sorrisi, perdere tutto... 

Abbiamo fatto tre film insieme: alla fine la stampa le fece molto male, a Cannes ricevette per "Fino alla fine del mondo" delle pessime recensioni, fu trattata selvaggiamente dai critici francesi. Portai il film a Cannes in una versione sbagliata, almeno adesso qualcuno può vederlo in dvd nella versione in cui era stato pensato da me e Solveig, può vedere quanto era brava, quanto era speciale. Ma nella versione di Cannes, Solveig era troppo esposta, c'era troppo peso sulle sue spalle. E ha sofferto per quelle recensioni che le rovinarono la carriera. Non sono riuscito a proteggerla allora, e non sono riuscito a proteggerla quando si ammalò. E' un pensiero che non mi abbandonerà mai."

Il "Cielo sopra Berlino" è dedicato "a tre angeli del cinema, Yasuijr (Ozo ndr), Francois (Truffaut ndr) e Andrej (Tarkovskij ndr), tre eroi di Wenders. Non c'è bisogno di aggiungere un'altra dedica, a Solveig, non c'è bisogno di nostalgia: "Semplicemente quel film non esisterebbe nemmeno, senza di lei". 

Solveig Dommartin in "Il Cielo sopra Berlino" di Wim Wenders, 1987