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22/11/13

(Dieci grandi anime) - 3. Clive Staples Lewis (5-fine)





(mi sono accorto soltanto ora che questo post - per un mero caso, visto che ieri ho 'saltato' un giorno, viene pubblicato, è stato pubblicato, proprio il giorno esatto della morte di C.S.Lewis, 22 novembre 1963, una 'casualità' che sarebbe molto piaciuta al diretto interessato). 


(Dieci grandi anime) - 3Clive Staples Lewis (5-fine)    


Il cristianesimo che interessa Lewis, il cristianesimo che Lewis non si stanca di ‘propagandare’ è quello che nella sua vita ha avuto un significato particolare: quello di mettere ordine e sistematizzare valori e principi.  La fede in Cristo è stata riconosciuta perché estrema sintesi di un duro percorso di sofferenza e di autoconoscenza, condiviso con gli altri esseri umani che vivono su questa terra.
La fede cristiana è quella vera perché in essa si riconosce pienamente la legge della natura umana, del Giusto e dell’Ingiusto, la legge morale che è inscritta nel cuore di ogni uomo.
     La sola busta che mi è consentito di aprire, scrive Lewis, è l’uomo. (12)
     
L’uomo è fatto di legge morale, che – sostiene Lewis – è dura come il ferro. Se Dio assomiglia alla legge morale, allora anche Dio “non è affatto tenero”.  Ma Dio non è il male, il male è un parassita, non un’entità originaria.  Per il cristianesimo, scrive ancora, come per il dualismo, il nostro universo è in guerra.  Ma per il cristianesimo non si tratta di un conflitto tra potenze indipendenti, bensì di una guerra civile, di una ribellione. E noi viviamo in una parte dell’universo occupata dal ribelle.  (13)
     
Vivere nella parte di universo occupata dal ribelle significa essere esposti al male, alla corruzione, al dolore, alla morte.   E Lewis lo sa bene, lo sperimenta.    Come un vero anacoreta deciso a resistere, però,  Lewis ha trovato anche la forma di riscatto più concreta nel lasciare briglie sciolte ai voli della sua fantasia di scrittore.   In fondo tutta la saga delle fortunatissime Cronache di  Narnia può essere letta, ed è letta ancora oggi, come una formidabile allegoria del senso e della trasformazione cristiana.
Senso e trasformazione che passano attraverso il sacrificio, e l’attraversamento delle inevitabili prove personali.

Nello straziante lutto seguente la morte dell’amata Joy, Lewis lo esprime con lucidità: non c’è un altro modo per sfiorare, avvicinare  la Sua conoscenza, se non fare i conti con la nostra umanità, su questa terra. 
     Queste note parlano di me, di H. (14)  e di Dio. In quest’ordine.  L’ordine e le proporzioni sono l’esatto contrario di quelli che avrebbero dovuto essere.  E vedo che in nessun punto mi è accaduto di rivolgermi all’uno o all’altra con quel modo del pensiero che chiamiamo lode.  Eppure, sarebbe stata per me la cosa migliore.  La lode è il modo dell’amore che ha sempre un elemento di gioia.  Lode nel giusto ordine: di Lui come donatore, di lei come dono.  Non godiamo forse un poco, nella lode, ciò che lodiamo, anche se ne siamo lontani?   Devo farlo più spesso.    Ho perduto la fruizione che un tempo avevo di H.  E sono lontano, lontanissimo, nella valle della mia dissomiglianza, dalla fruizione che potrò forse un giorno avere di Dio, se la Sua misericordia è infinita.     Ma con la lode posso ancora, in qualche misura, godere lei, e posso già, in qualche misura, godere Lui. (15)

E’ così che Lewis ha messo in pratica – nell’attraversamento delle profondità dell’esistenza, successo, caduta, estasi e perdita, gioia e dolore -  quella che lui stesso chiamava “un nuovo tipo di vita”, quella che – secondo le sue parole – è cominciata in Cristo, “nuovo tipo di uomo” e si è trasmessa a noi. 

(segue -5 - fine) 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

     
12.      Il Cristianesimo così com’è op.cit. pag. 49.
13.      Il Cristianesimo così com’è op. cit. pag. 72.
14.      H. sta qui per Helen, ovvero Helen Joy Davidman Greshman. E non è forse un caso che nelle pagine di Diario di un dolore la moglie sia sempre chiamata H. cioè Helen, e non più Joy.
15.       Diario di un dolore, op. cit.  pag. 70

19/11/13

(Dieci grandi anime) - 3. Clive Staples Lewis (3)





(Dieci grandi anime) - 3Clive Staples Lewis (3)    

In effetti anche la ricerca di Clive Lewis riguardo la fede sembra oscillare, umanamente tra gli opposti di una fede radicalmente – e razionalmente – vissuta come vera, e i dolori di una ‘assenza’ di Dio che viene avvertita nelle notti buie del dolore.
Quel vestibolo, descritto prima, può sembrare anche un luogo molto molto oscuro.
Anni fa -  scrive in Diario di un dolore - dopo la morte di un amico, la certezza che la sua vita continuava, che anzi continuava su un piano più alto, fu per qualche tempo una sensazione nettissima.   Ho supplicato che mi venga data anche solo la centesima parte di quella assicurazione per H. (è Joy, la moglie scomparsa ndA) . Non c’è risposta.  Solo la porta sbarrata, la cortina di ferro, il vuoto, lo zero assoluto.  “Chi chiede non ottiene.” Sono stato uno sciocco a chiedere. Perché ora, anche se quella assicurazione venisse, ne diffiderei. La crederei un’autoipnosi indotta dalle mie preghiere. (6)

Ma più avanti, nello stesso testo, nel vestibolo compare una parvenza di luce, e la porta non è più così sbarrata.
Quando pongo queste domande davanti a Dio, non ricevo nessuna risposta. Ma è un “nessuna risposta” di tipo speciale.  Non è la porta sprangata.  Assomiglia piuttosto a un lungo sguardo silenzioso, e tutt’altro che indifferente. Come se Lui scuotesse il capo non in segno di rifiuto, ma per accantonare la domanda.  Come a dire “ Zitto, bimbo; tu non capisci. “ (7)

Il problema è sempre nella risposta, come si vede. Nell’elaborazione dei pensieri  anche contraddittori – è facile per ognuno che abbia vissuto il lutto di una persona cara, riconoscersi – nel flusso di sentimenti contrastanti, c’è anche spazio per una sintesi di grandiosa efficacia.
Una risposta, fin troppo facile, è che Dio sembra assente nel momento del nostro maggior bisogno appunto perché non esiste. Ma allora perché sembra così presente quando noi, per dirla con franchezza, non Lo cerchiamo? (8)
Parole che parlano – a cuore aperto – della vita vissuta da Clive Staples Lewis.

Probabilmente, a quel che egli stesso racconta nella sua autobiografia, anche Lewis era giunto ad archiviare la ‘pratica Dio’ quando, dopo aver abbandonato la fede cristiana, inizia ad insegnare Lingua e Letteratura Inglese alla prestigiosa università di Oxford (dove eserciterà per ben ventinove anni) . L’impegno accademico lo assorbe completamente.  C’è meno tempo adesso, per pensare alle questioni ultime, e forse è un bene così.  Si dedica invece con dedizione allo studio dei miti, compone poemi in versi ispirati alle leggende arcaiche e alle tradizioni nordiche.


Ma ecco che la questione ritorna. E ritorna sotto forma di una amicizia. John Ronald Reuel Tolkien, il futuro autore de Il Signore degli anelli e di Silmarillion  ha sei anni più di Lewis.  Anche Tolkien ha perso prematuramente la madre, a soli dodici anni.  Anche la famiglia di Tolkien ha radici cristiane, anche se cattoliche. Anche Tolkien ha combattuto nella Grande Guerra, in prima linea sul fronte occidentale.  E come lui, condivide un profondo interesse per la mitologia e insegna ad Oxford.  Una specie di gemello, o di fratello maggiore, per Lewis. Ed è forse proprio questa somiglianza a suscitargli una certa diffidenza. Scrive ironicamente  in Surprised of joy:  Alla mia venuta in questo mondo mi avevano (tacitamente) avvertito di non fidarmi mai di un papista, e (apertamente) al mio arrivo nella facoltà di inglese di non fidarmi mai di un filologo. Tolkien era l'uno e l'altro.

(segue -3./) 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

       
6.     Diario di un dolore, op.cit. pag.14.
7.     Diario di un dolore, op.cit. pag.78.
8.     Diario di un dolore, op.cit. pag. 13.

18/11/13

(Dieci grandi anime) - 3. Clive Staples Lewis (2)





(Dieci grandi anime) - 3Clive Staples Lewis (2)    

Ma la prova più difficile è quella che deve affrontare nella piena maturità della sua vita, quando, dopo molta solitudine, l’incontro con Joy – la bella americana che ha conosciuto per lettera – sembra spalancargli le porte di una felicità insperata: non è così.  Pochi mesi dopo il matrimonio con rito civile, la donna comincia ad accusare sintomi di quella che viene diagnosticata, all’inizio, come una reumatite.  Ma esami più approfonditi rivelano l’esistenza di un tumore alle ossa, già piuttosto esteso. Quando viene celebrato il matrimonio religioso, nel marzo del 1957, sembra che la fine sia ormai vicina.  Invece, nell’estate seguente, Joy migliora sensibilmente. A tal punto che la coppia di sposi parte per un viaggio in Irlanda, poi, l’anno successivo  in Grecia.  Ma la malattia ben presto prende nuovamente il sopravvento.  Joy muore nel luglio del 1960.

Sarà proprio l’esperienza di questo spaventoso lutto a generare la nascita di quel capolavoro, Diario di un dolore, che Lewis scrive di getto nei mesi seguenti la morte di Joy, e che pubblica sotto pseudonimo.

Un grido, una protesta -  che non mette mai a soqquadro il cielo, ma chiede risposte, e resta inconsolabile -  percorre tutto il libro, che si legge oggi come un moderno lamento di Giobbe.
Parlatemi della verità e della religione, scrive Lewis,   e ascolterò con gioia.  Parlatemi del dovere della religione e ascolterò con umiltà. Ma non venite a parlarmi delle consolazioni della religione, o sospetterò che non capite. (3)

Perfino l’ultimo atto della vita terrestre dello scrittore si concluderà con una specie di beffa.  Lewis infatti si ammala ai reni e al cuore, e muore pochi soltanto tre anni dopo la sua compagna, proprio nello stesso giorno – 22 novembre 1963 – in cui il fucile di Lee Harvey Oswald uccide a Dallas John Fitzgerald Kennedy.   E’ chiaro che – scosso da questa grande tragedia – il mondo si dimentica di Lewis, e anche della sua morte.

Ma, a parziale riparazione di quel momentaneo oblio, c’è da dire che mai come oggi l’opera di Lewis è letta, riscoperta e amata in tutto il mondo. Eppure, si tratta di un’opera ben variegata, e di difficile interpretazione, dove è possibile trovare di tutto, dai testi di introspezione filosofica,  alle saghe allegoriche, ai romanzi di pura fantascienza, dalle opere puramente accademiche ai libri per ragazzi.

Se c’è un filo rosso che attraversa interamente questa opera, è però sicuramente quella ricerca, quasi quella ossessione, di un oltre, di una sostanza segreta dietro l’apparenza di tutte le cose,  cui abbiamo già detto, e che Lewis stesso definiva ‘gioia’.
Un cammino che lo scrittore ha definito - nei racconti autobiografici  - lungo, faticoso  e senza un arrivo stabilito una volta per tutte.
     
Quando prova a descrivere tempi e modi di questa ricerca, Lewis, fa ricorso ad immagini molto concrete, ed è anche questo che lo rende così popolare, così immediatamente comprensibile. In quello che è il suo saggio forse più famoso -  Il cristianesimo così com’è (4) - trascrizione di una serie di conversazioni radiofoniche , così scrive:
Il cristianesimo puro e semplice proposto qui, scrive Lewis, è simile a un vestibolo in cui si aprono porte che danno in varie stanze… Il vestibolo è un luogo dove stare in attesa, un luogo da cui tentare varie porte, non un luogo in cui vivere.   Alcuni, è vero, dovranno attendere nel vestibolo per un tempo considerevole, altri sanno con certezza fin quasi dal primo momento a quale porta bussare. Io non so perché ci sia questa differenza, ma sono sicuro che Dio non fa attendere nessuno se non vede che l’attesa gli giova.

     Quando entrerete nella vostra stanza scoprirete che la lunga attesa vi ha arrecato un beneficio che non avreste avuto altrimenti. Ma dovete considerarla un’attesa, non una sistemazione definitiva.    Dovete continuare a pregare per aver luce.  (5) 

(segue -2./) 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

      
3.     Diario di un dolore, op. cit. pag. 31.
4.   Mere Christianity (based on radio talks of 1941-1944), è edito in Italia da Adelphi con il titolo Il cristianesimo così com’è,  Milano, 1997, traduzione di Franco Salvatorelli.
5.     Il cristianesimo così com’è, op.cit. pag. 21. 

17/11/13

Dieci grandi anime - 3. C.S.Lewis (1)



     
 (Dieci grandi anime) - 3Clive Staples Lewis (1)    


     3Clive Staples Lewis


Credo sia difficile trovare una vita più esemplare di quella di Clive Staples Lewis, come appare dal resoconto che egli stesso ne ha fatto e dal racconto dei molti biografi - tutta giocata sulla drammatica dicotomia gioia-dolore.  In effetti la vicenda umana del grande scrittore irlandese si può riassumere semplicemente in questi due estremi e in un confine poco ampio  tra queste due parole. 

Sorpreso dalla gioia si chiama l’autobiografia scritta e pubblicata da Lewis nel 1955. (1)  Il titolo non è casuale. Da molti anni, prima di quella data, lo scrittore ha usato quella parola – joy – per descrivere il fine della ricerca con l’assoluto, con Dio.   Joy è quel sentimento indescrivibile  indistinto intorno a cui tutta l’opera di Lewis sembra ruotare, che comincia ad affascinare lo scrittore quando egli è poco più di un ragazzo. All’inizio è semplicemente il piacere fisico che deriva dalla lettura delle grandi saghe, dei miti del nord,  delle opere di John Donne e di Milton.  Poi si trasforma in un misto di amore per la natura, fascino per il mistero e l’insondabile, propensione a conoscere e svelare gli arcani che si celano dietro un destino, respiro di un disegno divino dietro l’apparenza delle cose.   Questa gioia prenderà, durante la vita di Lewis strade diverse e apparentemente contraddittorie: a soli 15 anni abbandona la fede cristiana con motivazioni molto dettagliate, espresse proprio nella autobiografia.  E’ un distacco dalle stesse radici famigliari:  il padre, Albert James Lewis era un avvocato con ascendenze gallesi, cattolico; la madre, Flora Augusta Hamilton veniva da una famiglia molto religiosa, suo padre era un pastore protestante. Sembrerebbe un distacco definitivo.

Ma nel 1931 Lewis fa ritorno al cristianesimo con una profonda conversione (nelle pagine autobiografiche di quel periodo c’è la descrizione ancora più circostanziata di quello spirito di gioia) e l’adesione alla chiesa anglicana, alla vigilia della esplosione di un successo letterario enorme, che farà di lui uno degli autori più popolari di lingua inglese nel periodo a cavallo della seconda guerra mondiale.

Quella parola – joy – ha però in serbo altre sorprese per lui: si presenta infatti, molti anni più tardi, quando ormai è uno scrittore celebre, sotto forma di un nome proprio, di una persona che sconvolgerà la vita di Lewis.  Un incontro fatale maturato dapprima attraverso una corrispondenza: comincia a scrivergli, alla fine del 1950, una donna americana, poetessa dilettante, che si dichiara appassionata lettrice delle sue opere. Si chiama Helen Joy Davidman-Greshman, ha trentasette anni, un marito con il quale non va più d’accordo, e due figli.  Si è convertita da poco al cristianesimo grazie anche alla profonda impressione che le ha suscitato la lettura dei libri di Lewis. Forse anche nella speranza di incontrare e conoscere lo scrittore, si trasferisce nel 1953 In Inghilterra, a Londra, insieme ai figli, dopo aver concordato un periodo di separazione dal marito, che si concluderà con la concessione del divorzio, nello stesso anno.    Joy e Lewis cominciano a scriversi lettere dapprima formali, e che riguardano soprattutto i romanzi dello scrittore. Poi, entrano sempre più in confidenza, decidono di incontrarsi. Scoppia, imprevedibilmente  (Clive ha all’epoca cinquantacinque anni) l’amore.  I due si sposano dapprima civilmente – per permettere alla donna il rinnovo del permesso di soggiorno che le è stato negato dalle autorità inglesi - nel 1956, e l’anno seguente anche con rito religioso.

Clive Lewis scriverà nella sua autobiografia che questa singolare circostanza di chiamarsi Joy – proprio come la qualità spirituale che aveva cercato per tutta la vita -   avrà un peso particolare,  nel racconto di questa storia.

Una favola ?  
Non proprio, perché – come dicevamo all’inizio – la vita di Clive Staples Lewis è un continuo ondeggiare tra gioia e dolore.  Il dolore, anzi, sembra seguire quest’uomo, questo scrittore affermato, come un’ombra fedele durante tutta la sua vita.   Al dolore – anzi – finirà per dedicare un testo capitale (2).


Il dolore gli si presenta subito, il 23 agosto del 1908 – il piccolo Clive ha dieci anni -  quando muore la madre. E’ una perdita disperante, per un bambino dalla straripante immaginazione. E’ stata proprio l’adorata madre, Flora, ad iniziarlo all’amore per i romanzi e la letteratura. Il resto l’ha fatto il trasloco, al seguito del padre, nella nuova casa, un nuovo elegante ed enorme cottage immerso nella campagna – chiamato nel libro di memorie, Little Lea -  e la lettura dei libri di Beatrix Potter (l’inventrice di Peter Coniglio), di Mark Twain e di Edith Nesbit. La morte della madre cambia completamente il quadro di una infanzia felice e fantasiosa. Clive, insieme al fratello Warner (Warnie) più grande di tre anni, finisce al seguito di diversi tutori, scelti dal padre per proseguire lo studio delle lingue classiche, poi nel campo di concentramento -   così le definisce Lewis nella sua autobiografia – di severe scuole inglesi, infine al fronte, in guerra, dove gli capita anche, nel 1918,  di veder morire il suo migliore amico, Paddy Moore, e di essere a propria volta ferito, prima di essere ricoverato a lungo in ospedale e ammalarsi di depressione.

(segue -1./) 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 


1.      Surprised by Joy: The Shape of my Early Life è edito in Italia da Jaca Book, Milano, 1981, con il titolo Sorpreso dalla Gioia.

2.     A Grief Observed, pubblicato da Clive Staples Lewis con lo pseudonimo di N.W.Clerk nel 1961, è edito in Italia da Adelphi con il titolo Diario di un dolore, Milano 1990, traduzione di Anna Ravano.