17/07/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 36. "Il Vangelo secondo Matteo" di Pierpaolo Pasolini (1964)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 36. "Il Vangelo secondo Matteo" di Pierpaolo Pasolini (1964)

Pasolini scopre il Vangelo quasi per caso, durante un soggiorno ad Assisi nel quale voleva incontrare Papa Giovanni XXIII

Ne rimane subito profondamente colpito, per due motivi principali: «Dal punto di vista religioso, per me, che ho sempre tentato di recuperare al mio laicismo i caratteri della religiosità, valgono due dati ingenuamente ontologici: l’umanità di cristo è spinta da una tale forza interiore, da una tale irriducibile sete di sapere e di verificare il sapere, senza timore per nessuno scandalo e nessuna contraddizione.  Inoltre: per me la bellezza è sempre una “bellezza morale” non mediata, ma immediata, allo stato puro, io l’ho sperimentato nel Vangelo.» 

C’è poi il Pasolini marxista che da quindi una lettura più politica del Cristo, ma mai dogmatica, sempre personalissima e aperta ai temi universali dell’uomo: «Seguendo le accelerazioni stilistiche di Matteo alla lettera, la funzionalità barbarico-pratica del suo racconto la figura di Cristo dovrebbe avere, alla fine, la stessa violenza di una resistenza: qualcosa che contraddica radicalmente la vita come si sta configurando all’uomo moderno, la sua grigia orgia di cinismo, ironia, brutalità pratica, compromesso, conformismo, glorificazione della propria identità nei connotati della massa, odio per ogni diversità, rancore teologico senza religione

Il Vangelo doveva essere secondo me un violento richiamo alla borghesia stupidamente lanciata verso un futuro che è la distruzione dell’uomo, degli elementi antropologicamente umani, classici e religiosi dell’uomo.» 

 E’ interessante vedere come le scelte registiche del film prendano una direzione inaspettata per lo stesso Pasolini, come se la materia sacra lo avesse trascinato verso una direzione diversa da quella che si era prefissato di seguire:

"Il Vangelo mi poneva il seguente problema: non potevo raccontarlo come una narrazione classica perché non sono credente ma ateo. D’altra parte io volevo filmare Il Vangelo secondo Matteo, dunque raccontare la storia del Cristo figlio di Dio, dunque raccontare una storia alla quale non credevo. Dunque non potevo essere io a raccontarla. E’ così che, senza precisamente volerlo, sono stato portato a rovesciare tutta la mia tecnica cinematografica e che è nato questo magma stilistico che è proprio al “cinema di poesia”. Perché, per poter raccontare il Vangelo, ho dovuto tuffarmi nell’anima di qualcuno che crede. Qui è il discorso libero indiretto: da una parte la narrazione è vista attraverso i miei occhi, dall’altra attraverso gli occhi del credente. Ed è l’utilizzazione di questo discorso libero indiretto che è causa della contaminazione stilistica, del magma in questione.»

Pasolini però, con grande pudore e rispetto, si ferma nel punto in cui il suo sguardo di ateo e il mezzo cinematografico stesso non possono arrivare: «Io avrei potuto demistificare la reale situazione storica, nei rapporti tra Pilato e Erode, avrei potuto demistificare quella figura di Cristo mitizzato dal romanticismo, dal cattolicesimo della Controriforma, avrei potuto demistificare tutte queste cose, ma poi come avrei potuto demistificare il problema della morte? Cioè il problema che non posso demistificare è quel tanto di profondamente irrazionale, e quindi in qualche modo religioso che è il mistero del mondo. Quello non è demistificabile».

Un film, il film, a mio avviso più straordinariamente fedele - nella sua infedeltà - al racconto dei Vangeli e alla inaudita vicenda della vita del Cristo.






15/07/19

Intervista a Roberta De Monticelli: "Asserviti al progetto russo di distruzione dell'Unione Europea" (Huffington Post)



A parte il versamento dei rubli, ancora da dimostrare: “Le trattative degli uomini di Salvini con la Russia di Putin rappresentano un tradimento dell’Italia ideale, un’infedeltà alla collocazione occidentale del nostro paese e un’asservimento al progetto russo di distruzione dell’Unione Europa: una cannonata contro l’orizzonte comunitario”. Sul palcoscenico del giallo russo-leghista, Roberta De Monticelli scorge il fantasma della questione morale: “Questa storia – dice, parafrasando Enrico Berlinguer – dimostra che i partiti politici sono diventati delle macchine d’affari senza confini”. Filosofa, docente all’università San Raffale di Milano, per definire l’era politica che viviamo, De Monticelli pesca dalle pagine de La Repubblica di Platone il modello della khakistocrazia:Così il pensatore greco definiva governo dei peggiori, e noi siamo di fronte all’internazionalizzazione di questo schema. Mi riferisco anche a Donald Trump. Ma nel caso di Putin il richiamo al governo dei peggiori è spaventoso.La sua ideologia illiberale è riuscita fondere i residui del bolscevismocon le venature naziste del suo patriottismo esasperato.Un miscuglio ignobile, che pure hatrovato uno spazio notevole nel dibattito politico globale”.
Tutto è cominciato una trentina d’anni fa: “Quando le democrazie liberali occidentali sono entrate in un circolo vizioso che ha alimentato la sfiducia verso le istituzioni. Specialmente, in Italia. Il governo dei peggiori – che è sempre una possibilità della democrazia – ha pian piano preso il sopravvento. Il vero problema è che già Platone considerava questo stadio come l’ultimo gradino prima dell’avvento della tirannia. E purtroppo il Novecento ha dimostrato che la sua analisi ha ancora una corrispondenza con la realtà”.
È una torsione inevitabile?
No, non è inevitabile. Però il rischio c’è: forte, consistente e sostanziale.
C’è anche un rimedio?
Già negli anni Quaranta Altiero Spinelli aveva previsto che gli stati nazionali non sarebbero stati più in grado di alimentare il circolo virtuoso della democrazia, perché troppo schiavi degli interessi particolari. Il rimedio è dunque una sovranità europea realmente sovranazionale, l’unica cosa che potrebbe riaprire la partita.
Il populismo non si nutre proprio delle lacune europee?
Lei di quale Europa sta parlando?
Dell’Europa che c’è.
Ce ne sono almeno due. C’è l’Unione Europea embrionale, ossia l’Europa delle istituzioni veramente comuni, che ha limitato le grandi multinazionali, ha approvato delle norme ambientali decenti, ha investito moltissimo sulla ricerca; e poi c’è l’Europa degli stati, che solitamente si occupa di disfare quel tanto di buono che la commissione e il parlamento sono riusciti a concludere.
Salvini confonde le due cose?
Salvini alimenta il più orribile equivoco, perché definisce europee delle scelte che sono in realtà dei singoli stati, come, per esempio, le politiche sull’immigrazione di Macron.
Sull’immigrazione il vero antagonista di Salvini è il Papa?
Le parole di Francesco dimostrano una grande fedeltà alla tradizione cattolica. L’invito a salvare le persone disperate non è solo un appello a proteggere la vita dalla morte. È un richiamo a portare in salvo la fioritura di ogni singola persona, la felicità che ogni essere è chiamato a realizzare su questa terra.
Eppure, alcuni sondaggi certificano che molti cattolici condividono le idee di Salvini.
Dal punto di vista della teologia cristiana, l’idea delle radici, dei confini, delle patrie fisiche, è una dissacrazione del vero concetto di sacralità.
Perché?
Sono andata per anni, da laica, alla ricerca della spiritualità cristiana, quella che è rimasta sepolta nei conventi, ignorata persino dalla gerarchia ecclesiastica. Ho incontrato Cristina Campo e Margherita Pieracci Harwell, due grandi interpreti di Simone Weil. Mi hanno insegnato che la vera esperienza spirituale è apertura agli infiniti orizzonti dell’anima, inclusi gli abissi che ci attraversano. Basta leggere un trattato spirituale. È un percorso infernale, altro che quiete contemplativa. È un viaggio nella vastità del nostro mondo interiore, che ha le sue estasi e i suoi traumi, le sue esaltazioni e i suoi precipizi. Può offrire tutto, fuorché protezione, riparo, sicurezza.
Ma le persone non hanno diritto anche a questo?
Certo che ne hanno diritto, ma indurli a barattare la libertà con la tranquillità è diabolico. La gran parte delle persone nemmeno conosce tutte le possibilità che offre la vita umana. E non c’è nulla di più criminale che tenere gli uomini lontani da questa conoscenza, offrendogli come riparo una prigione.
L’esperienza spirituale che ha descritto è davvero possibile a tutti?
Sì, lo è. Anzi, è proprio questo il punto in cui si incontrano la grande tradizione umanistica da cui nasce la democrazia e il cristianesimo: la vocazione al risveglio delle coscienze, il richiamo a vivere l’esperienza morale in prima persona, con tutto il proprio cuore.
Perché allora lei ha creduto nei 5 stelle, che sono protagonisti dell’oscurità che denuncia?
Non lo nego, ho nutrito simpatia per i 5 stelle. Credevo che avrebbero potuto immettere nel circuito della politica corrente una spinta all’idealità, diventando un antidoto alla crisi di rappresentanza della democrazia liberale.
Quando si è accorta che sbagliava?
L’allarme è suonato quando ho visto che molti parlamentari erano incapaci di contestare la decisioni che venivano calate dall’alto, ai tempi in cui ancora Grillo impartiva ordini a destra e a sinistra. Quando poi è stato siglato l’accordo con la Lega, sono rimasta semplicemente esterrefatta. La delusione più cocente l’ho provata quando hanno votato sì a uno dei più grandi condoni che siano mai stai fatti, quello di Ischia. Lì le anime belle si sono rivelate per quello che veramente erano: delle anime brutte.
Non crede che si potesse capire già ieri ciò che le è così chiaro oggi?
Forse sì, un occhio politico più attento del mio avrebbe potuto capirlo. Per questo, nella vita, io mi occupo di filosofia.
E però si è spesa molto per un governo Pd-5 stelle.
Direi che mi sono spesa disperatamente per evitare la guerra tra due forze che avevano molti più valori in comune di quelli che erano disposti ad accettare.
Sarebbe ancora possibile, quell’accordo, dopo il governo 5 stelle-Lega?
I valori conservano sempre una trascendenza rispetto alla realtà concreta. Ecco perché la rigenerazione e la rinascita sono sempre possibili. Anche per i 5 stelle, dopo questa tremenda esperienza. Ma l’altro interlocutore, il PD, dove sarebbe?
È lì, con un nuovo segretario.
Le confesso che non ho ancora capito che idee abbia, Nicola Zingaretti.
Per questo non rifarebbe quell’appello?
Il punto non è questo o quell’accordo. Il punto è che tutte le persone hanno un’anima e un corpo, e sono pronte a seguire il meglio, oppure il peggio, a seconda di ciò che gli si offre. Se non gli si prospetta mai niente per cui valga la pensa esaltarsi, è logico che il populismo sarà più difficile da battere. E sarà un male.
Anche Salvini è il male?
Salvini non è il male in assoluto. Però funziona esattamente al contrario di ciò che suggerirebbe l’ideale. Comunica senza articolare un pensiero. Usa le più basse tecniche di comunicazione. Incarna perfettamente la degenerazione della democrazia in atto.
Perché allora ha così tanto consenso?
Questo non deve chiederlo a me.
Però se lo sarà chiesto, immagino.
Sì, certo, che me lo sono chiesto.
E che risposta si è data?
Che quando il circolo virtuoso di una democrazia si inverte, i molti, i più, smettono di accedere alla maturità morale – che è il fine del welfare e dell’istruzione. Ma una democrazia muore senza cittadini maturi, che capiscano cosa sono i valori universali. Gli umani vengono prima degli italiani.


14/07/19

La Poesia della Domenica - "Resumé" di Dorothy Parker


Resumé
I rasoi fanno male;
I fiumi sono umidi;
l’acido lascia tracce;
Le pillole danno i crampi.
Le pistole sono illegali;
i cappi si rompono;
il gas ha una puzza tremenda;
Tanto vale vivere.
Dorothy Parker, (nata Dorothy Rothschild-Long Branch, 22 agosto 1893 – New York, 7 giugno 1967- scrittrice, poetessa e giornalista statunitense, nota anche con i diminutivi di Dot o Dottie) 
La poesia è citata nel film Ragazze interrotte (Girl, Interrupted) del 1999 diretto da James Mangold con Winona Ryder e Angelina Jolie; adattamento del diario di Susanna Kaysen La ragazza interrotta.
Resumé
Razors pain you;
Rivers are damp;
Acids stain you;
And drugs cause cramp.
Guns aren’t lawful;
Nooses give;
Gas smells awful;
You might as well live.

Dorothy Parker, “Resumé” from The Portable Dorothy Parker, edited by Brendan Gill. (Penguin Books, 2006)

12/07/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 35. "Tutto su mia madre" (Todo sobre mi madre) di Pedro Almodòvar (1999)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 35. "Tutto su mia madre" (Todo sobre mi madre) di Pedro Almodòvar (1999) 

Manuela, una donna che ha avuto un figlio da un marito divenuto poi transessuale, ricomincia la sua vita dopo la tragedia - il figlio muore in un incidente stradale - trasferendosi a Barcellona dove diviene amica e confidente di una grande attrice teatrale ormai invecchiata. 

Dopo tanti anni di avanguardia e trasgressione e poi di felice concessione al gusto - oramai raggiunto ed esaudito - del grande pubblico, Almodòvar trova il suo capolavoro, con una storia interamente pensata e scritta da lui che risulta un omaggio al cinema di John Cassavetes, uno dei grandi maestri a cui Almodòvar si è sempre ispirato. 

Il film è un prodigio di sceneggiatura, sulla cui trama rivaleggiano in bravura tre straordinarie protagoniste femminili: Cecilia Roth, Marisa Paredes e Penelope Cruz.

Il film di un autore che ha raggiunto il massimo della sua sintesi e della capacità espressiva, divenuto del tutto matura, sempre più profondo e profondamente consapevole del senso tragico della vita, e della sua stravolgente bellezza, intessuta sugli arabeschi del caso (o del disegno divino, a noi inconoscibile).

Il film vinse il premio Oscar per il miglior film straniero nella edizione 2000, oltre a innumerevoli premi in tutto il mondo.


Tutto su mia madre
(Todo sobre mi madre)
di Pedro Almodòvar
Spagna, 1999
durata 101 minuti


10/07/19

Dall'11 al 13 luglio la nuova edizione del Festival "Dal Tramonto all'Appia" - "Guarda che Luna", al Parco Archeologico dell'Appia Antica .


Il Parco archeologico dell’Appia Antica torna a proporre, dopo il favore riscontrato nelle passate edizioni, l’appuntamento estivo con il festival Dal Tramonto all’Appia. Guarda che luna è il tema di quest’anno dedicato al satellite terrestre proprio per la ricorrenza del 50/mo anniversario dell’allunaggio avvenuto nel 1969. Un articolato programma di musica, teatro e parole si svolgerà a partire dall’11 luglio e fino al 13 luglio 2019 presso il Mausoleo di Cecilia Metella. 

Il festival, organizzato da Electa, prevede tre eventi serali in mediapartnership con Rai Radio 3. 

Si comincia giovedì 11 luglio alle ore 21 con il concerto “All Stars” Live!" dell’Istituto Italiano di Cumbia capitanato da Davide Toffolo (Tre allegri ragazzi morti) che si esibirà insieme a Malagiunta, Kit Ramos, Cacao Mental, Los3Saltos portando sul palco la prima compilation italiana di cumbia contemporanea, genere musicale in arrivo dal Sud America. 

Segue venerdì 12 luglio alle ore 21 Ascanio Celestini che porterà in scena racconti tratti dal suo spettacolo “Laika” che trae il titolo proprio dalla cagnetta che i sovietici spedirono nello spazio nel 1957, a seguire alle ore 22 sullo stesso palco il concerto "Futuro Remoto tour acoustic set" del cantautore Giulio Wilson. 

Infine sabato 13 luglio, sempre alle ore 21, Peppe Servillo chiuderà la manifestazione con una lettura di passi tratti dal romanzo “Il poema dei lunatici” di Ermanno Cavazzoni e alle ore 22 si esibirà insieme agli Avion Travel con brani tratti dal loro ultimo album “Privé”. A inaugurare le tre serate giovedì 11 luglio alle ore 19.30 sarà il Direttore del Parco Archeologico dell’Appia Antica Simone Quilici con un saluto di benvenuto presso il Complesso di Capo di Bove. 

Gli spettacoli saranno gratuiti acquistando solo il biglietto d’ingresso ai monumenti o La Mia Appia Card. Il biglietto combinato al costo di 5 euro è valido due giorni per la visita al Mausoleo di Cecilia Metella e alla Villa dei Quintili con Santa Maria Nova; La Mia Appia Card invece consente di accedere liberamente ai monumenti citati e a tutti gli eventi organizzati dal Parco archeologico dell’Appia Antica, ha un costo di 10 euro ed è valida 365 giorni dalla data d’acquisto. L'abbonato sarà periodicamente informato con una newsletter sulla programmazione delle mostre, delle iniziative culturali e delle varie attività nel corso dell’anno. 

Il Mausoleo di Cecilia Metella e la chiesa medievale di S. Nicola nel Castrum Caetani resteranno aperti oltre l’orario consueto per godere della bellezza dei luoghi al tramonto. In caso di maltempo, qualora le condizioni meteo non consentissero il regolare svolgimento dello spettacolo, l’evento potrà essere posticipato di 30 minuti prima di annunciarne l’eventuale annullamento.


09/07/19

Uno scheletro perfettamente conservato emerge dalle viscere degli Uffizi.



I resti perfettamente conservati di una donna sono stati trovati agli Uffizi di Firenze nell'area di scavo adiacente all'aula di San Pier Scheraggio. Si tratta di uno scheletro rinascimentale, spiega il museo, perfettamente conservato e risalente presumibilmente alla fine del '400. Le spoglie sono in un punto dove un tempo c'era una chiesa, esistente prima ancora che gli Uffizi fossero edificati e ne 'inglobassero' gli spazi. Era un luogo di culto molto frequentato, tra l'altro anche dal sommo poeta Dante Alighieri. 

Gli scavi archeologici effettuati sotto la guida della Soprintendenza da circa 20 anni, hanno riportato alla luce una porzione dei sotterranei dell'antico edificio religioso, che, come usava nel passato, veniva anche usato come luogo di sepoltura. 

Lo scheletro, indicato con codice identificativo 101, verra' ora portato ai laboratori di archeoantropologia della Soprintendenza per essere sottoposto ad esami ed analisi. 


08/07/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 34. "Stalker" di Andrej Tarkovskij (1979)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 34. "Stalker" di Andrej Tarkovskij (1979)

A Piranesi e al suo mondo fantastico di rovine fatiscenti e territori ombrosi da esplorare, si sono ispirati in tanti, negli ambiti più diversi. 

Emmanuel Carrère, in un saggio di parecchi anni fa citava Piranesi, proprio paragonando la sua imagerie a quella di un regista indimenticato, uno dei grandi del novecento, proveniente dagli estremi territori della Russia, Andrej Tarkovskij.

E lo faceva a proposito di uno dei film più visionari e misteriosi del regista di Zavraz’e (un minuscolo villaggio sulle rive del Volga), Stalker.

In quel film, Tarkovskij prendeva le mosse (come aveva già fatto per il precendete Solaris) da un racconto lungo di fantascienza, Piknik na obocine (Picnic sul ciglio della strada), scritto dai fratelli Arkadij e Boris Natanovic Strugackij nel 1971.

Stalker (girato tra grandi difficoltà produttive, lunghe pause e riprese tra il 1977 e il 1979) racconta del viaggio di tre uomini – uno scrittore alcolizzato,  uno scienziato, e la loro guida, cioè lo stalker (termine che deriva dall’inglese to stalk, avanzare furtivamente), attraverso la Zona, un territorio misterioso e molto pericoloso che attrae e spaventa, nel cui cuore esiste una misteriosa stanza dove vengono realizzati i desideri.

Nessuno sa cosa sia la Zona, esattamente.  Lo stesso Tarkovskij perdeva la sua proverbiale pazienza quando qualche giornalista, durante i festival ai quali Stalker partecipò, chiedeva di spiegare cosa fosse esattamente. La Zona, come ogni simbolo disseminato nei film di Tarkovskij è ad uso e consumo dello spettatore.  E’ lo spettatore a decidere cosa sia la Zona. 

Il film non lo spiega. C’è l’eventualità che sia il lascito di una civiltà extraterrestre, oppure il risultato di una serie di esperimenti militari. Fatto sta che l’accesso al territorio è severamente precluso. E che solo gli intrepidi stalker osano violarlo.  Il paesaggio che si delinea oltrepassato il filo spinato è oscuro e minaccioso: come scrive Carrère, tutto il viaggio dei tre uomini (accompagnato da dispute di carattere filosofico tra lo scrittore e lo scienziato) è costantemente spiazzato dalla collocazione sul paesaggio di “rovine del futuro”  che fanno pensare proprio al genio di Piranesi.

Mi hanno sovente domandato cos’è la Zona, ha scritto Tarkovskij nel suo celebre Scolpire il tempo, che cosa simboleggia, ed hanno avanzato le interpretazioni più impensabili. Io cado in uno stato di rabbia e disperazione quando sento domande del genere. La Zona, come ogni altra cosa nei miei film, non simboleggia nulla: la Zona è la Zona, la Zona è la vita: attraversandola l’uomo o si spezza, o resiste. Se l’uomo resisterà dipende dal suo sentimento della propria dignità, dalla sua capacità di distinguere il fondamentale dal passeggero.

In queste poche righe Tarkovskij dice già molto, suscitando molte nuove domande.

La Zona che è la protagonista del suo film, è un cumulo di rovine; moderne rovine: edifici abbandonati, strade spettrali, anfratti incolti e paludosi: la luce è sempre invernale o notturna, il cammino dei tre uomini è accidentato, irto di difficoltà, e senza nessun vero piacere. 
Rivedendo il film oggi ritorna alla mente il motto di Piranesi: sporcare per trovare.

I tre uomini devono sporcarsi, e parecchio per trovare quello che cercano e che in fondo non sanno nemmeno loro cosa sia.  E’ la sete di conoscenza, in fondo, la curiosità, il desiderio di risposta alle domande che risposte non hanno, a guidarli in questi caseggiati dai vetri sfondati, a questi pavimenti sfondati o pieni di cumuli di terra, a questi canali pieni d’acqua putrida.

Se la Zona è la vita, come dice Tarkovskij, attraversare questo territorio vuol dire sporcarsi le mani e i piedi, come accade a chi vive.  Solo chi rifiuta la vita, rimane pulito e diafano, ma la terra non germoglia in lui, ed è come essere già morti. Sporcarsi insomma è la prerogativa dei vivi.

Attraversare il luogo della catastrofe alla ricerca di risposte. E soprattutto con l’obiettivo di esaudire il proprio desiderio.

Solo che, Tarkovskij, lo sa, spesso gli uomini non sanno nemmeno cosa vogliono veramente.  E così mette in bocca allo Stalker il racconto tragico di un collega, un altro Stalker, un certo Porcospino che, riuscito a penetrare fino alla stanza dei desideri, e chiesto che potesse tornare in vita il fratello, ha finito per diventare ricco una volta uscito dalla Zona, e però, infelice più di prima si è poi suicidato.

Cosa succede ai due viaggiatori, allo scrittore e allo scienziato ?

Giunti sulla soglia della stanza, nessuno dei due ha il coraggio di entrare.  Lo scienziato vorrebbe addirittura distruggere per sempre quel luogo angosciante, estraendo dalla sua bisaccia un ordigno nucleare;  ma anche lo scrittore si rifiuta di entrare, asserendo che i desideri sono, alla fine, quasi sempre ignobili.

Il ritorno dei tre uomini appare dunque come una sconfitta.  L’attraversamento del mare di rovine, sembra non aver prodotto nulla in loro, di non aver procurato nessun cambiamento.

Ma non è così.

Dopo essersi separati nello stesso bar – in rovina – dove si sono incontrati la prima volta, è lo Stalker che seguiamo nel suo ritorno a casa.

Qui egli dà sfogo alla disperazione: ha visto due degli uomini più celebrati, arrendersi di fronte alla porta della fatidica stanza; in definitiva rinunciare alla conoscenza, sopraffatti dai rispettivi pregiudizi.

E’ la constatazione della perdita della fede: il tema che più di ogni altro sta a cuore a Tarkovskij. E’ proprio la mancanza di fede a negare ai due viaggiatori la possibilità del cambiamento.  Ed è proprio lo Stalker l’unico di loro che sarà, misteriosamente, ricompensato. La moglie cerca di consolarlo. Ma alla loro figlia, che è protagonista dell’ultimo lentissimo piano sequenza del film, e che non ha l’uso delle gambe, succede qualcosa: la vediamo recitare a mezza voce una poesia, poi poggiando il viso sul tavolo fissare gli oggetti posati sopra – un bicchiere ed una bottiglia – che si muovono sotto il suo sguardo.  La bambina ha dunque ricevuto in dono misteriosi poteri ?  Se non riuscirà a camminare riuscirà però a spostare gli oggetti con il pensiero ? Non lo sappiamo. Ma ascoltiamo, in sottofondo, le inconfondibili note dell’Inno alla Gioia di Beethoven (sembrano provenire da lontanissimo) che chiudono il film.

Lo Stalker,  che ha attraversato la Zona, sembra, secondo quanto ci dice Tarkovskij aver resistito. Non si è spezzato. In qualche modo, la sua fede (la fede nella vita più che la fede religiosa) è sopravvissuta anche ai dubbi e alle diffidenze dei due uomini sapienti che ha accompagnato con sé; ha saputo distinguere il fondamentale dal passeggero. 

E forse per questo la Zona ha esaudito il suo desiderio (un desiderio altruistico, rivolto alla figlia).

Le rovine dunque, sembrerebbe suggerire Tarkovskij, hanno anche quest’altra incredibile proprietà: non solo quella di far rinascere, ma anche di salvare.

Un tema che stava personalmente a cuore al regista, avendo egli sperimentato la durezza dell’essere un artista libero e creativo negli anni dell’Unione Sovietica.

Gli anni della realizzazione di Stalker sono particolarmente difficili per Tarkovskij.  La notorietà improvvisa che gli ha portato l’aver vinto il Leone d’Oro di Venezia ad appena trent’anni (ex aequo con Valerio Zurlini per Cronaca Familiare) con L’infanzia di Ivan nel 1962, gli ha creato in patria parecchi problemi.  Andrej Rublev, il film seguente arriva al Festival di Cannes del 1966 in ritardo e avventurosamente, dopo aver sopportato molti tagli.  Ciò nonostante la critica internazionale reputa Tarkovskij già un maestro e gli consegna il Premio Speciale della Giuria al Festival di Cannes del 1972 per Solaris.  Ma il crescente apprezzamento internazionale, e il rifiuto di prestarsi in qualsiasi modo alla propaganda interna gli attira forti critiche e un clima sempre più irrespirabile.  Il regime, pur senza sconfessarlo pubblicamente, sa come mettere i bastoni tra le ruote, sa come rendere la vita difficile al regista, anche semplicemente negando permessi burocratici, procrastinando gli appuntamenti con i funzionari, ostentando il silenzio degli uffici amministrativi, negando i fondi e i luoghi per le locations.

Ma Tarkovskij non può che seguire la sua piena libertà creativa, comunque.
Realizza tra mille difficoltà e ostacoli sempre più gravosi prima Lo Specchio (1974)  che raggiunge il culmine del biasimo nazionalistico per la sua scelta di narrare una storia puramente autobiografica, e poi Stalker, che sarà l’ultimo film girato da Tarkovskij in Russia, prima della fuga in Italia.

Negli anni in cui realizza Stalker, il regista vive una stagione di umiliazioni in patria.  La distribuzione dei suoi film è relegata alla terza categoria (opera di èlite) e quindi fuori dai grandi circuiti. Per girare Stalker deve ottenere l’autorizzazione direttamente dal Presidium del Soviet Supremo. Ciò nonostante il film viene presentato fuori competizione al festival di Rotterdam e di conseguenza inibito a partecipare al concorso per la Palma d’Oro al Festival di Cannes.

Tarkovskij è un artista sempre più ingombrante e scomodo. E’ solo un anticipo di quello che avverrà qualche anno dopo quando, a seguito della scelta di Tarkovskij di non tornare in patria, il regime si vendicherà impedendo alla moglie Larissa, insieme ai figli Andrej e Arsenij, di raggiungere il marito: riunione che si concretizzerà soltanto sul letto di morte di Tarkovskij, pochi giorni prima della sua morte avvenuta a Parigi la notte del 28 dicembre 1986.

Nei lunghi mesi di riprese di Stalker, Tarkovskij annota nei suoi diari lo sconforto e la disperazione per il lavoro andato a monte, per tutte le incredibili difficoltà insorte, in gran parte procurate dai grigi burocrati con cui ha a che fare costantemente. Scrive:
Sono successe molte cose. Una specie di catastrofica distruzione, di tale portata che, senza la minima ambiguità, ciò che ne rimane è solo e comunque l’impressione di una tappa superata e di un nuovo traguardo da raggiungere e ciò suscita almeno un po’ di speranza. (…)  Tutto quello che abbiamo girato a Tallin è da buttare. Tutto è fermo per almeno un mese. Alla vigilia dell’inizio della lavorazione di Stalker. Ma se così dev’essere, tutto sarà nuovo. (…) Bisogna ricominciare tutto da zero.  Ne avremo la forza ? 

Le rovine di cui la trama di Stalker è disseminata sembrano dunque coinvolgere anche il film stesso. Tarkovskij descrive la catastrofica distruzione che lo costringe a ripartire da zero. O comunque su quelle fatiscenti rovine che sono state l’inizio del suo film (andato a male per causa soprattutto di un operatore incompetente e per lo sviluppo dei negativi Kodak condotto maldestramente dai laboratori della Mosfilm.

Preso dal nuovo inizio, Tarkovskij non scrive più nulla nel diario per i successivi quattro mesi. Riprende la penna in mano solo a dicembre di quell’anno e il giorno 28  (28 dicembre, lo stesso giorno della sua morte qualche anno più tardi) scrive un solo passo di una citazione tratta da Lao-Tze, che ha inserito alla fine nella sceneggiatura del film, e ha messo in bocca allo Stalker,  in una delle scene più importanti:

La debolezza è sublime, la forza spregevole. Quando un uomo nasce, è debole ed elastico. Quando muore è forte e rigido.
Quando un albero cresce, è flessibile e tenero; quando diviene secco e duro, esso muore. La durezza e la forza sono le compagne della morte. La flessibilità e la debolezza esprimono la freschezza della vita. Perciò chi è indurito, non vincerà. 

Sembra un vero manifesto dell’opera di Tarkovskij.
Lo Stalker recita questo monologo proprio in opposizione alle presunte (rigide) certezze dello scrittore e dello scienziato.

La fragilità e la debolezza sono i paradigmi in cui crede Tarkovskij, e ciò che permette alla fragile e debole poesia dello Stalker di essere ascoltata ed esaudita.
E cosa esiste di più fragile e debole delle rovine ?

Si capisce così per quale motivo Tarkovskij abbia scelto soltanto un teatro di rovine come sfondo per il suo film. Rovine che torneranno ancora – nella magnificenza autunnale della Toscana dell’Abbazia di San Galgano -  a  popolare molte scene del film successivo, Nostalghia.

La vita stessa del regista, durante le riprese del film sembra andare in pezzi. Sempre più angosciato per il suo futuro lavorativo, per la sorte dei familiari e per quelle del film che non riesce a compiersi, Tarkovskij subisce un infarto.

Sono inchiodato a letto ormai da 9 giorni, scrive il 15 aprile del 1978 (14), i medici dicono che forse oggi mi sarà concesso di stare a letto seduto.  Era proprio una cosa che non avrei mai pensato mi potesse succedere: avere un infarto a 46 anni. E al contempo sarebbe stato molto strano se non fosse successo. Che Dio li perdoni.

Il regista si riprende in fretta. Due settimane dopo annota che l’infarto si sta cicatrizzando.

Ma è solo il primo segnale di una salute precaria, che risente delle difficoltà psicologiche, sempre più gravi per Tarkovskij, diviso dalla patria, dalla famiglia e in qualche misura da se stesso.

Il viaggio in Italia, allora che inizia nel luglio 1979, è per lui una vera rinascita. Il regista, accompagnato dal fedele amico Tonino Guerra inizia una peregrinazione in lungo e in largo per la penisola alla ricerca di luoghi idonei per girare il suo vagheggiato progetto di un film italiano, ospite nelle case degli intellettuali, attratti dal carisma di quel russo mistico che non parla una parola né di italiano né di russo.

Per Tarkovskij è anche una occasione di sperimentare nuove vie. Un tratto lo accomuna agli altri due maestri, Bergman e Fellini ed è il fascino per il magico, l'inconsueto, il soprannaturale, l'inspiegabile.

Nella sua curiosa voracità intellettuale, Tarkovskij che ha già avvicinato in patria i temi più lontani come la parapsicologia e gli avvistamenti UFO,  si imbatte anche nella Meditazione Trascendentale.

In quel mese del 1979 è infatti ospite insieme a Guerra di Michelangelo Antonioni,  nella sua splendida villa in Sardegna, sulla Costa Paradiso.

Tarkovskij descrive nei diari la bellezza della villa ("Tamarindi, alberi nani, ammassi rocciosi, c'è dell'acqua tutto intorno...Una spiaggia straordinaria"); descrive i suoi ospiti (Michelangelo è molto gentile, sua moglie Enrica è piena di attenzioni, una padrona di casa perfetta); manifesta i suoi dubbi  (A sentire Tonino, questa casa costa circa 2 miliardi di lire, un milione e settecentomila dollari. La casa. Michelangelo ha troppo "buon gusto"). 

Il 31 luglio, tre giorni dopo il suo arrivo, annota: Oggi ho compiuto il mio primo esercizio di Meditazione Trascendentale, sotto la guida di Enrica.  Domani faremo l'esercizio individualmente.  Gli esercizi, o le tecniche da imparare sono quattro. Alla fine della prima lezione, l'allievo deve offrire al suo maestro (in segno di riconoscenza) un mazzo di fiori, due frutti e un pezzo quadrato di stoffa bianca (un tovagliolo oppure un fazzoletto). Domani dovrò andare a fare un po' di compere con Michelangelo. 
Prima meditazione: Mantra. 

E il giorno dopo, 1 agosto:

Meditazione al mattino. Più profonda, ma avevo la tendenza ad addormentarmi. E'un peccato che il primo giorno di digiuno coincida con il mio giorno di meditazione. Non ho avvertito le "pulsazioni blu". 
In serata la mia meditazione ha funzionato bene. Enrica ha tenuto lezione a me e a Lora (ndr la moglie russa di Tonino Guerra), Ho visto di nuovo dei lampi blu. (15)

Fa una certa impressione immaginare Tarkovskij, Antonioni, Guerra, in quella magica estate del 1979. 

Appena sei anni dopo, nel dicembre 1985, appena terminate le riprese del suo ultimo film,Sacrificio (Offret), sorta di testamento spirituale con la storia di un uomo che assiste al crollo di ogni cosa in cui crede in seguito all'improvviso scoppio di una guerra nucleare, Tarkovskij a Parigi si sottopone ad una radiografia e scopre di avere “un’ombra” nel polmone sinistro. Dieci giorni dopo gli viene diagnosticato un tumore incurabile.

I diari registrano la reazione umana di Tarkovskij, la disperazione, che si rivolge quasi subito ad altro, agli altri, a coloro che ama. La malattia ottiene almeno questo effetto: l’interessamento personale del presidente francese Francois Mitterrand fa sì che Mikhail Gorbaciov, divenuto Segretario Generale del Partito Comunista Sovietico da qualche mese, prenda a cuore la vicenda dei famigliari del regista concedendo finalmente a madre e figlio di uscire dalla Russia e ricongiungersi al padre.

Sono arrivati, Andrjusa e Anna Semenovna ! scrive a grandi lettere Tarkovskij nel suo diario, il 19 gennaio del 1986 e questa pagina è accompagnata dalla prima foto che ritrae insieme padre e figlio, di nuovo insieme dopo cinque anni. Andrjusa è un adolescente,  Tarkovskij è un uomo malato, nel suo letto, gli occhiali sulla federa,  un libro (la Bibbia?) accanto al cuscino.   Gli ultimi mesi trascorrono a Parigi, tra  momentanei miglioramenti, progetti per nuovi film e fitte notazioni sul diario.

Eppure anche l’attraversamento di questa rovina, regala a Tarkovskij, squarci di luce inaspettata.      L’11 aprile, quando la malattia si è fatta più dura, con fortissimi dolori al petto e alla schiena, e i conati di vomito causati dalla chemioterapia, scrive:  Un’immensa speranza è penetrata oggi nell’anima mia: non so come definirla, semplicemente come felicità.   La speranza che la felicità sia possibile.  Fin da stamattina le finestre della mia stanza d’ospedale sono inondate di sole. (16)

Un mese dopo, Sacrificio viene presentato al Festival di Cannes.  La giuria, all’ultima votazione gli preferisce, per la Palma d’Oro, Mission di Roland Joffé. A Sacrificio viene assegnato, tra le polemiche (17), il Gran Premio Speciale della Giuria.  Il figlio,  Andrei, va a ritirare il premio sulla Croisette  al posto del padre.

Nelle settimane successive, che gli restano da vivere,  Tarkovskij continua a riflettere e a scrivere, febbrilmente, su un vagheggiato film sui Vangeli.  Torna sul tema del sacrificio: l’amore è sempre un donarsi agli altri, scrive. E nonostante il termine sacrificio, sacrificale,  comporti un significato quasi negativo ed esteriormente distruttivo (se preso nella accezione del linguaggio parlato) riferito alla persona che si sacrifica, in effetti l’essenza di quest’atto è sempre amore, cioè un fatto positivo, creativo, divino. (18)      Sul tema del sacrificio, dell’incontro tra il sacrificio umano – quello di Giuda Iscariota, ma anche quello di ogni uomo, e dello stesso Tarkovskij, ormai giunto al termine della sua vita  - e quello divino di Cristo, si giocano le ultime riflessioni del grande regista, che sembra consegnare la sua anima, “faccia a faccia con la propria vita”, come scrive il 4 novembre, un mese prima di morire.

Sono anche le considerazioni che concludono il suo libro più famoso, quello nel quale Tarkovskij ha riassunto il suo pensiero teorico, sul cinema, sulla creazione, sull’arte (19) . Nelle ultime pagine di Scolpire il Tempo, scrive:  Il nostro mondo è scisso in due parti: il bene e il male, la spiritualità e il pragmatismo.  Il nostro mondo umano è costruito, è modellato sulla base delle leggi materiali poiché l’uomo ha costruito la propria società sul modello della morta materia. Perciò egli non crede nello Spirito e rifiuta Dio. C’è una speranza che l’uomo sopravviva, nonostante tutti i segni del silenzio apocalittico preannunciato dall’evidenza dei fatti ?  La risposta a questo interrogativo, forse, è  contenuta nell’antica leggenda sulla resistenza dell’albero inaridito, privato dei succhi vitali, che ho preso come base del film più importante nella mia biografia artistica (20).  Un monaco, passo dopo passo, secchio dopo secchio portava l’acqua sulla montagna e innaffiava l’albero inaridito, credendo senz’ombra di dubbio nella necessità di quel che faceva, senza abbandonare neppure per un istante la fiducia nella forza miracolosa della sua fede nel Creatore e perciò assistette al Miracolo: una mattina i rami dell’albero si rianimarono e si coprirono di foglioline. Ma questo è forse un miracolo ?  E’ soltanto la verità.   (21)

I rami dell’albero si rianimano e si coprono di foglie. Rinasce ciò che è inaridito. Guarisce per sempre ciò che è malato: il sogno di Tarkovskij è sempre lo stesso. E’ il sogno dello Stalker.  Le rovine generano. Solo il chicco di grano che muore, germoglia. Non importa se si muore. L’arte rivela la vita, e la conserva. Anche oltre la morte.


Stalker
di Andrej Tarkovskij 
URSS, 1979
Durata 161 minuti
con Anatoliy SolonitsynNikolaj GrinkoAleksandr KaydanovskiyAlisa Frejndlikh, Natasha Abramova, Y. Kostin, R. Rendi, F. Yurma, Oleg Fyodorov