Verso la fine degli anni 50 d.C., la posizione di Seneca presso Nerone vacilla, traballa fortemente, mentre lo splendore dell'aula, seppure ancora abbaglia, sempre meno copre il disgusto delle sue sordidezze e i compromessi a cui il filosofo è costretto per mantenere un rango politico in declino.
Nitida già si profila la scelta che già fu, prima di Seneca, di Atenodoro, il filosofo e direttore di coscienza d'Augusto, che volle a un certo punto ritirarsi dai compiti di corte.
Ma troppo, afferma Seneca, si sottomise Atenodoro ai tempi, troppo velocemente prese la via di fuga; a lui non è possibile e non è consona questa condotta: «Né io negherei che talvolta occorra cedere, ma pian piano, a passo indietro, portando in salvo le insegne e l’onore militare: sono più assicurati e protetti dai loro nemici coloro che si arrendono in armi»
Invero ben altra era stata la funzione pubblica di Seneca presso Nerone da quella tutta privata di Atenodoro presso Augusto.
Per questo non gli era possibile lasciare bruscamente l'imperatore senza l'assenso di lui, e rischiare che l'abbandono improvviso desse troppo spazio alla rivincita degli avversari politici; ben altra prudenza occorreva al suo congedo, ben altra preparazione affinché il suo ritiro non fosse immediatamente la sua rovina.
Il filosofo per intanto non aveva altra scelta che restare in bilico tra due.
Proprio da questo stato precario sorse il suo capolavoro, del De tranquillitate animi, manuale pratico per conseguire e mantenere l'animo equilibrato, dedicato all'allievo Sereno, ed espressione chiara del suo desiderio di ritiro che campeggia – e lo segna fortemente – in questo scritto.
«Questo stabile fondamento dell’animo i Greci lo chiamano euthymía, su cui v’è un egregio libro di Democrito; io la chiamo tranquillitas: non è infatti necessario imitare e tradurre le parole greche secondo la loro forma; la cosa propriamente, di cui è questione, va indicata con qualche nome che della voce greca deve avere la forza [espressiva] non l’aspetto»
Democrito di Abdera, il filosofo che tradizionalmente ride della stoltezza umana, scrisse un'opera su come conseguire e mantenere l'equilibrio interiore, invece di affannarsi in cose vane che non sono altro che le manifestazioni di quelle passioni disordinate che tirano l'animo da ogni parte: perí euthymías, che divenne il riferimento d'ogni successiva trattazione di questo tema filosofico.
Seneca stesso si sente in dovere di citare direttamente il famoso incipit democriteo: «Chi vorrà vivere tranquillamente non tratti molti affari privati né molti affari pubblici»
In ambito romano questo tema fu ripreso dall'importante stoico di mezzo Panezio di Rodi.
L'equilibrio interiore consisteva appunto nell'armoniosa rispondenza tra doti individuali dell'animo e vita pratica adatta al loro svilupparsi, caposaldo della sua speculazione che riformava a fondo il primo stoicismo. Fu Cicerone, che nel pensiero morale seguiva molto dappresso Panezio, a tradurre il termine greco con tranquillitas (De finibus, 5, 8, 23), che vale “bonaccia” del mare, “serenità” del cielo.
Seneca riprende e adopera come traducente pienamente adeguato del termine greco il tranquillitas ciceroniano, ed anzi l'uso consolidato che ne fa negli scritti morali gli permette di omettere spesso il determinante animi, bastando ormai il determinato tranquillitas a convogliare da solo l'idea di “animo equilibrato”, “equilibrio interiore” e simili. Ma nello stesso tempo si avvicina a posizioni epicuree e ciniche nel limitare l'azione, in un momento in cui più viva si fa in lui la volontà di ritiro.
Un manuale di ricerca psicologica e spirituale di una modernità straordinaria. Immortale.
Seneca Lucio Anneo(Cordova 4 a.C. – Roma 65 d.C.), filosofo, uomo di Stato e drammaturgo, fu tra i massimi esponenti dello stoicismo romano. Fu condannato a morte da Nerone, di cui era stato precettore e consigliere.
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