La storia della cristianità non è fatta
solo di grandi templi, magnificenza, ori e porpora, ma anche – e soprattutto?
– di luoghi umili, fuori dalle rotte, di pietre dimenticate, o mute, di storie
minute sussurrate dal vento.
Una di queste storie, una storia
semplice, l’ho trovata molti anni fa, in Portogallo.
Lisbona, all’epoca, era un cantiere
sterminato, in vista dell’Esposizione Universale del 1998, che doveva cambiare
la faccia a un paese rimasto ancorato alle struggenti malinconie della sua terra
e della sua musica, anche dopo la fine della dittatura salazarista, la più
lunga di tutto il Novecento in Europa.
In quei giorni non c’era una sola parte
di Lisbona immune dal frastuono delle ruspe. Una nuvola bianca di polvere,
enorme, si levava al di sopra del Bairro Alto, della Baixa, dell’Alfama.
Dalla terrazza dell’Elevador de Santa
Justa, ardita costruzione del prediletto allievo di Eiffel, riuscivi a vedere i
colpi inferti alla città, in ogni direzione, e il traffico impazzito, in coda
sul Ponte 25 Aprile (l’unico mezzo per varcare l’estuario del Tago, prima della
costruzione dell’immenso ponte Vasco de Gama, realizzato appunto per quella
Esposizione Universale), sotto il sole cocente.
Fu scelta obbligata lasciarsi alle
spalle il prima possibile l’infernale caos, e fuggire verso sud, dove solerti
depliants forniti dalla receptioniste dell’albergo di
Lisbona, promettevano paesaggi deserti, spiagge selvagge, e invitanti
degustazioni gastronomiche.
Il Portogallo vive del suo mare.
Nel bene o nel male, ne determina i
destini. Il clima più piovoso d’Europa condiziona l’umore degli abitanti, lo
spazio sconfinato che si spalanca dietro ogni curva di strada statale dirotta
il pensiero su termini immateriali.
Succede così anche quando si imbocca, in
macchina, l’autostrada IP1, che arriva in poche ore fino alle coste
dell’Algarve.
Questa strada, appena oltrepassato
l’enorme ponte sospeso sull’estuario del Tejo, com’è il nome del fiume in
portoghese, devìa leggermente verso
destra, verso la costa atlantica, per poi dirigersi verso Setubàl. A sud di Lisbona il litorale dapprima è
sabbioso, poi all’improvviso si ergono
le rocce scoscese della Sierra de Arrabida, il promontorio che culmina nel Cabo
Espichel, secondo lembo più occidentale
di tutto il continente europeo.
Il primato in questo senso spetta
infatti al Cabo da Roca (pochi chilometri a nord di Lisbona), quello che i
romani chiamarono promontorium
magnum,
leggendario punto di partenza dei navigatori portoghesi, cantato da Camoes
nelle Lusiadi.
Onde a terra acaba/ e o mar comeca Dove la terra finisce e il mare
comincia.
Ma se si immagina un Finisterre, il Cabo Espichel non ha eguali.
La strada si divide in due prima di
Sesimbra, e punta dritto verso il margine del
promontorio. Sembra non offrire
alternative, giunti all’ennesima curva, di non poter far altro che terminare
nel vuoto.
Così è.
La strada asfaltata si ferma
qualche decina di metri prima di un antico, isolato complesso religiosa,
diviene una lingua di sterrato che prosegue oltre e non si ferma fino all’ampia
distesa di terra che un centimetro dopo precipita nell’oceano. Cabo Espichel è
una specie di zoccolo di roccia, spianato, 180 metri a strapiombo
sul mare. Vi si arriva attratti dal
magnete del grande Faro bianco, che svetta di lato, sulla scogliera. Poi, si
entra, senza quasi accorgersi, in un lunghissimo recinto rettangolare. Sullo
sfondo, la facciata della Chiesa di Nossa Senhora do Cabo, come viene
comunemente chiamata dalla gente del posto, nonostante il nome esatto sia: Santuario de Nossa Senhora de
Pedra Mua. Ai lati della Chiesa, in un
perimetro perfettamente rettangolare, le due ante dell’Hospedarias, l’alloggio per i pellegrini, che cominciarono a visitare questo
luogo, sempre più numerosi, a partire dal XII secolo.
Prima di entrare in chiesa,
oltrepassandola, si procede verso la scogliera, arrivando proprio sul punto più
a strapiombo della costa. I gabbiani, guinchos come li chiamano qui, disegnano rapide traiettorie nel vento forte.
L’aria è tersa, l’orizzonte ampio, senza più ostacoli. Qui, come in tutto il Portogallo,
è ancora viva la memoria dell'epopea del descumbrimiento, l'epoca delle
navigazioni che portarono i malinconici e impavidi lusitani lungo le coste
dell'Africa e nelle terre più remote del pianeta. I vecchi della zona conoscono a memoria i
racconti tramandati da intere generazioni,
di tempi dimenticati, quando i fari andavano ad olio di oliva, e qualche
volta facevano cilecca: le navi nel mare, quand’era in tempesta, si illudevano,
attratti come falene dalla luce di Espichel,
d’essere ormai in vista del porto di Lisbona, e finivano per schiantarsi
contro la scogliera.
Le sventure dei naviganti non
finivano nemmeno con il naufragio, perché nascosti tra i rovi, sotto la
pioggia, c’erano pirati ad attendere
i superstiti, per ucciderli e
saccheggiare il bottino.
Approfittavano, gli assassini, di
quegli unici sentieri che scendono ancora oggi stretti e serpeggianti sul
fianco della scogliera, ma che è meglio conoscere bene prima di affrontarli, se
non si vuol finire nel precipizio: dicono che questi sentieri siano stati
tracciati centinaia di anni fa, dai pacifici pescatori che vivevano qui, prima
ancora dei pirati, e che benedivano ogni
giorno questi fondali ricchi di pesci, soprattutto bacalao, e bodiao, e poi alghe, cucinate direttamente sul fuoco ed erano, sembra,
gustosissime.
Deve essere capitato ad uno di questi
pescatori, un semplice umile pescatore tra tanti, in un mattino di luce, di
scorgere all’improvviso, quella misteriosa visione, mentre risaliva dal suo
scoglio. Fu un prodigio inspiegabile, la cui fama si diffuse come un lampo, in
un’epoca in cui il Portogallo era
tornato ad essere cristiano. Nel 1064 Coimbra era stata riconquistata,
strappata agli arabi, dopo quasi quattro
secoli. Diventava nuovamente capitale del Regno.
Ed ecco che in questo villaggio
sperduto, eremo estremo verso l’occidente, un pescatore scorge un segno: Maria - Nossa Senhora per il popolo, per
gli umili, le donne, i pescatori - la
madre di Gesù, appare a cavallo di una mula.
Non esistono descrizioni ufficiali
dell’evento: possiamo soltanto immaginarlo. Possiamo immaginare la diffidenza e
lo spavento, gli sguardi sospetti, e la propagazione del racconto del pescatore.
Che a quanto pare, non ebbe altri testimoni, oltre a lui. La convocazione da
parte di qualche alto prelato, gli interrogatori, i tentativi di dissuasione,
forse. L’ostinazione del pescatore.
Il miracolo quotidiano del
cristianesimo è anche questo: che in un
luogo così, la voce di un pescatore in un mattino assolato, diventi fede. Fede
per tutti.
Non sappiamo attraverso quali
passaggi la tradizione orale si trasformò in convincimento e fede, e memoria di
e per tutti. Quel che sappiamo è che la
leggenda, nel trascorrere delle generazioni, aggiungeva ogni volta nuovi
particolari, come quello secondo cui la mula, la mula di Cabo Espichel, la mula
di Maria, aveva lasciato perfino delle impronte, bene impresse in una pietra,
sulla scogliera, pietra che naturalmente divenne oggetto di venerazione.
E così, dopo tre secoli, tre secoli durante i quali questa
storia divenne il cemento di una intera popolazione, nel 1410 si costruì il primo santuario, anzi
più propriamente l’eremo,
pensato espressamente per loro, i mareantes, la gente del mare, gli eterni protagonisti delle stagioni di Espichel.
All’inizio doveva essere solo una piccola costruzione, minima come quella che
adesso si ammira a circa 100
metri dalla Chiesa, e oggi è conosciuta come Ermida da
Memória o anche Capela da Memória, minuta cappella con cupola,
all’interno decorata con splendidi azulejos azzurri e bianchi.
E’
questo il luogo esatto in cui apparve la visione e in cui fu originariamente
conservata l’immagine della Vergine, di origine misteriosa, che celebrava
l’apparizione di Maria sulla Mula.
Questa immagine era il lasciapassare
per ogni impresa, per ogni avventura tra le onde, per ogni giornata di duro
travaglio lontano da casa, consegnati mani e piedi al capriccio della sorte, e
delle tempeste. Di tutto quel che l’uomo non può mai controllare, e lo aspetta
nel buio della notte, nel vento improvviso, nella mareggiata che spezza la
schiena, e non perdona. Dove oggi sorge la rozza croce di pietra, lì
iniziava la lenta processione dei mareantes, verso l’immagine
della Vergine.
I due lati porticati dell’Hospedarias , una volta
occupati dagli alloggi per i pellegrini, oggi sono in abbandono, fatiscenti,
chiusi. Soltanto vicino alla Chiesa c’è
una piccola bottega, che vende bevande fresche, e qualche vecchia
cartolina.
Una vecchia contadina, che vende
semplicemente le sue mercanzie dentro cassette di legno, ci guarda, spiega che
ha imparato un po’ di italiano da un lontano parente, scappato al fascismo, e
rimasto lì per cinque anni prima di riuscire a imbarcarsi per l’America.
Lei si chiama Maria Dominga, ci
dice, e quel nome le è stato imposto proprio in onore di Nossa Senhora.
Per loro, per la gente di Espichel, Nossa
Senhora è una persona, prima di tutto. Qualcuno a cui
affidarsi, che capisce, che dà consigli. “Molte tragedie”, ci dice, parandosi
gli occhi dal sole, con la mano rugosa dritta come un ventaglio, “sono state
evitate da lei, è lei che ha detto a un uomo, prima della tempesta: non andare
! E lui non è partito. Si è salvato.”
Davvero ?
“Anche mio marito non è partito,”
spiega seriamente con uno sguardo da bambina corrucciata in un volto di
vecchia, “il giorno dopo c’era tempesta, una tempesta grande, muito muito…. Grande “ agita la mano, per far intendere che si
tratta di qualcosa veramente memorabile.
“ E il mio marito fu livre
de perigro , seguro.”
E’ ancora vivo
? No, risponde, non è più vivo, ma una
malattia, sembrerebbe quasi voglia dire con quel ciondolare della testa, una giusta malattia –
non l’ingiusta tempesta
– lo ha portato via.
Poi ci fa segno di seguirla.
Di nuovo attraversiamo il piazzale
dietro la chiesa, sotto il sole. Ci
conduce, con andatura spedita, senza esitazioni, fino al punto di osservazione
dove eravamo poco prima.
Poi ci chiede di osservare una linea
nella roccia della scogliera, verso sud, la dove le falesie sono
altissime. Effettivamente, guardando
con attenzione, c’è una linea più scura, che attraversa diagonalmente la parete
scoscesa, come la vena di una mano.
“ La vedete ? Quella fenda…si
è formata quando…. È arrivato il grande tremor
de terra ! ”
So a cosa si riferisce, naturalmente. So cosa intendono i portoghesi quando si
parla di ‘grande tremor de terra’. ‘Il’
terremoto, quello vero, qui è stato uno
soltanto, quello che nessuno – come idea - ha mai dimenticato, nessuno che viva
qui. Il terremoto del 1755. Uno dei più spaventosi terremoti che abbiano
mai scosso il suolo della terra, a memoria d’uomo.
“ Quella fenda non esisteva,
prima, “ disse la donna, “ a mio padre lo raccontò mio nonno, e a mio nonno,
suo nonno..”
Capimmo cosa sosteneva. La crepa sulla scogliera, questo intendeva,
si era formata quel giorno del 1755, e aveva rischiato di spaccare per sempre
la montagna in due, portando in fondo all’Oceano il Cabo Espichel, con il suo
santuario.
“ Oracao, pedido…”
Erano state le preghiere, questo ci
disse, a fermare la crepa nella montagna.
Il racconto dei nonni sosteneva che tutta la gente di Cabo Espichel,
quando la terra aveva preso a tremare, come mai nella storia, e le onde si
erano alzate fino a cento metri, tutta
la gente, si era chiusa dentro il Santuario a pregare. E la sorte sembrava segnata, perché quella
crepa sulla scogliera voleva soltanto dire che….
Ma le preghiere a Nossa Senhora,
furono ascoltate.
Nossa Senhora non voleva questo.
Voleva proteggere la gente di Cabo Espichel.
La donna indicò ancora la riga scura
sulla scogliera:
“ Sì è fermata, da quel giorno ! Si
è fermata lì. E non si è più mossa. La fenda è ferma, da più di duecento anni
! “
Quando tornammo a Lisbona, qualche
giorno dopo, ripensai al grande terremoto del 1755, che in qualche modo i
furori dei cantieri in corso evocavano con fumi e strepiti. La mattina del
primo novembre di quell’anno, 1755, un sisma del nono grado della scala Richter
rase al suolo questa città, causando quasi centomila morti. Le scosse provocarono danni incalcolabili in
tutto il Portogallo, perfino in zone lontanissime dalla capitale, come la costa dell’Algarve,
interessando 10 milioni di chilometri quadrati di territorio. Il terremoto fu
avvertito in Olanda, nelle Antille, nelle Barbados, e i danni furono disastrosi
perfino sulle coste del Marocco. 6
interminabili minuti di puro terrore. Il mare, a Lisbona – raccontarono i pochi
superstiti – si ritirò del tutto, lasciando le barche in secca; dopo qualche
minuto un’onda spaventosa si abbattè su
tutta la costa aggiungendo nuova devastazione, penetrando nell’entroterra, fino
alle colline di Cintra.
L’apocalisse, quel giorno, bussò
alle porte di un paese sfortunato, lo lasciò in ginocchio, ancor più motivato
nel suo ‘bisogno di sventure’.
In tanta devastazione, Cabo Espichel, il fragile sperone di roccia,
aveva resistito. Il silenzio era
salvo. L’impronta prodigiosa della mula,
era ancora al suo posto. E la
semplice fede di Maria Dominga si rinnovava ogni giorno nel
simbolo della linea scura della fenda,
che una misericordia non umana, aveva cristallizzato sul fianco della
scogliera, per sempre.
Tratto da: Fabrizio Falconi, Dieci Luoghi dell'Anima, Cantagalli Editore, 2009 - Vedi il libro su Amazon clicca qui
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