(mi sono accorto soltanto ora che questo post - per un mero caso, visto che ieri ho 'saltato' un giorno, viene pubblicato, è stato pubblicato, proprio il giorno esatto della morte di C.S.Lewis, 22 novembre 1963, una 'casualità' che sarebbe molto piaciuta al diretto interessato).
Il
cristianesimo che interessa Lewis, il cristianesimo che Lewis non si stanca di
‘propagandare’ è quello che nella sua vita ha avuto un significato particolare:
quello di mettere ordine e sistematizzare valori e principi. La fede in Cristo è stata riconosciuta perché
estrema sintesi di un duro percorso di sofferenza e di autoconoscenza,
condiviso con gli altri esseri umani che vivono su questa terra.
La fede cristiana è quella vera perché in
essa si riconosce pienamente la legge della natura umana, del Giusto e
dell’Ingiusto, la legge morale che è inscritta nel cuore di ogni uomo.
La
sola busta che mi è consentito di aprire, scrive Lewis, è l’uomo. (12)
L’uomo è fatto di legge morale, che –
sostiene Lewis – è dura come il ferro. Se Dio assomiglia alla legge morale,
allora anche Dio “non è affatto tenero”.
Ma Dio non è il male, il male è un parassita, non un’entità
originaria. Per il cristianesimo, scrive ancora, come per il dualismo, il nostro universo è in guerra. Ma per il cristianesimo non si tratta di un
conflitto tra potenze indipendenti, bensì di una guerra civile, di una
ribellione. E noi viviamo in una parte dell’universo occupata dal ribelle. (13)
Vivere nella parte di universo occupata
dal ribelle significa essere esposti al male, alla corruzione, al dolore, alla
morte. E Lewis lo sa bene, lo
sperimenta. Come un vero anacoreta
deciso a resistere, però, Lewis ha
trovato anche la forma di riscatto più concreta nel lasciare briglie sciolte ai
voli della sua fantasia di scrittore.
In fondo tutta la saga delle fortunatissime Cronache di Narnia può
essere letta, ed è letta ancora oggi, come una formidabile allegoria del senso
e della trasformazione cristiana.
Senso e trasformazione che passano
attraverso il sacrificio, e l’attraversamento delle inevitabili prove
personali.
Nello straziante lutto seguente la morte
dell’amata Joy, Lewis lo esprime con lucidità: non c’è un altro modo per sfiorare,
avvicinare la Sua conoscenza, se non fare i
conti con la nostra umanità, su questa terra.
Queste
note parlano di me, di H. (14) e di Dio. In quest’ordine. L’ordine e le proporzioni sono l’esatto
contrario di quelli che avrebbero dovuto essere. E vedo che in nessun punto mi è accaduto di
rivolgermi all’uno o all’altra con quel modo del pensiero che chiamiamo
lode. Eppure, sarebbe stata per me la
cosa migliore. La lode è il modo
dell’amore che ha sempre un elemento di gioia.
Lode nel giusto ordine: di Lui come donatore, di lei come dono. Non godiamo forse un poco, nella lode, ciò
che lodiamo, anche se ne siamo lontani?
Devo farlo più spesso. Ho
perduto la fruizione che un tempo avevo di H.
E sono lontano, lontanissimo, nella valle della mia dissomiglianza,
dalla fruizione che potrò forse un giorno avere di Dio, se la Sua misericordia è infinita. Ma con la lode posso ancora, in qualche
misura, godere lei, e posso già, in qualche misura, godere Lui. (15)
E’ così che Lewis ha messo in pratica –
nell’attraversamento delle profondità dell’esistenza, successo, caduta, estasi
e perdita, gioia e dolore - quella che
lui stesso chiamava “un nuovo tipo di vita”, quella che – secondo le sue parole
– è cominciata in Cristo, “nuovo tipo di uomo” e si è trasmessa a noi.
(segue -5 - fine)
Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata.
12. Il Cristianesimo così com’è op.cit. pag. 49.
13. Il Cristianesimo così com’è op. cit. pag. 72.
14.
H. sta qui per Helen, ovvero Helen Joy Davidman
Greshman. E non è forse un caso che nelle pagine di Diario di un dolore la moglie sia sempre chiamata H. cioè Helen, e
non più Joy.
15.
Diario
di un dolore, op. cit. pag. 70