31/07/20

Luoghi dell'Anima: Cabo Espichel, in Portogallo. Un posto e una storia bellissimi




        La storia della cristianità non è fatta solo di grandi templi, magnificenza, ori e porpora, ma anche – e soprattutto? – di luoghi umili, fuori dalle rotte, di pietre dimenticate, o mute, di storie minute sussurrate dal vento.
        Una di queste storie, una storia semplice, l’ho trovata molti anni fa, in Portogallo.
        Lisbona, all’epoca, era un cantiere sterminato, in vista dell’Esposizione Universale del 1998, che doveva cambiare la faccia a un paese rimasto ancorato alle struggenti malinconie della sua terra e della sua musica, anche dopo la fine della dittatura salazarista, la più lunga di tutto il Novecento in Europa.
        In quei giorni non c’era una sola parte di Lisbona immune dal frastuono delle ruspe. Una nuvola bianca di polvere, enorme, si levava al di sopra del Bairro Alto, della Baixa, dell’Alfama.
        Dalla terrazza dell’Elevador de Santa Justa, ardita costruzione del prediletto allievo di Eiffel, riuscivi a vedere i colpi inferti alla città, in ogni direzione, e il traffico impazzito, in coda sul Ponte 25 Aprile (l’unico mezzo per varcare l’estuario del Tago, prima della costruzione dell’immenso ponte Vasco de Gama, realizzato appunto per quella Esposizione Universale), sotto il sole cocente.
        Fu scelta obbligata lasciarsi alle spalle il prima possibile l’infernale caos, e fuggire verso sud, dove solerti depliants forniti dalla receptioniste dell’albergo di Lisbona, promettevano paesaggi deserti, spiagge selvagge, e invitanti degustazioni gastronomiche.
       Il Portogallo vive del suo mare.
       Nel bene o nel male, ne determina i destini. Il clima più piovoso d’Europa condiziona l’umore degli abitanti, lo spazio sconfinato che si spalanca dietro ogni curva di strada statale dirotta il pensiero su termini immateriali.
       Succede così anche quando si imbocca, in macchina, l’autostrada IP1, che arriva in poche ore fino alle coste dell’Algarve.
        Questa strada, appena oltrepassato l’enorme ponte sospeso sull’estuario del Tejo, com’è il nome del fiume in portoghese,  devìa leggermente verso destra, verso la costa atlantica, per poi dirigersi verso Setubàl.  A sud di Lisbona il litorale dapprima è sabbioso,  poi all’improvviso si ergono le rocce scoscese della Sierra de Arrabida, il promontorio che culmina nel Cabo Espichel,  secondo lembo più occidentale di tutto il continente europeo.
        Il primato in questo senso spetta infatti al Cabo da Roca (pochi chilometri a nord di Lisbona), quello che i romani chiamarono promontorium magnum,  leggendario punto di partenza   dei navigatori portoghesi, cantato da Camoes nelle Lusiadi.
            Onde a terra acaba/ e o mar comeca  Dove la terra finisce e il mare comincia.

            Ma se si immagina un Finisterre, il Cabo Espichel non ha eguali.  
            La strada si divide in due prima di Sesimbra, e punta dritto verso il margine del  promontorio.  Sembra non offrire alternative, giunti all’ennesima curva, di non poter far altro che terminare nel vuoto.
            Così è.



            La strada asfaltata si ferma qualche decina di metri prima di un antico, isolato complesso religiosa, diviene una lingua di sterrato che prosegue oltre e non si ferma fino all’ampia distesa di terra che un centimetro dopo precipita nell’oceano. Cabo Espichel è una specie di zoccolo di roccia, spianato, 180 metri a strapiombo sul mare.  Vi si arriva attratti dal magnete del grande Faro bianco, che svetta di lato, sulla scogliera. Poi, si entra, senza quasi accorgersi, in un lunghissimo recinto rettangolare. Sullo sfondo, la facciata della Chiesa di Nossa Senhora do Cabo, come viene comunemente chiamata dalla gente del posto, nonostante il nome esatto sia: Santuario de Nossa Senhora de Pedra Mua. Ai lati della Chiesa, in un perimetro perfettamente rettangolare, le due ante dell’Hospedarias, l’alloggio per i pellegrini, che cominciarono a visitare questo luogo, sempre più numerosi, a partire dal XII secolo.
            Prima di entrare in chiesa, oltrepassandola, si procede verso la scogliera, arrivando proprio sul punto più a strapiombo della costa.  I gabbiani, guinchos come li chiamano qui, disegnano rapide traiettorie nel vento forte. L’aria è tersa, l’orizzonte ampio, senza più ostacoli. Qui, come in tutto il Portogallo, è ancora viva la memoria dell'epopea del descumbrimiento, l'epoca delle navigazioni che portarono i malinconici e impavidi lusitani lungo le coste dell'Africa e nelle terre più remote del pianeta.  I vecchi della zona conoscono a memoria i racconti tramandati da intere generazioni,  di tempi dimenticati, quando i fari andavano ad olio di oliva, e qualche volta facevano cilecca: le navi nel mare, quand’era in tempesta, si illudevano, attratti come falene dalla luce di Espichel,  d’essere ormai in vista del porto di Lisbona, e finivano per schiantarsi contro la scogliera.
           Le sventure dei naviganti non finivano nemmeno con il naufragio, perché nascosti tra i rovi, sotto la pioggia, c’erano pirati ad  attendere i  superstiti, per ucciderli e saccheggiare il bottino.
            Approfittavano, gli assassini, di quegli unici sentieri che scendono ancora oggi stretti e serpeggianti sul fianco della scogliera, ma che è meglio conoscere bene prima di affrontarli, se non si vuol finire nel precipizio: dicono che questi sentieri siano stati tracciati centinaia di anni fa, dai pacifici pescatori che vivevano qui, prima ancora dei pirati,  e che benedivano ogni giorno questi fondali ricchi di pesci, soprattutto bacalao, e bodiao, e poi alghe, cucinate direttamente sul fuoco ed erano, sembra, gustosissime.
          Deve essere capitato ad uno di questi pescatori, un semplice umile pescatore tra tanti, in un mattino di luce, di scorgere all’improvviso, quella misteriosa visione, mentre risaliva dal suo scoglio. Fu un prodigio inspiegabile, la cui fama si diffuse come un lampo, in un’epoca in cui  il Portogallo era tornato ad essere cristiano. Nel 1064 Coimbra era stata riconquistata, strappata agli arabi,  dopo quasi quattro secoli. Diventava nuovamente capitale del Regno.
         Ed ecco che in questo villaggio sperduto, eremo estremo verso l’occidente, un pescatore scorge un segno:  Maria - Nossa Senhora per il popolo, per gli umili, le donne, i pescatori -  la madre di Gesù, appare a cavallo di una mula.
          Non esistono descrizioni ufficiali dell’evento: possiamo soltanto immaginarlo. Possiamo immaginare la diffidenza e lo spavento, gli sguardi sospetti, e la propagazione del racconto del pescatore. Che a quanto pare, non ebbe altri testimoni, oltre a lui. La convocazione da parte di qualche alto prelato, gli interrogatori, i tentativi di dissuasione, forse. L’ostinazione del pescatore.
          Il miracolo quotidiano del cristianesimo è anche questo:  che in un luogo così, la voce di un pescatore in un mattino assolato, diventi fede. Fede per tutti.
          Non sappiamo attraverso quali passaggi la tradizione orale si trasformò in convincimento e fede, e memoria di e per tutti.  Quel che sappiamo è che la leggenda, nel trascorrere delle generazioni, aggiungeva ogni volta nuovi particolari, come quello secondo cui la mula, la mula di Cabo Espichel, la mula di Maria, aveva lasciato perfino delle impronte, bene impresse in una pietra, sulla scogliera, pietra che naturalmente divenne oggetto di venerazione.
          E così, dopo  tre secoli, tre secoli durante i quali questa storia divenne il cemento di una intera popolazione,  nel 1410 si costruì il primo santuario, anzi più propriamente l’eremo, pensato espressamente per loro, i mareantes, la gente del mare, gli eterni protagonisti delle stagioni di Espichel. All’inizio doveva essere solo una piccola costruzione, minima come quella che adesso si ammira a circa 100 metri dalla Chiesa, e oggi è conosciuta come Ermida da Memória o anche  Capela da Memória, minuta cappella con cupola,  all’interno decorata con splendidi azulejos azzurri e bianchi. 
         E’ questo il luogo esatto in cui apparve la visione e in cui fu originariamente conservata l’immagine della Vergine, di origine misteriosa, che celebrava l’apparizione di Maria sulla Mula.
          Questa immagine era il lasciapassare per ogni impresa, per ogni avventura tra le onde, per ogni giornata di duro travaglio lontano da casa, consegnati mani e piedi al capriccio della sorte, e delle tempeste. Di tutto quel che l’uomo non può mai controllare, e lo aspetta nel buio della notte, nel vento improvviso, nella mareggiata che spezza la schiena,  e non perdona.  Dove oggi sorge la rozza croce di pietra, lì iniziava la lenta processione dei mareantes, verso l’immagine della Vergine.



I due lati porticati dell’Hospedarias , una volta occupati dagli alloggi per i pellegrini, oggi sono in abbandono, fatiscenti, chiusi.   Soltanto vicino alla Chiesa c’è una piccola bottega, che vende bevande fresche, e qualche vecchia cartolina. 
           Una vecchia contadina, che vende semplicemente le sue mercanzie dentro cassette di legno, ci guarda, spiega che ha imparato un po’ di italiano da un lontano parente, scappato al fascismo, e rimasto lì per cinque anni prima di riuscire a imbarcarsi per l’America.
           Lei si chiama Maria Dominga, ci dice, e quel nome le è stato imposto proprio in onore di Nossa Senhora. Per loro, per la gente di Espichel, Nossa Senhora è una persona, prima di tutto. Qualcuno a cui affidarsi, che capisce, che dà consigli. “Molte tragedie”, ci dice, parandosi gli occhi dal sole, con la mano rugosa dritta come un ventaglio, “sono state evitate da lei, è lei che ha detto a un uomo, prima della tempesta: non andare ! E lui non è partito. Si è salvato.”
            Davvero ?
            “Anche mio marito non è partito,” spiega seriamente con uno sguardo da bambina corrucciata in un volto di vecchia, “il giorno dopo c’era tempesta, una tempesta  grande, muito muito…. Grande   agita la mano, per far intendere che si tratta di qualcosa veramente memorabile.   “ E il mio marito fu livre de perigro , seguro.”
            E’ ancora vivo ?  No, risponde, non è più vivo, ma una malattia, sembrerebbe quasi voglia dire con quel ciondolare della testa, una giusta malattia – non l’ingiusta tempesta – lo ha portato via.
            Poi ci fa segno di seguirla. 
            Di nuovo attraversiamo il piazzale dietro la chiesa, sotto il sole.   Ci conduce, con andatura spedita, senza esitazioni, fino al punto di osservazione dove eravamo poco prima.
           Poi ci chiede di osservare una linea nella roccia della scogliera, verso sud, la dove le falesie sono altissime.   Effettivamente, guardando con attenzione, c’è una linea più scura, che attraversa diagonalmente la parete scoscesa, come la vena di una mano.
          “ La vedete ?  Quella fenda…si è formata quando…. È arrivato il grande tremor de terra ! ”
          So a cosa si riferisce, naturalmente.  So cosa intendono i portoghesi quando si parla di ‘grande tremor de terra’.   ‘Il’ terremoto,  quello vero, qui è stato uno soltanto, quello che nessuno – come idea - ha mai dimenticato, nessuno che viva qui.  Il terremoto del 1755.   Uno dei più spaventosi terremoti che abbiano mai scosso il suolo della terra, a memoria d’uomo.
          “ Quella fenda non esisteva, prima, “ disse la donna, “ a mio padre lo raccontò mio nonno, e a mio nonno, suo nonno..”
          Capimmo cosa sosteneva.  La crepa sulla scogliera, questo intendeva, si era formata quel giorno del 1755, e aveva rischiato di spaccare per sempre la montagna in due, portando in fondo all’Oceano il Cabo Espichel, con il suo santuario.  
           Oracao, pedido…”
           Erano state le preghiere, questo ci disse, a fermare la crepa nella montagna.  Il racconto dei nonni sosteneva che tutta la gente di Cabo Espichel, quando la terra aveva preso a tremare, come mai nella storia, e le onde si erano alzate fino a cento metri,  tutta la gente, si era chiusa dentro il Santuario a pregare.  E la sorte sembrava segnata, perché quella crepa sulla scogliera voleva soltanto dire che….
           Ma le preghiere a Nossa Senhora, furono ascoltate.
           Nossa Senhora non voleva questo. Voleva proteggere la gente di Cabo Espichel.
           La donna indicò ancora la riga scura sulla scogliera:
           “ Sì è fermata, da quel giorno ! Si è fermata lì. E non si è più mossa.  La fenda è ferma, da più di duecento anni ! “
         
           Quando tornammo a Lisbona, qualche giorno dopo, ripensai al grande terremoto del 1755, che in qualche modo i furori dei cantieri in corso evocavano con fumi e strepiti. La mattina del primo novembre di quell’anno, 1755, un sisma del nono grado della scala Richter rase al suolo questa città, causando quasi centomila morti.  Le scosse provocarono danni incalcolabili in tutto il Portogallo, perfino in zone lontanissime dalla  capitale, come la costa dell’Algarve, interessando 10 milioni di chilometri quadrati di territorio. Il terremoto fu avvertito in Olanda, nelle Antille, nelle Barbados, e i danni furono disastrosi perfino sulle coste del Marocco.  6 interminabili minuti di puro terrore. Il mare, a Lisbona – raccontarono i pochi superstiti – si ritirò del tutto, lasciando le barche in secca; dopo qualche minuto un’onda spaventosa si abbattè   su tutta la costa aggiungendo nuova devastazione, penetrando nell’entroterra, fino alle colline di Cintra.
           L’apocalisse, quel giorno, bussò alle porte di un paese sfortunato, lo lasciò in ginocchio, ancor più motivato nel suo ‘bisogno di sventure’.
           In tanta devastazione, Cabo Espichel, il fragile sperone di roccia, aveva resistito.  Il silenzio era salvo.  L’impronta prodigiosa della mula, era ancora al suo posto.  E la
semplice fede di  Maria Dominga si rinnovava ogni giorno nel simbolo della linea scura della fenda, che una misericordia non umana, aveva cristallizzato sul fianco della scogliera, per sempre.



Tratto da: Fabrizio Falconi, Dieci Luoghi dell'Anima, Cantagalli Editore, 2009 - Vedi il libro su Amazon clicca qui

30/07/20

Naufragio nel 1712: il mare della Sardegna restituisce un incredibile tesoro di monete d'oro




Un eccezionale ritrovamento di monete antiche nei fondali del Golfo di Orosei e' stato possibile grazie alla segnalazione di un subacqueo tedesco, che la scorsa estate aveva rinvenuto i primi 11 reperti. 

Grazie alla collaborazione tra i carabinieri del comando provinciale di Nuoro - a cui l'uomo aveva segnalato il caso - e dei nuclei Tutela patrimonio culturale e subacquei di Cagliari, al termine di una campagna di prospezioni archeologiche marine durata tutta l'estate scorsa, sono stati rinvenute 46 monete antiche di cui 27 in oro di conio spagnolo risalenti al periodo XVI-XVIII secolo, 3 in oro di conio francese (presumibilmente Luigi XV), 2 piemontesi del XVII sec. e 14 in argento di conio spagnolo del XVII sec.; 3 frammenti ceramici di anfore, un frammento di ceramica decorata con smalti ed un frammento di metallo, tutti di presunta epoca romana. E' stato individuato inoltre un timone di grosse dimensioni, di quasi 5 metri attribuibile ad una nave spagnola del XVII secolo. 

"Si tratta di uno dei ritrovamenti piu' importanti nel Mediterraneo - ha spiegato il dirigente della Soprintendenza Archeologica Belle Arti e Paesaggio di Sassari e Nuoro Bruno Billeci, nel corso di una conferenza stampa nella sede del comando provinciale dei carabinieri di Nuoro -. L'ipotesi piu' plausibile è che le monete siano finite in acqua in seguito a un naufragio di una media imbarcazione che trasportava una riserva aurea, a ridosso del 1712, visto che alcune monete conservavano un filo di conio di quell'anno

Abbiamo condotto l'attivita' di controllo con i funzionari e tecnici responsabili di archeologia subacquea e le monete ritrovate sono variamente datate dal 1556 al 1712. Molte sono in stato di conservazione ottimale altre sono fortemente degradate e sono in corso di restauro nel nostro centro di Li Punti. La maggior parte delle monete sono spagnole". 

29/07/20

Quando i nazisti bruciarono le Navi di Caligola a Nemi

L'Ancora di legno di una delle due Navi di Caligola recuperata negli anni '20 e '30 nel Lago di Nemi


I nazisti in ritirata bruciarono le navi di Caligola e ora il comune di Nemi chiede i danni alla Germania

La giunta comunale della cittadina laziale ha votato una delibera su proposta del primo cittadino, Alberto Bertucci per chiedere i danni alla Germania per la distruzione "delle due famose navi romane dell'Imperatore Caligola". 

Le due navi, ritrovate nel secolo scorso tra il 1928 e il 1932, furono 'dolosamente e intenzionalmente bruciate la notte del 31 maggio 1944 dal 163° Gruppo Antiaereo Motorizzato tedesco che occupava la zona ed era in ritirata'. 

Dunque "quel danno irreparabile di un bene archeologico non fu il risultato di una imprevedibile azione bellica ma -spiega il sindaco Bertucci- un consapevole gesto di sfregio. Per questo chiediamo il risarcimento". 

"Si ritiene - aggiunge il Sindaco Alberto Bertucci" di sottoporre a giudizio risarcitorio nei confronti della Repubblica Federale di Germania per i danni morali e materiali subiti dalla collettivita' di Nemi a causa dell'irreparabile danno causato a un bene archeologico di inestimabile valore". 

"Abbiamo ritrovato relazioni, ampie documentazioni, testimonianze: i nazisti allontanarono tutti i residenti e il custode. Decisero di dare alle fiamme quei tesori. Non c'e' dubbio", aggiunge Bertucci. Il sindaco (che guida una lista civica di centro) pero' va oltre: «Noi non chiediamo semplicemente i danni. 

Vorremmo che, con un gesto significativo di spirito europeo, le autorita' tedesche collaborassero con noi per ricostruire cio' che emerse delle due navi ricorrendo alle nuove tecnologie di riproduzione. Grazie a un libro dell'Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato del tempo, abbiamo una grande mole di dati, misure, immagini per procedere a un'opera di riproduzione, in concorso col governo tedesco e magari con la mediazione del nostro ministero per i Beni e le attivita' culturali». 


28/07/20

Libro del Giorno: "Padri e figli" di Ivan Turgenev





Padri e Figli, (in russo Отцы и дети) fu pubblicato nel 1862 da Ivan Turgenev che nel romanzo affronta l'emersione della mentalità rivoluzionaria nella Russia della seconda metà del XIX secolo e la conseguente crescente protesta contro il regime in atto e la mentalità conservatrice della società del tempo. 

Il titolo evoca quindi la nuova relazione della giovane generazione con quella dei suoi padri, la prima animata da ideali sovversivi e rivolta al progresso sociopolitico.

Il romanzo fu pubblicato per la prima volta in Le Messager Russe nel 1862. E fu proprio Turgenev il primo a rendere popolare il termine nichilismo, con il romanzo che suscitò accese polemiche nella Russia di Alessandro II, al punto che l'autore lavorò nel corso degli anni a sei nuove edizioni del suo capolavoro: nel 1862, 1865, 1869, 1874, 1880 e 1883. 

La storia si svolge attorno a un conflitto ideologico tra generazioni. 

Il romanzo inizia il 20 maggio 1859, quando Nikolaij Petrovic Kirsanov accoglie suo figlio Arcadij tornato dall'università,accompagnato dal personaggio centrale del romanzo, Evgenij Vassiliev Bazarov, che conosce e professa idee materialiste e anti-tradizionaliste. 

Nikolaij Petrovic vive con suo fratello Pavel, un personaggio dal carattere malinconico e orgoglioso e meno liberale di suo fratello. Nikolaj cerca di aprirsi alle idee moderne e vive pacificamente nel suo dominio terriero. 

Vedovo, la sua padrona è Fenecka, uno dei suoi contadini, di cui è il padre del bambino. 

Dopo un'accesa discussione con lo zio Pavel, i due giovani preferiscono andare in città con i genitori di Bazarov, che incarnano invece valori tradizionali della Russia. 

Incontrano Anna Sergeevna, una ricca vedova di 29 anni, che li invita a farle visita nella sua tenuta dove vive anche la sua giovane sorella Katja, piuttosto ritirata. 

Evgenij si innamora contro ogni sua previsione, di Anna e, nonostante i suoi principi rivoluzionari, dichiara il suo amore per lei, il che sconcerta la giovane donna. 

Arkadij, nel frattempo, si sente attratto da Katia. 

I due studenti tornano quindi dai genitori di Bazarov e poi nuovamente da Nicolaij Petrovic, dove si impegnano in nuove discussioni ed Evgenij in nuovi esperimenti scientifici. 

E' qui che una discussione con lo zio Pavel degenera in un duello tra i due uomini. Pavel viene colpito alla gamba. Arkadj dichiara il suo amore a Katia. 

La fine del romanzo è tragica e coinvolge Evgenij mentre gli altri personaggi vanno poi verso il loro destino: Arcadij sposa Katia, Pavel si traferisce all'estero, in Germania, Anna Sergeevna si sposa a Mosca. 

Un romanzo straordinario e perfetto, dove ogni pagina è una lezione di letteratura. 

Traduzione di Giuseppe Pochettino
Introduzione a cura di Franco Cordelli
2014 
ET Classici 
pp. 264 
€ 10,50 
ISBN 9788806224134

    27/07/20

    E' morta a 104 anni Olivia de Havilland



    Si è spenta ieri a Parigi, all'età di ben 104 anni, Olivia de Havilland, una delle più celebri attrici del Novecento. Pubblico qui il ricordo di Alessandra Baldini per Ansa:

    Addio all'ultima delle grandi dive dell'epoca d'oro di Hollywood e ultima sopravvissuta del cast principale di "Via col Vento": Olivia de Havilland e' morta nel sonno nella sua casa parigina. 

    L'indimenticabile Melania Wilkes della saga ideata da Margaret Mitchell e adattata da Hollywood in uno dei suoi primi film in Technicolor aveva da poco compiuto 104 anni e una foto (incerto quando fosse stata scattata) che la ritraeva su una bicicletta a tre ruote era per l'occasione diventata popolarissima su Twitter. 

    Dame Olivia viveva dal 1955 a Parigi, in un appartamento vicino al Bois de Boulogne

    L'attrice, il cui debutto risale al 1935 in "Sogno di Una Notte di Mezza Estate", non doveva aver preso di buon grado l'annuncio di qualche giorno fa che Hbo aveva sospeso dalla programmazione in streaming di "Via col Vento" sulla scia delle proteste del Black Lives Matter. 

    Il film, per cui De Havilland, rivale in amore della protagonista Rossella O'Hara, conquisto' una nomination ma non l'Oscar che ando' invece a Hattie McDaniel (la nera "Mamie"), e' stato poi riportato in circolo con una nuova introduzione che inquadra la saga ambientata al tempo della Guerra Civile nel contesto storico della piaga della schiavitu'. 

    Al contrario del personaggio della dolce (ma forte) Melania, De Havilland e' sempre stata una "tosta" e l'avanzare degli anni non le aveva tolto il gusto per le battaglie anche nelle aule dei tribunali. 

    Solo due anni fa Olivia aveva portato davanti al giudice "Feud: Bette and Joan", un docudramma del canale FX, sostenendo che il suo personaggio era stato inserito nel copione senza permesso, travisando per di piu' i suoi rapporti con le protagoniste, Bette Davis e Joan Crawford, e con la sorella Joan Fontaine

    L'attrice aveva perso la causa, arrivata l'anno scorso fino alla Corte Suprema. 

    Olivia De Havilland era diventata famosa negli anni Trenta al fianco di Errol Flynn in una serie di film "cappa e spada" come "Captain Blood" e "Le Avventure di Robin Hood": ruoli di "damigella in pericolo" in cui inevitabilmente finiva prigioniera per poi essere salvata dall'eroe di turno. 

    Se l'Oscar per "Via col Vento" le era sfuggito, la diva conquisto' comunque due Academy Awards: il primo nel 1946 per "A Ciascuno il Suo Destino" nella parte di una madre che cerca di riconquistare il figlio dato in adozione; il secondo per "L"Ereditiera": una donna controllata dal ricco padre e tradita da un amante avido ma che alla fine riesce a dire l'ultima parola.

     Politicamente Olivia era di sinistra, intollerante pero' degli estremismi di qualsiasi colore politico: nemica dei comunisti di Hollywood ma anche chiamata a deporre in Congresso negli anni del Maccartismo. Negli anni Ottanta era passata a lavorare con la televisione e aveva vinto un Golden Globe per "Anastasia: The Mystery of Anna". 

    26/07/20

    Poesia della Domenica: "Alhambra" di Fabrizio Falconi






    Alhambra


    arriva il culmine in cui sei stanco
    hai valicato e sei disceso
    in pianura ma le gambe
    non ti reggono.

    Alhambra vorresti per rinfrescare
    le membra, un laccio rosso
    per abbandonare i tuoi sensi
    non pensarci più
    promuovere l'onda
    del tuo dissesto
    nei passi che restano
    all'ombra di te relitto
    senza più lamentazioni
    risentire il soffio di primavera
    almeno una volta
    all'ombra
    perdere la testa
    sotto le fronde
    dell'olmo
    riposare gli occhi 
    senza domande, senza questioni
    senza tranelli da scartare
    senza pretese assillanti
    o margini,
    solo il ronzio delle api
    che finirà al tramonto
    prima della caduta
    notturna.






    25/07/20

    Libro del Giorno: "Armance" di Stendhal


    Armance (pubblicato senza il nome dell'autore, nel 1827 ) è il primo romanzo di Stendhal . 

    La trama è ambientata ai  tempi della Restaurazione: Octave de Malivert, un giovane brillante ma introverso appena uscito dal Polytechnique, ama Armance de Zohiloff, che condivide i suoi sentimenti. 

    Ma Octave nasconde un pesante segreto: “Sì cara amica”, le disse, guardandola infine, “Ti adoro, non dubiti del mio amore; ma chi è l'uomo che ti adora? è un mostro. " 

    Octave è in preda a una profonda confusione interiore, e il suo silenzio illustra il male del secolo dei romantici. 

    Octave tuttavia sposa Armance. Il loro matrimonio sembra felice. Ma, una settimana dopo il  matrimonio, Octave decide di andare in Grecia, dove decide di avvelenarsi volontariamente con una miscela di oppio e digitale durante il viaggio in nave.  

    “Il sorriso era sulle sue labbra e la sua rara bellezza colpiva anche i marinai incaricati di seppellirlo." 

    Con note scritte a margine delle pagine della sua copia personale di Armance , Stendhal ha riassunto l'argomento del suo lavoro come segue: “Il protagonista è confuso e infuriato perché si sente impotente, cosa di cui si è assicurato andando alla signora Auguste con i suoi amici, poi da solo, ecc. La sua sventura lo priva della ragione proprio nei momenti in cui è in grado di vedere più da vicino le grazie femminili.  1) Si vede disprezzato dall'unica persona a cui parla sinceramente di tutto. 2) Cerca di riguadagnare questa stima; questa circostanza è assolutamente necessaria per poter prendere l'amore e ispirarlo senza sospettare. Condizione sine qua non poiché è un uomo onesto. 3) Gli dice che ama. 4) Vuole parlare. 5) Un duello e lesioni lo impediscono. 6) Credendosi pronto a morire, confessa il suo amore. 7) Il caso lo serve; la sua padrona gli fa promettere di non chiederla mai in matrimonio. 8) Lei scende a compromessi per lui in modo da essere disonorato se non la sposa. 9) Decide di ammetterle di avere un difetto fisico come Luigi XVIII, M. de Maurepas, M. de Tournelles. 10) È deviato da questo dovere da una lettera. 11) La sposa e si uccide. 

    Stendhal dunque esordì con un romanzo e con una trama destinata a far molto rumore: egli  sapeva molto discretamente come infondere il segreto senza mai parlarne apertamente e infatti per tutta la narrazione il vero problema di Octave non viene mai rivelato esplicitamente.

    André Gide considerava questo romanzo il più bello dei romanzi di Stendhal, a cui era grato di aver creato un amante impotente, anche se lo rimproverava di aver schivato il destino di questo amore: "Non sono convinto che Armance [sarebbe] venuto a patti con esso"

    Stendhal descrive, in parole segrete, un omosessuale, in un momento in cui la censura della stampa proibiva di discutere chiaramente di questo argomento. 

    E già in questo primo romanzo si rivela l'arte narrativa, sublime, di Stendhal destinata poi a eternarsi ne La Certosa di Parma e Il Rosso e il Nero.

    La presente edizione, nei Grandi Libri Garzanti, soffre di una incomprensibile sciatteria, con mille refusi sparsi per il testo e incomprensibili passaggi nella traduzione, che pure è firmata da Franco Cordelli. 




    24/07/20

    Svelato il mistero del "Mostro Marino" disegnato da Leonardo da Vinci: era un fossile di cetaceo


    fossile di Balaena Montalionis, conservato al Museo di Calci

    Non un mostro marino, ma un fossile di cetaceo: svelato il mistero della misteriosa creatura disegnata da Leonardo da Vinci sul Codice Arundel, una raccolta di scritti e disegni conservata a Londra alla British Library. 

    E' quanto rivela uno studio di ricercatori dell'Universita' di Pisa e dell'Universita' di San Diego (USA). 

    Lo studio, pubblicato nella rivista internazionale Historical Biology, e' firmato da Alberto Collareta, Marco Collareta e Giovanni Bianucci dell'Universita' di Pisa e da Annalisa Berta dell'Universita' di San Diego. "Uno dei fogli che costituiscono il Codex Arundel - spiega Alberto Collareta, paleontologo del Dipartimento di scienze della terra - contiene la descrizione delle spoglie di un poderoso mostro marino, che e' stata a lungo interpretata come divagazione fantastica o metaforica del giovane Leonardo, se non come vera e propria rielaborazione poetica di presunte letture classiche del Genio". 

     "Esistono tuttavia molte indicazioni - continua Collareta - che suggeriscono che il giovane Leonardo abbia davvero osservato una balena fossile. Un censimento dei rinvenimenti di cetacei fossili toscani dimostra come, nel corso degli ultimi due secoli, almeno otto localita' toscane nelle vicinanze di Vinci (Firenze) abbiano restituito resti fossili significativi di grandi balene". La prima a ipotizzare che il mostro marino fosse una balena fossile era stata la biologa marina statunitense Kay Etheridge nel 2014. Il nuovo studio italo-americano conferma ora la sua teoria. 

    08/07/20

    Cartier-Bresson a Venezia . Una mostra imperdibile a Palazzo Grassi, la prima Post-Covid



    Cinque sguardi d'autore sul lavoro del piu' celebre fotografo del Novecento, per costruire una mostra che e' cinque mostre, senza pero' perdere un'idea di unita'. 

    Palazzo Grassi, per la riapertura dopo l'emergenza Covid, presenta la grande esposizione "Henri Cartier-Bresson. Le Grand Jeu": partendo dalla selezione delle 385 immagini che il fotografo ha scelto nel 1973 come le sue piu' significative, il curatore Mathieu Humery ha chiesto al collezionista Francois Pinault, alla fotografa Annie Leibovitz, allo scrittore Javier Cercas, al regista Wim Wenders e alla conservatrice Sylvie Aubenas di selezionare a loro volta le immagini per loro piu' significative di Cartier Bresson. 

    "Invece di avere ancora un punto di vista singolo - ha spiegato Humery ad askanews - l'idea e' di averne cinque diversi, e ciascuno e' molto personale, perche' siamo tutti esseri umani diversi. Quindi volevamo qualcosa di molto individuale, ma al tempo stesso volevamo un punto di vista specifico, che fosse in grado di definire qualcosa di assai preciso che il pubblico fosse in grado di riconoscere". 

    Ogni curatore ha scelto sia le immagini sia l'allestimento, e cosi' all'interno del palazzo veneziano si alternano, oltre agli sguardi, anche le luci, i colori alle pareti, i momenti psicologici associati a un certo tipo di fotografie piuttosto che ad altre. 

    E qui, in questa liberta' apparentemente disomogenea, si trova invece l'unita' della mostra, che e' metodologica e che, ovviamente, ruota intorno all'idea di un Grande Gioco. 

    "Ogni curatore - ha aggiunto Humery - ha scelto una cinquantina di foto, senza sapere quali gli altri avrebbero selezionato. Questo e' piuttosto interessante, perche' si possono avere immagini ripetute due, tre o quattro volte. Io non ho dato alcuna indicazione, ho solo voluto discutere con loro per provare a capire cio' che avevano in mente per poi tradurlo in un modo per esporlo". 

    Le fotografie di Cartier-Bresson sono notissime, ma qui, nella peculiarita' degli accostamenti, nelle, per cosi' dire, affinita' elettive che i curatori hanno individuato, sembrano assumere una luce diversa, piu' ricca e rotonda. In sostanza passano da icone singole a tessere di un piu' ampio mosaico, fatto di storia, cultura, vita quotidiana. 

    Intrecciate in maniera profonda e, per usare un aggettivo caro al fotografo francese, decisiva. 

    "Qui si scoprono diversi significati del lavoro di Cartier-Bresson - ha concluso Mathieu Humery - ma anche qualcosa di molto piu' personale: si usano le immagini di qualcun altro per descrivere la propria personalita'". E anche lo spettatore e' chiamato a giocare, immaginando, alla fine della visita, quale avrebbe potuto essere la propria selezione di immagini. Il proprio ritratto attraverso lo sguardo di Cartier-Bresson. 



    07/07/20

    La storia della mano di Ennio Morricone voluta dal Maestro e realizzata dal più bravo cesellatore di Roma

    La mano di Morricone realizzata da Dante Mortet



    "So Morricone. Ma sta mano la famo o no?". Dante Mortet, artigiano e dunque artista con bottega a Piazza Navona, dall'altra parte del telefono per poco non cade dal motorino

    "Era un giorno di novembre di 4 anni fa. Il maestro aveva saputo che facevo sculture di mani, si era recuperato il telefono e mi aveva contattato. Ero su Ponte Cavour e in quel momento ho incontrato una persona immensa", dice Dante, oggi commosso per il passato e per il presente. 

    Mortet immortala la mano di Morricone in una scultura in bronzo, "una mano che il maestro teneva in mostra a casa sua, poi io ne feci un'altra copia la notte che vinse l'Oscar, la feci inginocchiato mentre lo premiavano". 

    "Andai a fare il calco a casa sua. Mise subito le cose in chiaro: 'deve essere la mia mano che scrive la musica, insomma con la penna ma quale bacchetta'", ricorda Dante, una famiglia di cesellatori da 5 secoli.

    E quella mano in effetti viene alla luce nell'atto piu' concreto della creazione musicale, quella in cui le note fluiscono nell'inchiostro e prendono sostanza nello spartito. Insomma quell'atto semplice e potente in cui il mestiere diventa arte. 

    "'Io la musica la scrivo' mi diceva il Maestro -spiega Dante- e a suggellare questo mi regalo' lo spartito in cui aveva scritto il brano che colsi nel calco: era il motivo principale del Il buono, il brutto e il cattivo, insomma si' L'ululato del coyote". 

    Un vero gesto di stima "considerando che Morricone, mi disse poi un suo collaboratore, i suoi spartiti se li riportava sempre via e non ne lasciava mai nessuno in giro". 

    Il calco, fatto in un pomeriggio tra tante chiacchiere romane, "il caffe' della signora Maria e un video girato col telefonino 'che fa il film', come diceva il Maestro", poi si trasforma in una scultura in bronzo. 

    "Il materiale lo abbiamo scelto insieme -dice Dante- perche' e' il materiale di Roma, anche il Marc'Aurelio e' in bronzo. E Morricone e' un monumento di questa citta', anzi di questo mondo"

    Da quella mano, solida e bella che tiene la penna e sembra strappata ad un affresco michelangiolesco, la vita artistica e umana di Dante cambia. "Te porta fortuna, vedrai", mi disse Morricone. 

    Da li' Dante, bottegaio col dono dell'arte, fa le mani di Robert De Niro, Kirk Douglas, dell'intero cast del film di Tarantino 'The Hateful Eight', fa persino il calco dei piedi di Pele'. 

    Ora sogna di immortalare nella materia le mani del grande fotoreporter Sebastiao Salgado, il fotografo del lavoro impastato di fatica nel bellissimo libro di 350 scatti "La Mano dell'uomo". Ma il legame di Dante con Roma resta ed e' fortissimo tanto che e' suo il logo del premio Roma Best Practice Award che quest'anno, per volere dell'organizzatore Paolo Masini, sara' dedicato a Ennio Morricone. 

     Da stamattina Dante tra le sue mani, belle e potenti come quelle del maestro, rigira quello spartito che Morricone gli ha regalato. "E' un pezzo mondiale", gli disse Morricone finendo di vergare le ultime note. "Io me lo tengo qui, nella scatola delle cose piu' belle, qui ci sono ancora le sue mani", dice Dante stringendo le note d'inchiostro e musica, le mani immortali del Maestro. 

    06/07/20

    Ennio Morricone e Gillo Pontecorvo, l'amicizia di una vita

    Gillo Pontecorvo e Ennio Morricone 



    Sono moltissimi i registi che non sarebbero gli stessi se Ennio Morricone non avesse messo a loro disposizione le sue musiche, le sue intuizioni, la sua professionalita'. 

    Solo alcuni pero' divennero amici veri, frequentati dentro e fuori dalla sala d'incisione. 

    Uno di questi, forse tra i piu' intimi, e' stato Gillo Pontecorvo per cui Morricone scrisse le colonne sonore di "La battaglia di Algeri", "Queimada", "Ogro"

    Considerata la leggendaria ritrosia del regista ad impegnarsi su un progetto (solo 5 film in tutta la carriera), si tratta del legame di una intera vita professionale visto che duro' dal 1966 (l'anno del Leone d'oro per "La battaglia di Algeri") fino all'ultimo film di Gillo, presentato sempre a Venezia nel 1979

    Dopo di allora c'e' una storia privata, fatta di cene a casa, scherzi goliardici, intimita' tra le consorti (la moglie di Gillo viene da una grande famiglia di musicisti, i Ziino, e lei stessa e' stata una colonna della Filarmonica Romana) che non si e' mai interrotta. 

    Tutto pero' comincio' proprio nel '66 quando Pontecorvo, che tornava alla regia sette anni dopo "Kapo'", cerco' Morricone che in quel momento collaborava con Pasolini ("Uccellacci e uccellini") e Carlo Lizzani (sodale all'Anac e amico a sua volta). 

    Fu un avvio tempestoso perché il regista, grande appassionato di musica e autodidatta, aveva gia' firmato insieme a Carlo Rustichelli le musiche del suo film precedente e sapeva che emozioni voleva suscitare attraverso le note

    Dopo un mese di lavoro non si trovava un punto d'incontro finché Pontecorvo una sera non sali' le scale di casa Morricone fischiettando la melodia che secondo lui andava bene. 

    Il maestro Morricone aveva capito con chi aveva a che fare e lo accolse suonando al piano la stessa melodia sostenendo di averne avuto l'intuizione la notte prima. 

    "Rimase basito - racconto' il musicista anni dopo - io gli dissi, con una calma olimpica, che dopo un mese passato a discutere di quel tema, evidentemente eravamo sulla stessa lunghezza d'onda."

    04/07/20

    Spuntano dai fondali di Ventotene resti di una nave romana del VI secolo avanti Cristo




    Nel mese di giugno 2020, a largo dell'isola di Ventotene, a seguito di una segnalazione effettuata da un esperto subacqueo del posto circa la possibile presenza di evidenze archeologiche su quel fondale marino, i militari del Nucleo Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale (TPC) di Roma e del Nucleo Carabinieri Subacquei di Roma, hanno individuato ad una profondita' di circa 40 metri, un'ancora in pietra di forma ovale (lunghezza 60 cm) proveniente da una nave risalente al periodo compreso tra il VI e il IV sec. a.C.; un ceppo di ancora in piombo (lunghezza 65 cm) e una contromarra in piombo (lunghezza 47 cm), gia' facenti parte della medesima ancora in legno non conservatasi, verosimilmente appartenente ad una nave romana risalente al periodo compreso tra il III sec. a.C. ed il I-II sec. d.C.; un ceppo di ancora in piombo (lunghezza 51 cm) interessato da processi di ossidazione e corrosione, saldato ad un'ancora di "tipo ammiragliato" in ferro con barra mobile (lunghezza 1,5 m) ed un'ancora di minori dimensioni, tutte verosimilmente appartenenti al medesimo relitto di nave romana di epoca imperiale (I-II sec. d.C.).

    E poi un'ancora di "tipo ammiragliato" in ferro (lunghezza 4 m) proveniente da relitto moderno; un'ancora di "tipo rampino" (lunghezza 3 m) proveniente da relitto moderno; un'ancora in pietra di forma ovale (lunghezza 60 cm) proveniente da una nave risalente al periodo compreso tra il VI e il IV sec. a.C. 

    Un ceppo di ancora in piombo (lunghezza 65 cm) e contromarra in piombo (lunghezza 47 cm), gia' facenti parte della medesima ancora in legno non conservatasi, verosimilmente appartenente ad una nave romana risalente al periodo compreso tra il III sec. a.C. ed il I-II sec. d.C.. E infine un'ancora "tipo rampino" in ferro (lunghezza 3 m) proveniente da relitto moderno. 

    La Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Frosinone Latina e Rieti, attraverso il suo Servizio di tutela subacquea, ha stabilito di valorizzare il contesto archeologico in situ, secondo le recenti indicazioni UNESCO in merito al patrimonio culturale subacqueo