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16/10/25

QUANDO TUTTI I BOOMERS SCOPRIRONO L'ADORABILE DONNA NEVROTICA E FINIRONO PER INNAMORARSENE

 


QUANDO TUTTI I BOOMERS SCOPRIRONO L'ADORABILE DONNA NEVROTICA E FINIRONO PER INNAMORARSENE

di Fabrizio Falconi

Anno spartiacque: il 1977.
In quell'anno i boomers non sapevano ancora di essere boomers. Sapevano di essere in tanti, questo sì, perché le classi scolastiche erano strapiene e gli amici o i compagni di classe avevano tutti i fratelli e/o le sorelle.
I boomers crescevano in un mondo apparentemente dorato, perché anche se erano in tanti, si stava non male, dopo la rivoluzione dei costumi di fine anni '60, si potevano sperimentare cose nuove in giro e poi non c'erano missili sulla capoccia, non almeno la nostra, quella degli europei e dei nordamericani.
Anche i boomers, all'epoca, poi, si dividevano tra femmine e maschi. Più quelli che amavano persone del proprio sesso e che da qualche tempo avevano cominciato a farlo più liberamente.
I boomers maschi non erano così montati per il lavoro come gli X che seguirono, spallati come gli Y o leggermente ottenebrati dalla tecnologia digitale come gli Z.
I boomers maschi erano quindi mediamente più allegrotti, ma piuttosto imbranati. Venivano da modelli femminili importati dalla generazione perduta dei padri, indecisi tra le bambolotte atomiche americane e i positivi inquinamenti femministi della donna silfide del '68.
Tutto poi, in Italia, come sempre, avveniva in ritardo.
Ma il 1977... il 1977 i boomers all'improvviso si svegliarono dall'incatamento e scoprirono l'esistenza di un'altra tipologia di donna: la donna nevrotica.
Lungi dall'essere un'accezione negativa, questa caratteristica si presentava piena di mistero e invitante (anziché essere repulsiva come era stata per la generazione perduta) perché "strana" e decisamente sexy.
"Io e Annie", o meglio "Annie Hall", sdoganò da un giorno all'altro un appetibilissimo frutto amoroso come un bell'ananasso rimasto nel frigo molto a lungo che ci si è decisi finalmente a testare.
I boomers maschi sapevano, perché all'epoca si leggevano perfino i libri, che TUTTI, nell'età moderna, sono nevrotici e che dunque, anche loro lo erano. Perché la nevrosi era (ed è) la manifestazione della contemporaneità.
Il dottor Jung l'aveva genialmente definita, la nevrosi, come "sofferenza inautentica". E i boomers sapevano che era così, perché non c'era altro modo di definire la lamentazione, i dubbi, il contorcimento mentale (a Roma si chiamano "pippe mentali"), l'autoscarnificazione quando fuori si conduce una vita apparentemente sana e felice e si è circondati di cose che vanno bene o di problemi risolvibili.
Lo stereo-tipo della donna nevrotica - per di più intellettuale, intelligente, e sopratutto "figa" - si materializzò nel 1977 nei panni della meravigliosa rompiballe, logorroica, umorale, bipolare, ANNIE!
Una folgorazione.
I boomers italiani scoprirono in un colpo solo che per essere seducenti e fascinose non serviva affatto avere le curve di Monza della Antonelli o della Muti e nemmeno le gambe di 3 chilometri e il broncio della Birkin.
No, no, la Keaton aveva aperto una nuova strada. Le donne potevano vestirsi come maschi, essere spiritosissime, far morire dal ridere, sfasciare i cabassisi spaccando in 4 il capello alla nuova mostra di foto di Mapplethorpe o di Warhol, ma anche fare l'amore in modo meraviglioso.
La nevrosi - l'inconcludenza, l'indecisione, le lacrime e poi le risate, la battuta salace - era uscita dai reparti psichiatrici ed era diventata pane di modernità e perfino di amore.
Annie-Keaton era, anzi, la dimostrazione che ancora una volta le donne erano arrivate per prime: molto più brave e pronte e coraggiose nel riconoscere la propria nevrosi e nell'andarci a scavare dentro, ostentandola alla bisogna.
I boomers maschi arrivarono molto dopo. Per un po' si illusero di essere loro "i sani", quelli dell'equilibrio, della sicurezza, del conforto e della stabilità. Cagate autoriferite che durarono meno di un'infreddata di ferragosto.
Con un po' di tempo, anche loro capirono che si era tutti nella stessa barca e che anzi, se i maschi facevano così fatica a riconoscere e a venire a patti con le proprie nevrosi era soltanto per la solita vigliaccheria (derivante da paura primordiale) di guardarsi dentro e scoprirci qualche mostro.
Insomma, Diane Keaton se ne va a tempo debito. Quando la nevrosi ha perso quasi tutto quello che lei vi aveva mescolato di bello, cioè il fascino, l'intelligenza e l'ironia. Essendo oggi diventata la nevrosi il paradigma universale e autogiustificativo dell'egocentrismo e del narcisismo di massa, dell' "io sono fatto così e tu mi devi accettare."
Ah cara Diane, quanto ci mancherai ! (soprattutto a noi, boomers in via d'estinzione...)
Fabrizio Falconi

24/11/15

La ragazza di Gaza che è rimasta chiusa in casa per 20 mesi e ha trasformato la sua vita in opera d'arte (Nidaa Badwan).



Attraverso la sua macchina fotografica, Nidaa Badwan ci trasporta nella sua piccola camera da letto, dove è rimasta per un anno e dieci mesi. 

Le sue opere denunciano le tragedie della sua terra e allo stesso tempo rappresentano una realtà vivace e poetica, colorando e creando un percorso luminoso per Gaza

Il 19 novembre del 2013 Nidaa Badwan ha chiuso la porta della sua camera da letto e l’ha tenuta chiusa per ventidue mesi. 

Una reclusione volontaria, decisa e motivata. Il giorno prima i miliziani di Hamas l’avevano fermata mentre aiutava un gruppo di giovani a preparare una mostra. “Perché porti quei pantaloni larghi? Devi indossare il velo non quel cappello di lana colorato. Sei strana, chi sei?”. “Sono un’artista” aveva risposto lei. “Che vuol dire? Che cos’è un’artista e soprattutto che cos’è un’artista donna?”. 

 Da quel giorno Nidaa si è isolata nella sua stanza, piccola, solo nove metri quadrati e con una sola finestra. Al soffitto una lampadina appesa ai soli fili elettrici. Ha colorato le pareti di blu, di verde, una l’ha riempita di cartoni delle uova ognuno di colore diverso, come un arcobaleno e durante i quattordici mesi, ha cambiato e ricambiato, secondo l’ispirazione e soprattutto in base alla poca luce naturale che filtrava dalla finestra

Nella stanza strumenti musicali (un oud, una chitarra rotta), una vecchia macchina per scrivere, una cucitrice, gomitoli di lana, una scala di legno da imbianchino, fanno da scenografia

Nidaa Badwan prepara la sua macchina fotografica, aspetta la giusta luce naturale e scatta, scatta e poi scatta ancora. 



Sono autoscatti in cui il volto si riconosce appena, ma sembrano quadri e non fotografie. I colori, il calore, suscitano emozioni, sensazioni forti, ricordano le nature morte di Chardin, i chiaroscuri di Caravaggio, le scene teatralizzate di David. 

Nidaa Badwan con i suoi ritratti rappresenta i sogni dei giovani della sua terra e l'isolamento del mondo femminile sotto il governo autoritario di Hamas.

Dopo aver esposto a Gerusalemme, Betlemme, Nablus, Herbron in Palestina, a Montecatini Terme e Montegrimano in Italia, e prima di esporre in molti altri paese in giro per il mondo, le meravigliose opere di Nidaa verranno esposte nello splendido scenario del Palazzo Graziani della Repubblica di San Marino, con ben 24 tavole, che rimarranno a disposizione del pubblico dal 23 novembre 2015 al 6 gennaio 2016

 Queste le parole del Segretario alla Cultura Giuseppe Morganti: “In una terra come San Marino, che basa i suoi valori e la sua storia sulla libertà, tu rappresenti un simbolo particolare, perché ti batti per i diritti con strumenti di pace e non di guerra”.

“100 giorni di solitudine” di Nidaa Badwan dal 23.11.2015 al 6.01.2016 Palazzo Graziani Via dello Stradone, 12 San Marino 



19/04/10

Susanna Tamaro: Il femminismo non ha liberato le donne. Le ragazze oggi meno libere di 40 anni fa.


vi propongo l'articolo pubblicato ieri, domenica 18 aprile 2010 da Susanna Tamaro su Il Corriere della Sera.

Il femminismo non ha liberato le donne
Tutti i messaggi si concentrano sul corpo: siamo passati dall’angelo del focolare alla mistica della seduzione

Appartengo alla generazione che ha combattuto, negli anni della prima giovinezza, la battaglia per la libertà sessuale e per la legalizzazione dell’aborto. La generazione che nei tè pomeridiani, tra un effluvio di patchouli e una canna, imparava il metodo Karman, cioè come procurarsi un aborto domestico con la complicità di un gruppo di amiche. Quella generazione che organizzava dei voli collettivi a Londra per accompagnare ad abortire donne in uno stato così avanzato di gravidanza da sfiorare il parto prematuro. È difficile, per chi non li ha vissuti, capire l’eccitazione, l’esaltazione, la frenesia di quegli anni. La sensazione era quella di trovarsi sulla prua di una nave e guardare un orizzonte nuovo, aperto, illuminato dal sole di un progresso foriero di ogni felicità. Alle spalle avevamo l’oscurità, i tempi bui della repressione, della donna oggetto manipolata dai maschi e dai loro desideri, oppressa dal potere della Chiesa che, secondo gli slogan dell’epoca, vedeva in lei soltanto un docile strumento di riproduzione. Erano gli anni Settanta.

Personalmente, non sono mai stata un’attivista, ma lo erano le mie amiche più care e, per quanto capissi le loro ragioni, non posso negare di essere stata sempre profondamente turbata da questa pratica che, in quegli anni, si era trasformata in una sorta di moderno contraccettivo. Mi colpiva, in qualche modo, la leggerezza con cui tutto ciò avveniva, non perché fossi credente — allora non lo ero — né per qualche forma di moralismo imposto dall’alto, ma semplicemente perché mi sembrava che il manifestarsi della vita fosse un fatto così straordinariamente complesso e misterioso da meritare, come minimo, un po’ di timore e di rispetto. Come sono cambiate le cose in questi quarant’anni? Ho l’impressione che anche adesso il discorso sulla vita sia rimasto confinato tra due barriere ideologiche contrapposte. La difesa della vita sembra essere appannaggio, oggi come allora, solo della Chiesa, dei vescovi, di quella parte considerata più reazionaria e retriva della società, che continua a pretendere di influenzare la libera scelta dei cittadini. Chi è per il progresso, invece, pur riconoscendo la drammaticità dell’evento, non può che agire in contrapposizione a queste continue ingerenze oscurantiste. Naturalmente, un Paese civile deve avere una legge sull’aborto, ma questa necessaria tutela delle donne in un momento di fragilità non è mai una vittoria per nessuno. I dati sull’interruzione volontaria di gravidanza ci dicono che le principali categorie che si rivolgono agli ospedali sono le donne straniere, le adolescenti e le giovani. Le ragioni delle donne straniere sono purtroppo semplici da capire, si tratta di precarietà, di paura, di incertezza—ragioni che spingono spesso ormai anche madri di famiglia italiane a rinunciare a un figlio, ragioni a cui una buona politica in difesa della vita potrebbe naturalmente ovviare.
Ma le ragazze italiane? Queste figlie, e anche nipoti delle femministe, come mai si trovano in queste condizioni? Sono ragazze nate negli anni 90, ragazze cresciute in un mondo permissivo, a cui certo non sono mancate le possibilità di informarsi. Possibile che non sappiano come nascono i bambini? Possibile che non si siano accorte che i profilattici sono in vendita ovunque, perfino nei distributori automatici notturni? Per quale ragione accettano rapporti non protetti? Si rendono conto della straordinaria ferita cui vanno incontro o forse pensano che, in fondo, l’aborto non sia che un mezzo anticoncezionale come un altro? Se hai fortuna, ti va tutto bene, se hai sfortuna, te ne sbarazzi, pazienza. Non sarà che una seccatura in più. Qualcuno ha spiegato loro che cos’è la vita, il rispetto per il loro corpo? Qualcuno ha mai detto loro che si può anche dire di no, che la felicità non passa necessariamente attraverso tutti i rapporti sessuali possibili? Chi conosce il mondo degli adolescenti di oggi sa che la promiscuità è una realtà piuttosto diffusa. Ci si piace, si passa la notte insieme, tra una settimana forse ci piacerà qualcun altro. I corpi sono interscambiabili, così come i piaceri. Come da bambine hanno accumulato sempre nuovi modelli di Barbie, così accumulano, spinte dal vuoto che le circonda, partner sempre diversi. Naturalmente non tutte le ragazze sono così, per fortuna, ma non si può negare che questo sia un fenomeno in costante crescita.

Sono più felici, mi chiedo, sono più libere le ragazze di adesso rispetto a quarant’anni fa? Non mi pare. Le grandi battaglie per la liberazione femminile sembrano purtroppo aver portato le donne ad essere soltanto oggetti in modo diverso. Non occorre essere sociologi né fini pensatori per accorgersi che ai giorni nostri tutti i messaggi rivolti alle bambine si concentrano esclusivamente sul loro corpo, sul modo di offrirsi agli altri. Si vedono bambine di cinque anni vestite come cocotte e già a otto anni le ragazzine vivono in uno stato di semi anoressia, terrorizzate di mangiare qualsiasi cosa in grado di attentare alla loro linea. Bisogna essere magre, coscienti che la cosa che abbiamo da offrire, quella che ci renderà felici o infelici, è solo il nostro corpo. Il fiorire della chirurgia plastica non è che una tristissima conferma di questa realtà. Pare che molte ragazze, per i loro diciotto anni, chiedano dei ritocchi estetici in regalo. Un seno un po’ più voluminoso, un naso meno prominente, labbra più sensuali, orecchie meno a vela. Il risultato di questa chirurgia di massa è già sotto ai nostri occhi: siamo circondate da Barbie perfette, tutte uguali, tutte felicemente soddisfatte di questa uguaglianza, tutte apparentemente disponibili ai desideri maschili. Sembra che nessuno abbia mai detto a queste adolescenti che la cosa più importante non è visibile agli occhi e che l’amore non nasce dalle misure del corpo ma da qualcosa di inesprimibile che appartiene soprattutto allo sguardo.

Siamo passati così dalla falsa immagine della donna come angelo del focolare, che si realizza soltanto nella maternità, alla mistica della promiscuità, che spinge le ragazze a credere che la seduzione e l’offerta del proprio corpo siano l’unica via per la realizzazione. Più fai sesso, più sei in gamba, più sei ammirata dal gruppo. Nella latitanza della famiglia, della chiesa, della scuola, la realtà educativa è dominata dai media e i media hanno una sola legge. Omologare. Ma questo lato apparentemente così comprensibile, così frivolo — voler essere carine o anche voler mitigare i segni del tempo — che cosa nasconde? Il corpo è l’espressione della nostra unicità ed è la storia delle generazioni che ci hanno preceduti. Quel naso così importante, quei denti storti vengono da un bisnonno, da una trisavola, persone che avevano un’origine, una storia e che, con la loro origine e la loro storia, hanno contribuito a costruire la nostra. Rendere anonimo il volto vuol dire cancellare l’idea che l’essere umano è una creatura che si esprime nel tempo e che il senso della vita è essere consapevoli di questo. La persona è l’unicità del volto. L’omologazione imposta dalla società consumista—e purtroppo sempre più volgarmente maschilista — ha cancellato il patto tra le generazioni, quel legame che da sempre ha permesso alla società umana di definirsi tale. Noi siamo la somma di tutti i nostri antenati ma siamo, al tempo stesso, qualcosa di straordinariamente nuovo e irripetibile. Cancellare il volto vuol dire cancellare la memoria, e cancellare la memoria, vuol dire cancellare la complessità dell’essere umano. Consumare i corpi, umiliare la forza creativa della vita per superficialità e inesperienza, vuol dire essere estranei dall’idea dell’esistenza come percorso, vuol dire vivere in un eterno presente, costantemente intrattenuti, in balia dei propri capricci e degli altrui desideri. Senza il senso del tempo non abbiamo né passato né futuro, l’unico orizzonte che si pone davanti ai nostri occhi è quello di una specchio in cui ci riflettiamo infinite volte, come nei labirinti dei luna park. Procediamo senza senso da una parte, dall’altra, vedendo sempre e soltanto noi stessi, più magri, più grassi, più alti, più bassi. All’inizio quel girare in tondo ci fa ridere, poi col tempo, nasce l’angoscia. Dove sarà l’uscita, a chi chiedere aiuto? Battiamo su uno specchio e nessuno ci risponde. Siamo in mille, ma siamo sole.

Susanna Tamaro


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