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16/10/21

Libro del giorno: "La Tranquillità dell'animo" di Seneca

 




Verso la fine degli anni 50 d.C., la posizione di Seneca presso Nerone vacilla, traballa fortemente, mentre lo splendore dell'aula, seppure ancora abbaglia, sempre meno copre il disgusto delle sue sordidezze e i compromessi a cui il filosofo è costretto per mantenere un rango politico in declino. 

Nitida già si profila la scelta che già fu, prima di Seneca, di Atenodoro, il filosofo e direttore di coscienza d'Augusto, che volle a un certo punto ritirarsi dai compiti di corte

Ma troppo, afferma Seneca, si sottomise Atenodoro ai tempi, troppo velocemente prese la via di fuga; a lui non è possibile e non è consona questa condotta: «Né io negherei che talvolta occorra cedere, ma pian piano, a passo indietro, portando in salvo le insegne e l’onore militare: sono più assicurati e protetti dai loro nemici coloro che si arrendono in armi» 

Invero ben altra era stata la funzione pubblica di Seneca presso Nerone da quella tutta privata di Atenodoro presso Augusto. 

Per questo non gli era possibile lasciare bruscamente l'imperatore senza l'assenso di lui, e rischiare che l'abbandono improvviso desse troppo spazio alla rivincita degli avversari politici; ben altra prudenza occorreva al suo congedo, ben altra preparazione affinché il suo ritiro non fosse immediatamente la sua rovina

Il filosofo per intanto non aveva altra scelta che restare in bilico tra due. 

Proprio da questo stato precario sorse il suo capolavoro, del De tranquillitate animi, manuale pratico per conseguire e mantenere l'animo equilibrato, dedicato all'allievo Sereno, ed espressione chiara del suo desiderio di ritiro che campeggia – e lo segna fortemente – in questo scritto. 

«Questo stabile fondamento dell’animo i Greci lo chiamano euthymía, su cui v’è un egregio libro di Democrito; io la chiamo tranquillitas: non è infatti necessario imitare e tradurre le parole greche secondo la loro forma; la cosa propriamente, di cui è questione, va indicata con qualche nome che della voce greca deve avere la forza [espressiva] non l’aspetto» 

Democrito di Abdera, il filosofo che tradizionalmente ride della stoltezza umana, scrisse un'opera su come conseguire e mantenere l'equilibrio interiore, invece di affannarsi in cose vane che non sono altro che le manifestazioni di quelle passioni disordinate che tirano l'animo da ogni parte: perí euthymías, che divenne il riferimento d'ogni successiva trattazione di questo tema filosofico. 

Seneca stesso si sente in dovere di citare direttamente il famoso incipit democriteo: «Chi vorrà vivere tranquillamente non tratti molti affari privati né molti affari pubblici» 

In ambito romano questo tema fu ripreso dall'importante stoico di mezzo Panezio di Rodi. 

L'equilibrio interiore consisteva appunto nell'armoniosa rispondenza tra doti individuali dell'animo e vita pratica adatta al loro svilupparsi, caposaldo della sua speculazione che riformava a fondo il primo stoicismo. Fu Cicerone, che nel pensiero morale seguiva molto dappresso Panezio, a tradurre il termine greco con tranquillitas (De finibus, 5, 8, 23), che vale “bonaccia” del mare, “serenità” del cielo.  

Seneca riprende e adopera come traducente pienamente adeguato del termine greco il tranquillitas ciceroniano, ed anzi l'uso consolidato che ne fa negli scritti morali gli permette di omettere spesso il determinante animi, bastando ormai il determinato tranquillitas a convogliare da solo l'idea di “animo equilibrato”, “equilibrio interiore” e simili. Ma nello stesso tempo si avvicina a posizioni epicuree e ciniche nel limitare l'azione, in un momento in cui più viva si fa in lui la volontà di ritiro. 

Un manuale di ricerca psicologica e spirituale di una modernità straordinaria. Immortale.

Seneca Lucio Anneo(Cordova 4 a.C. – Roma 65 d.C.), filosofo, uomo di Stato e drammaturgo, fu tra i massimi esponenti dello stoicismo romano. Fu condannato a morte da Nerone, di cui era stato precettore e consigliere.



27/09/21

L'incredibile, terribile, suicidio di Seneca


Il cosiddetto Pseudo Seneca, busto romano in bronzo risalente
al I sec. a.C. ritrovato a Ercolano nel Settecento e conservato al 
Museo Archeologico Nazionale di Napoli


L'occasione del fallimento della cosiddetta Congiura dei Pisoni, nell'aprile del 65 d.C. offrì a Nerone, ormai sempre più invasato e assetato di potere, di potersi liberare di Seneca, che era stato suo tutore e dal quale si era dopo cinque anni progressivamente e completamente emancipato, con gravi conseguenze per l'Impero. 

In realtà sembra che della famosa Congiura Seneca fosse solamente informato, e che non vi prese parte direttamente.

Nerone però fu inflessibile e il sessantunenne Seneca ricevette quindi l'ordine di togliersi la vita, o meglio gli venne fatto capire che se non lo avesse fatto, morendo "onorevolmente" secondo i principi del mos maiorum, cioè della tradizione romana, sarebbe stato giustiziato comunque

Non volendo sottrarsi, Seneca optò per il suicidio. 

I particolari di questa morte sono però particolarmente raccapriccianti. 

Seneca dapprima si rivolge agli allievi, poi alla moglie Pompea Paolina, che vorrebbe suicidarsi con lui: il filosofo la spinge a non farlo, ma lei insiste.

Per Seneca il suicidio era in perfetta armonia con i principi professati dallo stoicismo, di cui Seneca fu uno dei maggiori esponenti: il saggio deve giovare allo Stato, res publica minor, ma, piuttosto che compromettere la propria integrità morale, deve essere pronto all'extrema ratio del suicidio. 

E' Tacito, qualche decennio dopo, a raccontarne i particolari, elogiandone la coerenza di vita:

«Frenava, intanto, le lacrime dei presenti, ora col semplice ragionamento, ora parlando con maggiore energia e, richiamando gli amici alla fortezza dell'animo, chiedeva loro dove fossero i precetti della saggezza, e dove quelle meditazioni che la ragione aveva dettato per tanti anni contro le fatalità della sorte. A chi mai, infatti, era stata ignota la ferocia di Nerone? Non gli rimaneva ormai più, dopo aver ucciso madre e fratello, che aggiungere l'assassinio del suo educatore e maestro.»

(Annales, XV, 62)

Seneca affrontò l'ora fatale con la serena consapevolezza del filosofo: egli, come racconta Tacito, come ogni vero saggio deve raggiungere infatti l’apatheia, ovvero l'imperturbabilità che lo rende impassibile di fronte ai casi della sorte. 

Dopo il discorso ai discepoli, Seneca compie l'atto estremo:


«Dopo queste parole, tagliano le vene del braccio in un solo colpo. Seneca, poiché il suo corpo vecchio ed indebolito dal vitto frugale procurava una lenta fuoriuscita al sangue, si recise anche le vene delle gambe e delle ginocchia.»

(Annales, XV, 63)

Con l'aiuto del suo medico e dei servi, si tagliò quindi le vene, prima dei polsi, poi - poiché il sangue, lento per la vecchiaia e lo scarso cibo che assumeva, non defluiva - per accelerare la morte si tagliò anche le vene delle gambe e delle ginocchia, fece trasferire la moglie in un'altra stanza facendo ricorso anche ad una bevanda a base di cicuta, il  veleno usato anche da Socrate. Tuttavia nemmeno quello ebbe effetto: la lenta emorragia non permise al veleno di entrare rapidamente in circolo. Così, memore del suicidio di un amico, Seneca si immerse in una vasca d'acqua bollente per favorire la perdita di sangue «spruzzandone i servi più vicini e dicendo di fare con quel liquido libazioni a Giove». 

Ma alla fine raggiunse una morte lenta e straziante, che arrivò, secondo lo storico, per soffocamento causato dai vapori caldi, dopo che Seneca fu portato, quando fu entrato nella tinozza, in una stanza adibita a bagno e quindi molto calda, dove non poteva respirare (ed essendo lui sofferente da sempre di problemi respiratori). I soldati e i domestici invece impedirono a Paolina, priva ormai di sensi, di suicidarsi, proprio mentre Seneca stava assumendo il veleno:

«Nerone però, non avendo motivi di odio personale contro Paolina, e per non rendere ancora più impopolare la propria crudeltà, ordina di impedirne la morte. Così, sollecitati dai soldati, schiavi e liberti le legano le braccia e le tamponano il sangue; e, se ne avesse coscienza, è incerto. Non mancarono, infatti, perché il volgo inclina sempre alle versioni deteriori, persone convinte che Paolina abbia ricercato la gloria di morire insieme al marito, finché ebbe a temere l'implacabilità di Nerone, ma che poi, al dischiudersi di una speranza migliore, sia stata vinta dalla lusinga della vita. Dopo il marito, visse ancora pochi anni, conservandone memoria degnissima e con impressi sul volto bianco e nelle membra i segni di un pallore attestante che molto del suo spirito vitale se n'era andato con lui. Seneca intanto, protraendosi la vita in un lento avvicinarsi della morte, prega Anneo Stazio, da tempo suo amico provato e competente nell'arte medica, di somministrargli quel veleno, già pronto da molto, con cui si facevano morire ad Atene le persone condannate da sentenza popolare. Avutolo, lo bevve, ma senza effetto, per essere già fredde le membra e insensibile il corpo all'azione del veleno. Da ultimo, entrò in una vasca d'acqua calda, ne asperse gli schiavi più vicini e aggiunse che, con quel liquido, libava a Giove liberatore. Portato poi in un bagno caldissimo, spirò a causa del vapore e venne cremato senza cerimonia alcuna. Così aveva già indicato nel suo testamento, quando, nel pieno della ricchezza e del potere, volgeva il pensiero al momento della fine.»

(Annales, XV, 64)

Vista la lunga serie di metodi di suicidio messi in atto da Seneca (anziché un solo metodo diretto ed immediatamente efficace, come quelli scelti da Bruto o da Nerone stesso: ad esempio pugnalarsi alla gola o al cuore, dalla clavicola, mentre un servo o un amico reggeva la spada; questa era in effetti la consuetudine più diffusa tra i romani nobili e i militari) e la somiglianza evidente in certi particolari (il discorso, la cicuta, poi la libagione alla divinità) con la morte di Socrate, è stato anche ipotizzato che Tacito abbia costruito lui stesso il racconto ad imitazione del testo platonico della morte di Socrate, e che la morte del filosofo sia stata più rapida.


Fonte: Wikipedia