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10/10/22

Carrère: "Limonov sarebbe potuto diventare anche lui come Putin"

 

Eduard Limonov a Parigi nel 1987


Credo che in ore come queste, in cui sempre di più ci si interroga sullo spirito dell'anima russa, sulle contraddizioni e lacerazioni di quel popolo, sulla sua storia monumentale e incomprensibile, sulle ragioni del suo popolo, sui regimi che negli ultimi secoli si sono alternati al potere assoluto di quella sterminata nazione, dagli Zar a Putin, sia quanto mai utile ritornare al grande libro di Emmanuel Carrère, che sotto le sembianze della biografia di un personaggio perennemente sopra le righe come Eduard Limonov, costruisce un saggio aggiornato, significativo, penetrante, sullo spirito russo, arrivando - nella narrazione, fino al 2010, ad "era Putin" inoltrata. 

Ed è forse particolarmente utile rileggere una delle ultimissime pagine, nelle quali Carrère traccia un bilancio della vita di questo uomo senza pace, poeta, dissidente, politico, soldato, intellettuale, bohèmien, donnaiolo, dissoluto, continuamente mosso da un bisogno di notorietà, da un bisogno di differenziarsi dalla massa dei "normali", invidioso dei potenti e dei famosi, solidale con i reietti e i perdenti, del tutto incoerente nella sua estrema coerenza. 

Carrère disegna in questa pagina una bruciante somiglianza tra il suo eroe, "perdente" sempre e Vladimir Putin, mettendo in luce ciò che li accomuna. Rileggiamo:

A Putin penso parecchio, mentre si avvicina la fine di questo libro. E più ci penso, più ritengo che il dramma di Eduard (Limonov ndr),sia stato credere di essersi sbarazzato dei vari capitani Levitin che gli avevano avvelenato la giovinezza e vedersi invece parare davanti, tanti anni dopo e quando credeva di avere ormai la strana spianata, un super capitano Levitin: il tenente colonnello Vladimir Vladimirovic (Putin ndr.)

In occasione della campagna presidenziale del 2000 è stato pubblicato un libro di colloqui con Putin il cui titolo, in originale, è "In prima persona".  (...)

Dicono che Putin parli in politichese: non è vero. Putin fa quello che dice, dice quello che fa, e quando mente è così spudorato che non ci casca nessuno.  Se si esamina la sua vita, si ha l'inquietante sensazione di trovarsi di fronte a un doppio di Eduard.

Putin è nato in una famiglia dello stesso tipo di quella di Eduard, soltanto dieci anni dopo: padre sottoufficiale, madre donna delle pulizie, tutti accalcati dentro la stanza di una kommunalka. Ragazzino gracile e introverso, è cresciuto nel culto della patria, della grande guerra patriottica, del KGB, della fifa che esso incuteva a tutti quei senza palle di occidentali. 

Da adolescente è stato, per usare le sue stesse parole, un teppistello, e se non è diventato un delinquente, lo deve soltanto al judo, a cui si è dedicato con tanta intensità che i suoi compagni ricordano ancora le terribili urla provenienti dalla palestra dove si allenava, da solo, la domenica. 

E' entrato negli organi per romanticismo, perché essi annoveravano uomini eccezionali che difendevano la patria, e lui era orgoglioso di diventare uno di loro. 

Ha diffidato della perestrojka, non ha mai sopportato che masochisti o agenti della CIA facessero tante storie per i gulag e i crimini di Stalin, la fine dell'impero è stata per lui la più grande catastrofe del ventesimo secolo, e ancora adesso la pensa così. 

Nel caos dei primi anni '90 si è ritrovato dalla parte dei perdenti, dei beffati, ridotto a fare il tassista. Adesso che è al potere adora, come Eduard, farsi fotografare a petto nudo, i muscoli in evidenza, con addosso i pantaloni della tuta mimetica e un coltello da commando alla cintura.

Come Eduard è freddo e astuto, sa che l'uomo è un lupo per gli altri uomini, crede solo nel diritto del più forte, nell'assoluto relativismo dei valori e preferisce fare paura piuttosto che averla. 

Come Eduard disprezza i frignoni che considerano sacra la vita umana. L'equipaggio del Kursk può impiegare otto giorni a morire asfissiato sul fondo del mare di Barents, le forze speciali possono gasare centocinquanta ostaggi nel teatro della Dubrovka e trecentocinquanta bambini nella scuola di Beslan, ma Vladimir Vladimirovic dà al popolo notizie della sua cagnolina che ha partorito. La cucciolata sta bene: pappa di gusto, bisogna vedere le cose in maniera positiva. 

La differenza tra Putin e Eduard è che Putin ce l'ha fatta. Putin è il capo. 

(...)

Limonov, se si trovasse al posto di Putin, certamente direbbe e farebbe tutto quello che Putin dice e fa. Ma Limonov non è al posto di Putin, e non gli resta che occupare quello, così incongruo per lui, di oppositore virtuoso, difensore di valori in cui non crede (democrazia, diritti umani e stronzate del genere) al fianco di persone oneste che incarnano tutto quello che lui ha sempre disprezzato.  Non esattamente uno scacco matto, ma certo, in queste condizioni, non è semplice saper stare al proprio posto.


10 e lode. 



25/09/22

La volta che Werner Herzog umiliò crudelmente il giovane Emmanuel Carrère

 


Tra le pagine del suo libro forse di maggior successo, Limonov, si scopre un interessante e amaro episodio che riguarda l'incontro dell'allora giovane autore, Emmanuel Carrère, con uno dei suoi idoli giovanili, il regista tedesco Werner Herzog. 

L'episodio merita di essere raccontato.

All'epoca, agli inizi della sua carriera letteraria, Carrère stava muovendo i suoi primi passi come critico cinematografico, su importanti riviste specializzate francesi. Il primo articolo esce nel ‘77.  

Carrère, profondo cinéphile, aveva tra i suoi idoli Tarkovskij, Kubrick, Resnais, Bob Rafelson, ma soprattutto Werner Herzog, a cui nell'82 dedicò uno studio monografico, che ancora oggi è in commercio. 

Al Festival di Cannes del 1982, dove Carrère è inviato a nome di una delle riviste con cui collabora all'epoca, gli capita l'occasione di conoscere da vicino Herzog, che si trova al Festival proprio per presentare, in concorso, Fitzcarraldo, il suo capolavoro. 

Così, prima dell'intervista, nella suite dell'Hotel Carlton, Carrère riesce a far recapitare una copia del volume che gli ha dedicato, da poco uscito, al regista tedesco. 

All'appuntamento, Herzog gli viene ad aprire la porta della camera con gli stivaloni da esploratore, e lo fa entrare ma senza degnarlo di un sorriso. Carrère, invece in profondo imbarazzo sorride e scopre con sollievo che il suo libro è proprio lì, in camera, sul piano del tavolino, al quale siederanno per l'intervista.

Carrère cerca di balbettare qualcosa, ma il regista – uomo notoriamente ispido – lo tratta a pesci in faccia, con gratuita crudeltà.

Lo ammonisce, con la sua voce profonda e "meravigliosa", che non ha letto il libro e che non ha intenzione di leggerlo; che si tratta, anzi, di Bullshit. Merda. E che quindi si sbrigasse con l'intervista che vuole fargli. 

Con l'ego sanguinante, lo spavaldo freelance ripiega traumatizzato. Oggi confessa: «Da allora non ho più rivisto Herzog. Dicono che col tempo sia diventato più umano. Anche se l'idea mi terrorizza, sarebbe bello incontrarlo di nuovo. Comunque trovo i suoi lavori successivi molto meno convincenti. Per questo, quando mi hanno chiesto una versione aggiornata del saggio, ho rifiutato». 

Roberto Manassero scrive su Doppiozero: La grandezza del libro, Limonov, è che "Carrère tratta il suo protagonista allo stesso modo di Herzog, cioè con sguardo severo e oggettivo, in virtù dell’ammirata fascinazione che prova per entrambi, sta nell’assoluta onestà intellettuale della scrittura, nella mancanza di rivendicazione soggettiva da parte dell’autore. Per cui Carrère non se la prende mai, non scrive per rivendicare ragioni o lamentare torti."

"Se definisce, come definisce, Herzog un «fascista», o meglio, se vede nell’egoismo superomista di Herzog il nocciolo del fascismo, ammettendo di non capire quali ragioni avesse per trattare in modo sgarbato un ragazzo magari valleitario ma pur sempre appassionato, Carrère usa la vita di un suo simile – di un suo simile che ammira e non capisce – come uno strumento per scandagliare se stesso."

....

"Carrère ha nei confronti del suo personaggio (Limonov, ndr) un rapporto di distanza e ammirazione, di invidia e insieme di disprezzo, e lo dice apertamente, non si nasconde, si butta dentro il suo lavoro con il peso ingombrante delle annotazioni sulla sua vita, e fa capire più di ogni altra cosa, dietro le agili e appassionanti rievocazioni storiche e biografiche, di scrivere soprattutto per se stesso, di scrivere e raccontare, così come per Herzog deve essere stato filmare o commentare immagini create da altri, per capire cosa unisce un essere umano moderato, intelligente e onesto come lo stesso Carrère, o come l’Herzog ormai invecchiato alle prese con la follia di Tradwell (nel suo film Grizzly man, ndr)  davanti all’esempio di una persona evidentemente fuori dal comune, un superuomo, come Carrère a un certo punto definisce sia Limonov sia Herzog, che di eroico e romantico non ha nulla, che anzi scivola spesso nel povero stronzo invidioso e convinto della propria superiorità, ma che sembra essere venuto al mondo per ricordare agli altri il peso delle loro scelte, i limiti delle regole sociali e dei contesti storici che condizionano ogni vita comune."

"Carrère scrive a un certo punto che se oggi Herzog si ricordasse del comportamento poco educato avuto nei suoi confronti, probabilmente si scuserebbe: e in effetti, a giudicare dal tono delle parole che usa alla fine di Grizzly Man, riflettendo sul valore della vita ridicola di Treadwell («E mentre guardiamo gli animali nella loro scelta di vivere, nella loro grazia e ferocia, un’idea si fa sempre più strada: queste immagini non sono tanto uno sguardo sulla natura quanto piuttosto su noi stessi, sulla nostra natura. Ed è questo che secondo me, al di là della sua missione, dà significato alla sua vita e alla sua morte»), viene da pensare, che sì, oggi Herzog si scuserebbe, perché nel dubbio spaventato con cui ammette di giudicare il suo personaggio si coglie la stessa onestà intellettuale che rende autentiche le pagine di Limonov. "

"E in questo, a nostro parere, si intravede uno dei segreti per cui ha pur sempre senso scrivere, filmare e raccontare il reale. Non per capirlo, ma per sentirlo meno alieno e meno distante."

Fabrizio Falconi - 2022