30/11/21

Quante fotografie furono scattate sulla Luna durante la missione Apollo 11? E chi le scattò?

Neil Armstrong durante una simulazione con la EVA 

Nel 1969 a Göteborg, in Svezia, la società di Victor Hasselblad, la Hasselblad Aktiebolag, attendeva con preoccupazione un telegramma dagli Stati Uniti sullo sviluppo di 132 immagini in bianco e nero scattate da una macchina fotografica Hasselblad. Erano le prime immagini chiare e limpide della Luna, che Neil Armstrong e Buzz Aldrin avevano scattato una manciata di giorni prima. La Hasselblad, la macchina appositamente costruita per fotografare la spedizione lunare, invece era rimasta là, a 384.400 chilometri di distanza dalla Terra.

Le prime foto della Luna scattate sulla Luna erano state trasmesse dal lander sovietico Luna 9 nel 1966, ma erano sgranate e poco chiare. La NASA stava invece lavorando per avere immagini sempre più definite e nel 1962 aveva iniziato una collaborazione con Hasselblad, un’azienda svedese fondata dall’ingegnere Victor Hasselblad che negli anni Cinquanta e Sessanta fabbricava le macchine di medio formato più utilizzate dai fotografi professionisti: le Hasselblad stavano in una mano, avevano componenti intercambiabili ed erano costruite con lenti Zeiss, considerate eccellenti.

Fotografare la Luna sulla Luna sarebbe stato però un po’ più complicato. L’ottima risoluzione delle immagini che la Hasselblad era capace di scattare e la praticità con cui permetteva di cambiare rullino la rendevano pratica e funzionale, ma alla NASA serviva un corpo macchina capace di resistere a temperature molto rigide, perfettamente funzionante nonostante il vuoto e comodo da usare per un uomo coperto da capo a piedi da una tuta pesante 100 chilogrammi. Così i tecnici di Houston e gli ingegneri svedesi cominciarono a modificare minuziosamente ogni piccolo dettaglio.

Quando il 20 luglio 1969 il modulo Eagle toccò la superficie della Luna, Neil Armstrong e Buzz Aldrin impiegarono circa due ore e mezza per compiere la cosiddetta passeggiata lunare (Extra Vehicular Activities, EVA). Il programma delle operazioni di documentazione, rilevazione e raccolta degli oggetti considerati di interesse era stato dettagliatamente pianificato e gli scienziati di Houston avevano previsto che la documentazione fotografica dell’orbita e del suolo lunare avrebbe richiesto una strumentazione complessa. 

Per questo l’Apollo 11 era stato equipaggiato con trentatré rullini e sette macchine fotografiche differenti. C’erano anche la Kodak Close-up Stereoscopic Camera, commissionata solo sette mesi prima della missione, e ben quattro Hasselblad. 

Solo la Data Camera però era stata progettata per essere perfettamente funzionante anche fuori dalla Eagle: fu equipaggiata con un portapellicola con rullino a colori, si accendeva semplicemente premendo il grilletto montato sull’impugnatura ed era allacciata alla tuta di Neil Armstrong.

La praticità dei corpi macchina rese molto facile per gli astronauti cambiare i portapellicole e montarli di volta in volta su modelli diversi: per questo motivo – come ha ricostruito Eric M. Jones, fondatore dell’Apollo Lunar Surface Journal, un archivio online della NASA che raccoglie la documentazione delle operazioni lunari dal 1969 al 1972 – non è possibile ricostruire con precisione il corretto ordine di scatto delle fotografie. 

I rullini usati per fotografare la Luna sulla Luna sono stati tre (due a colori e uno in bianco e nero), mentre quelli caricati sulle Hasselblad sono stati in tutto nove e hanno scattato 1.407 fotogrammi. 

Tutte le macchine fotografiche usate durante la missione Apollo 11 sono rimaste sulla Luna, per liberare spazio sulla capsula lunare e portare sulla Terra ventidue chili di rocce lunari che gli scienziati della NASA avrebbero poi analizzato

I nove rullini usati, invece, arrivarono al centro di controllo di Houston a mezzogiorno del 25 luglio 1969. Restarono nel laboratorio per la decontamina​zione per 47 ore. Una volta sviluppate e duplicate, le fotografie scattate dalla missione Apollo 11 furono presentate alla stampa il 12 agosto 1969.

Ciò che è poco noto, è che la quasi totalità delle foto della missione Apollo 11 che ritraggano un astronauta hanno Buzz Aldrin come soggetto, poiché normalmente era Armstrong a usare la macchina fotografica. 

Neil Armstrong, il primo astronauta che ha messo piede sul suolo lunare, è ritratto in due foto di scarsa qualità e in un'altra, famosissima e assai suggestiva, in cui egli appare riflesso sulla visiera della tuta spaziale di Aldrin, che pubblico qui di seguito.

Fonte: Il Post - Wikipedia




29/11/21

La lettera di Saskia a suo padre Tiziano Terzani

 



Rileggendo i meravigliosi diari di Tiziano Terzani, che descrivono la sua vita avventurosa e incredibile, e i suoi moltissimi tormenti interiori, si scopre come il grande giornalista, sempre in giro per il mondo, accenni spesso alle lettere (spedite prima per fax, poi per email) della figlia Saskia. Terzani dalla moglie Angela Staude, ebbe due figli, Fosco e Saskia. Nelle pagine dei diari, Terzani racconta quanto gli facesse piacere ricevere quei messaggi, a volte risponde, a volte commenta le notizie ricevute. I testi, però, non sono riportati. 
In una intervista di qualche anno fa a Vanity Fair, Saskia ha ritrovato un fax, che inviò al padre da Hong Kong, in occasione della morte della nonna Lina, la madre di Tiziano. È datato 24 novembre 1996, all’epoca lei aveva 25 anni.
La Elvie di cui si parla nella lettera è l’amatissima filippina, che ha vissuto con la famiglia dal 1983 fino alla pensione, nel 2005.
E' assai interessante leggere questa lettera che descrive un frammento intimo della vita di Terzani, della piccola grande epopea della sua famiglia, profondamente radicata nella vita del borgo di Orsigna, in Toscana, nel quale Terzani si ritirò nell'ultimo periodo della sua esistenza, lasciando testimonianza nei suoi ultimi bellissimi libri.

Carissimo babbo, carissima mamma,
la Elvie mi ha appena telefonato per dirmi che la nonna si è spenta. Le emozioni di questo momento sono tante, forti, indescrivibili, quanto indecifrabili.
Un passaggio come il suo non lascia perplessità o sgomento profondo. La Nonna nella sua estrema fragilità fisica e apparente lontananza mentale, ha gestito la sua uscita di scena con la massima dignità e calibrazione. Non c’è stata una sbavatura.
Seduta eretta nel suo salotto a Firenze dove ha vissuto con l’uomo che ha amato, dove ha fatto nascere suo figlio, dove è diventata donna, e poi madre, nonna e saggia, si è presa il tempo che ha voluto e poi, nel momento giusto, lo ha lasciato andare.
Non ha mai manifestato né la sofferenza né la paura – conosceva i limiti di sopportazione del suo carattere – e così si è lasciata appassire per attutire il travaglio dell’ultima ora.

Con questo finale sereno ed elegante non solo dà un senso al lungo periodo di lento distanziamento, ma chiude in bellezza. Non più penseremo al suo indebolirsi come un segno della sua graduale perdita di controllo. Ci lascia invece un ricordo di una vita completa, non sfilaccicata in fondo.
La presenza della Elvie al suo fianco è stata fondamentale. Era la sua custode – dotata di tanta pazienza e soprattutto di un fiuto per i ritmi della vita che diventano i ritmi della morte.
Ha seguito la nonna passo passo, «sentendo» con lei le voci dei suoi parenti defunti lontani che la chiamavano, accudendo a ogni suo bisogno.

Non c’è miglior ultimo regalo che uno possa fare a un’altra persona. La nonna si è sicuramente sentita accompagnata lungo questo misteriosa e magica strada che è di tutti ma che nessuno conosce.
Per tutte queste ragioni la notizia di stasera mi ha trasmesso uno strano senso di tranquillità. Non sembra per niente la parola adatta, e comunque nessuna parola può comunicare la sensazione che mi sento aleggiare intorno e dentro.
Sento la pace ma anche un vuoto. È come essere in una grande stanza spoglia e sentire una porta che finora era socchiusa, chiudersi. Lascia l’eco, ma anche quella si affievolisce, e poi non sai più se la senti ancora o se è rimasta semplicemente sospesa nella tua mente.

La nonna se n’è andata e con lei sembrano di un tratto allontanarsi anche tutti i miei ricordi d’infanzia, delle estati che passavamo, felici, con lei e il nonno. Sembra allontanarsi tutta la mia infanzia italiana, quella che sognavamo dai Paesi lontani, e che era composta di poche cose – l’Orsigna, le passeggiate con lo zaino in paese, le polpettine, i letti a castello – e a ognuna di queste si ricollegavano il nonno e la nonna. Lei era rimasta come il recipiente tangibile di questi ricordi. Ne era stata la garante e così la sua presenza ce li manteneva vivi, anche attraverso le diverse età, e anche attraverso l’aggiungersi di nuovi ricordi. L’Orsigna sarà diversa senza la nonnina.

Però non c’è verso di dimenticarla. Me la ricorderò nell’immagine con la quale ha voluto lasciarci: A capotavola, con la sua pelle sempre morbida, i suoi bei capelli bianchi e vaporosi, e quell’espressione che di tanto in tanto s’illuminava di un sorriso e di una scherzosa strizzata d’occhio. Addio Nonna.



Una foto giovanile di Tiziano Terzani, in barca in Asia con i figli piccoli, Folco e Saskia


26/11/21

Ma davvero Mozart rideva in quel modo assurdo? La verità storica e le invenzioni di Forman per "Amadeus", il suo capolavoro immortale


E' un film senza tempo, che non si smette di guardare e riguardare e ammirare. 

Ma il capolavoro di Milos Forman, Amadeus, biografia cinematografica del grande Mozart, è fedele alla realtà storica? Soprattutto alla descrizione del 'vero' Mozart?

Una domanda che si fanno gli spettatori è sempre: "ma davvero Mozart rideva in quel modo equino, un po' ebete, come si vede nel film, nella grandiosa interpretazione di Tom Hulce? "

Beh, a riguardo bisogna dire che l'idea di una risata così speciale nacque dalle vere lettere dell'epoca, scritte a riguardo. 

In una la risata dell'artista è descritta come una sorta di “vertigine contagiosa”, in un'altra come “vetro graffiante di metallo”

Non molto lontano dunque da come l'ha descritta Forman. 

La cosa da premettere, però, è che questo film non va considerato come una biografia, ma come una finzione che si ispira liberamente alla storia di Mozart, il che spiega le poche differenze rispetto ai fatti. 

D'altra parte è vero che la recitazione dell'attore corrisponde ad alcuni tratti reali di Mozart: era basso (circa 1,62 m), "rimase un bambino" secondo la sorella, allegro e costantemente scherzante, piuttosto severo nei giudizi. , piccolo cortigiano e piccolo diplomatico secondo Grimm, accanito giocatore di biliardo, carte (tra cui il famoso gioco del faraone, gioco a soldi vicino al black-jack) e festaiolo.

Ciò premesso, non mancano le molte differenze con la realtà storica, che sono state trovate nel film. 

Ne citiamo qualcuna:

- Per tutto il film ci viene mostrato un Salieri (Murray Abraham) chiaramente più vecchio di almeno quindici anni rispetto a Mozart (i due attori hanno 14 anni di differenza), ma in realtà Salieri aveva solo 6 anni in più. 

- Nel film, Wolfgang e Constanze sembrano aver avuto un solo figlio quando in realtà hanno avuto sei figli su nove anni di matrimonio, l'ultimo dei quali nato a luglio 1791. Solo due ragazzi sono sopravvissuti alla loro infanzia. 

- Mozart e la sua famiglia sembrano vivere nello stesso appartamento per tutto il film, mentre Mozart si è trasferito più volte a Vienna (12 volte in dieci anni)

Nel film Mozart avrebbe perso la stima dell'imperatore Giuseppe II e della corte dopo il fallimento della sua opera Les Noces de Figaro durante la quale il sovrano sbadigliò. In realtà Giuseppe II fu molto soddisfatto dei servizi del compositore fino alla sua morte nel 1790. Alla morte di Gluck nel 1787, l'imperatore diede addirittura a Mozart l'incarico di Musicista della Camera Imperiale. E anche il suo successore, Leopoldo II , apprezzò Mozart poiché non solo lo consolidò in questo incarico ma, alla sua incoronazione, furono eseguite molte delle sue messe e concerti per pianoforte (diretti da Salieri del resto).

 - Nel film è Salieri che viene mostrato mentre commissiona il Requiem a Mozart. Sappiamo però che si tratta di un servitore inviato dal conte Franz de Walsegg

- La frase di Salieri alla fine del film "sei il più grande compositore che abbia mai conosciuto" ( "del nostro tempo" nella versione director's cut ) è stata infatti pronunciata. Tuttavia, non fu detto da Salieri a Wolfgang nel 1791, ma da Joseph Haydn a Leopold Mozart nel 1785. La vera frase è "Devo dirtelo davanti a Dio, e come un uomo onesto, tuo figlio è il più grande compositore che io conosca, di persona e nominativamente” . 

- Alla fine del film, Mozart muore nelle prime ore del mattino poco dopo il ritorno della moglie e del figlio. Morì infatti intorno alle cinque, cinque del mattino, secondo la diagnosi del medico, e circondato dalla moglie, dalla sorella di quest'ultimo e dai suoi due studenti, tutti al suo capezzale per diversi giorni

- Salieri non era presente al momento della morte di Mozart e non lo aiutò mai a scrivere la sua messa funebre; d'altronde fu molto presente al suo funerale, prova della sua ammirazione e stima per il giovane collega, di soli sei anni più giovane. 

- Durante il suo funerale: nel film, i becchini trascinano il corpo di Mozart fuori dalla sua bara nella fossa comune. Ma nella verità, l'intera bara è stata posta in questa stessa fossa. Inoltre, piove al funerale nel film mentre nella realtà nevicava.  

Durante lo stesso funerale, vediamo nel film persone che in realtà non c'erano: in particolare Constanze e sua madre non c'erano, e nemmeno la cameriera. Costanza quindi non presenziò alla cerimonia, essendo malata e completamente allo stremo... 

In conclusione, Mozart non è mai stato un concorrente molto serio per Salieri (tranne, forse, nel campo dell'opera italiana). In ogni caso, mai il successo di Mozart, importantissimo a Vienna dal 1783 al 1787, poté in alcun modo ostacolare Salieri nella sua carriera

Ciò che è vero, e che probabilmente ha creato la fantasia e la leggenda, è che Salieri si accusò, nella sua grande vecchiaia (morì nel 1825 all'età di 75 anni), di essere "responsabile" della morte di Mozart

Gli specialisti pensano che sia piuttosto un rammarico non aver accolto e riconosciuto abbastanza rapidamente il genio di Mozart (come molti altri a Vienna) e aver indirettamente precipitato la morte di Mozart non facendo di tutto perché avesse successo e conforto, degno del suo sovrumano talento.

Oltretutto, La morte di Mozart aveva sconvolto terribilmente il mondo musicale viennese. Quando il giovane Beethoven , 22 anni, arrivato a Vienna solo sei mesi dopo, fu accolto come un secondo Mozart e approfittò di tutte le agevolazioni che questi notabili avevano rifiutato a Mozart. 

La prova di questo capovolgimento di opinione è che proprio il famoso grande protettore di Beethoven, il principe Lichnowsky , nel 1791, aveva intentato e vinto una causa contro Mozart per debiti insoluti. 

25/11/21

Quando arrivarono con esattezza i primi cristiani a Roma?



Quando arrivarono a Roma i primi cristiani? Quanto tempo dopo la morte di Cristo a Gerusalemme? Per rispondere a queste domande, ci affidiamo a Timothy Verdon, storico dell'arte formatosi alla Yale University:

Come si sa, il cristianesimo è nato praticamente assieme all'antico impero romano

L'evangelista Luca, introducendo il racconto della nascita di Gesù, specifica infatti che "in quei giorni un decreto di Cesare Augusto - cioè del primo imperatore romano - ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra" (Luca, 2, 1); era per registrarsi in obbedienza a questo decreto che il falegname giudeo Giuseppe, con la moglie incinta, Maria, si recò nella sua cittadina d'origine, Betlemme, dove il bambino venne alla luce. 

Al primo degli imperatori, Augusto, morto nel 14, succede Tiberio, sotto la cui autorità Gesù è processato e condannato a essere crocifisso; i seguaci di Gesù, con Pietro per portavoce, incominciano ad annunciare pubblicamente la sua risurrezione meno di due mesi dopo (Atti, 2, 42). 

Alla morte di Tiberio nel 37, il trono passa a Gaio Caligola; nel medesimo anno si forma una comunità di credenti in Cristo ad Antiochia, la più importante città delle province orientali dell'impero, e "ad Antiochia per la prima volta i discepoli (di Gesù) erano chiamati cristiani" (Atti, 11, 26). 

La Chiesa, nata in Oriente e a tutti gli effetti ignorata dai primi tre imperatori, conosce la persecuzione sotto il quarto, Claudio, venuto al potere nel 41

Nel 49 Claudio espelle da Roma "i giudei che si agitano per istigazione di un certo Cresto (Cristo)", come racconta confusamente lo storico romano Svetonio: Judaeos impulsore aracol assidue tumultuantes Roma expulit (Vita di Claudio, 25); uno di questi profughi diventerà amico di san Paolo a Corinto: un certo Aquila, "arrivato poco prima dall'Italia con la moglie Priscilla, in seguito all'ordine di Claudio che allontanava da Roma tutti i giudei" (Atti, 18, 2).

Il quinto imperatore, Nerone, succeduto a Claudio nel 54, intensifica la persecuzione, infliggendo punizioni crudeli sui cristiani, considerati "una setta che professava una nuova e sovversiva fede religiosa", come dice sempre Svetonio (Vita di Nerone, 16). 

Sarà Nerone a mettere a morte sia san Paolo sia san Pietro intorno all'anno 64: Paolo sulla via che portava da Roma a Ostia, Pietro nel circo costruito da Caligola e fatto ingrandire dallo stesso Nerone.

Non sappiamo quando la nuova fede sia approdata nella capitale, ma deve essere stata assai presto se già nel 49 il numero dei credenti fu tale da attirare l'attenzione dell'imperatore

Dalla frase di Svetonio, si capisce che i "tumulti" che preoccupavano Claudio erano interni alla comunità giudaica, primo alveo dei credenti in Cristo, e che facevano parte del sofferto processo di differenziazione di coloro che accettavano Gesù come "il Cristo", il Messia e redentore atteso dagli Ebrei, dagli altri che si rifiutarono di credere in lui. 

Dire "comunità giudaica" non implica tuttavia un gruppo chiuso: Aquila era oriundo di Ponto, sul Mar Nero (Atti, 18, 2), e san Paolo proveniva da Tarso sulla costa meridionale dell'odierna Turchia. 

Ciò fa pensare che, nel crogiuolo di etnie e razze che era Roma, la primitiva comunità cristiana doveva apparire quasi un microcosmo dell'impero che la perseguitava; del resto, san Paolo era fiero di essere nato cittadino romano (Atti, 22, 27-29), e fu proprio l'impero, con la sua superba rete viaria ed efficiente sistema postale, a rendere possibili i continui spostamenti e le epistole di Paolo e di altri missionari della nuova fede

 Nonostante l'espulsione decretata da Claudio, la comunità cristiana romana si è presto ricostituita, tanto che quando Paolo scrive loro la sua lettera, intorno al 57, può salutare - tra molti amici e conoscenti - anche Aquila e Priscilla (Prisca), apparentemente tornati nella patria adottiva (cfr. Romani, 16, 3). 

E quando, poco dopo, l'apostolo con due compagni sbarca in Italia alla volta di Roma, "i fratelli di là, avendo avuto notizie di noi, ci vennero incontro fino al Foro di Appio e alle Tre Taverne" (Atti, 28, 15).

E Pietro? Un testo antico colloca il suo arrivo nella capitale nel 30, praticamente subito dopo la Pentecoste, ma ciò è improbabile. Lo storico Eusebio, scrivendo nel IV secolo, lo fa arrivare nel 42; in tal caso sarebbe stato uno degli "espulsi" sotto Claudio nel 49.

Un altro scrittore cristiano del IV secolo, Lattanzio, è forse più vicino alla verità, affermando che Pietro arrivò a Roma solo nel regno di Nerone, e quindi dopo, dal 54 in poi. 

In ogni caso, è quasi certo che Pietro come Paolo, al momento del suo arrivo nella capitale, abbia trovato una comunità credente già funzionante, forse numerosa, con le caratteristiche cosmopolite sopra accennate ma con anche una sua identità culturale specifica, che possiamo definire in termini di romanitas. 

Roma allora era diversa da quanto sarebbe diventata dopo l'incendio del 64. 

La maggior parte dei monumenti che oggi associamo con l'antica capitale non erano ancora realizzati: il Colosseo, ad esempio, sarebbe stato costruito solo sotto Vespasiano nel tardo I secolo mentre il Pantheon (nella forma attuale) sotto Adriano nel II secolo. 

Ma c'erano altre strutture, sufficientemente magnifiche per stupire visitatori provenienti anche da grandi centri provinciali, quale Antiochia: san Pietro, ad esempio, che giunse a Roma da quella città, dove era stato per più anni a capo della comunità cristiana. 

Oltre agli innumerevoli templi del culto ufficiale, alle basiliche civili, ai portici e all'antico foro con l'aula del Senato, Roma alla metà del I secolo abbondava di teatri e circhi. Il gusto dello spettacolo risaliva all'era della Repubblica, e il più grande dei circhi, denominato appunto circus maximus, funzionava già nel IV secolo prima dell'era cristiana

Numerose nuove strutture di intrattenimento pubblico vennero realizzate tra la fine della Repubblica e il regno del primo imperatore, Ottaviano Augusto, nella vasta pianura a nord dell'area urbana antica: il cosiddetto campus martius o "campo di Marte", che nell'epoca repubblicana era servito per le esercitazioni militari e di cavalleria. 

Questi teatri, assieme ad altri nuovi monumenti nel Campo di Marte - l'Altare della Pace, l'Orologio solare e il Mausoleo di Augusto - costituivano praticamente un nuovo quartiere monumentale, luccicante di marmo e adorno di statue. 

I teatri romani erano enormi. Il più antico, il Teatro di Pompeo - vicino all'attuale Campo dei Fiori - inaugurato nel 55 prima dell'era cristiana, aveva una cavea di circa 150 metri di diametro e una scena di 90. 

Il Teatro di Balbo (resti in Via Paganica), inaugurato nel 13 prima dell'era cristiana, aveva un diametro di 90 metri; il Teatro di Marcello, a nord del Colle Capitolino, inaugurato nel 13 o forse 11 prima dell'era cristiana, era alto 33 metri, con un diametro della cavea di 130 metri e una capienza di quindicimila spettatori. 

Più grandi ancora erano le strutture adibite alle corse di cavalli e di bighe: il Circus Flaminius, demolito sotto Augusto, misurava 400 metri per 260, e il Circo Massimo raggiungeva l'incredibile lunghezza di 600 metri, con una larghezza di 200! Fonti del IV secolo parlano di una capienza di 385.000 posti nel circo Massimo, e anche se riteniamo esagerata questa cifra, una stima sobria arriva comunque a un quarto di milione di persone

In confronto, il Circo di Caligola e Nerone sull'altra riva del Tevere, dove ci sono ora la Piazza e Basilica di San Pietro, era poca cosa: appena 323 metri per 74

Queste colossali strutture, che con incontrovertibile autorevolezza annunciavano il potere dell'impero e la sua capacità di convogliare folle oceaniche verso un determinato punto di coagulo, fanno parte dell'esperienza della primitiva Chiesa di Roma. 

Anche se i convertiti alla nuova fede non dovevano essere assidui frequentatori del teatro e del circo, non potevano certo ignorare il fascino che simili luoghi esercitavano sui loro contemporanei. Ciò significa che non solo l'idea di magnifici spazi di vita collettiva, ma anche quella dello spettacolo - di raduni per vedere insieme eventi che univano la moltitudine mediante l'emozione condivisa da migliaia e addirittura centinaia di migliaia di persone - faceva parte del bagaglio culturale e umano della primitiva Chiesa romana. 

(Fonte:  Timothy Verdon,  Il cristianesimo a Roma nel I secolo, da Augusto a Nerone, ©L'Osservatore Romano - 21-22 settembre 2009)

24/11/21

30 anni dalla morte di Freddie Mercury. Ma qual era il segreto della sua incredibile voce?



Nel giorno della ricorrenza della morte di Freddie Mercury, esattamente 30 anni fa (24 novembre 1991), all'età di 45 anni, si avverte il vuoto lasciato da questo grande artista dalla voce inconfondibile, che ancora oggi suscita grande curiosità. 

Come si sa, Mercury nacque con il nome di Farrokh Bulsara a Stone Town nel protettorato britannico di Zanzibar (ora parte della Tanzania ) il 5 settembre 1946.

I suoi genitori, Bomi (1908-2003) e Jer Bulsara (1922-2016), provenivano dalla comunità Parsi dell'India occidentale. I Bulsara avevano infatti origini nella città di Bulsar (oggi Valsad ) nel Gujarat .  La famiglia si era trasferita a Zanzibar in modo che Bomi potesse continuare il suo lavoro come cassiere presso il British Colonial Office. 
Come Parsi, i Bulsara praticavano lo zoroastrismo. 

Freddie Mercury nacque con quattro incisivi soprannumerari, ai quali lui stesso attribuiva la sua estensione vocale potenziata. 

Mercury ha trascorso gran parte della sua infanzia in India, dove ha iniziato a prendere lezioni di pianoforte all'età di sette anni mentre viveva con i parenti. 

Nel 1954, all'età di otto anni, fu mandato a studiare alla St. Peter's School, un collegio in stile britannico per ragazzi, a Panchgani vicino a Bombay. 

All'età di 12 anni, formò una band scolastica, gli Hetics, che si cimentava in cover di artisti rock and roll come Cliff Richard e Little Richard . 

Un amico ricorda che aveva "una straordinaria capacità di ascoltare la radio e riprodurre ciò che sentiva al pianoforte". 

Nel febbraio 1963 tornò a Zanzibar dove raggiunse i suoi genitori nella loro casa.  

Nella primavera del 1964, Mercury e la sua famiglia fuggirono in Inghilterra da Zanzibar per scampare alla violenza della rivoluzione contro il Sultano di Zanzibar e il suo governo prevalentemente arabo, in cui furono uccisi migliaia di arabi e indiani di etnia. 

Si trasferirono al numero 19 di Hamilton Close, a Feltham, nel Middlesex , una città a 13 miglia (21 km) a ovest del centro di Londra.

 Dopo aver studiato arte all'Isleworth Polytechnic a West London, Mercury ha studiato arte grafica e design all'Ealing Art College, diplomandosi con un diploma nel 1969. In seguito utilizzò queste abilità per disegnare stemmi araldici per la sua band Queen. 

Dopo la laurea, Mercury si unì a una serie di band e vendette vestiti e sciarpe edoardiani di seconda mano al Kensington Market di Londra con Roger Taylor. Svolse anche un lavoro come addetto ai bagagli all'aeroporto di Heathrow. Altri amici dell'epoca lo ricordano come un giovane tranquillo e timido con un grande interesse per la musica. 

Nel 1969, si unì alla band di Liverpool Ibex, in seguito ribattezzata Wreckage, che suonava "blues molto in stile Hendrix". 

Nell'aprile 1970, Mercury si unì al chitarrista Brian May e al batterista Roger Taylor, per diventare il cantante principale della loro band Smile.  A loro si unì il bassista John Deacon nel 1971. Nonostante le riserve degli altri membri e dei Trident Studios , la gestione iniziale della band, Mercury scelse il nome "Queen" per la nuova band. In seguito ha detto: "Ovviamente è molto regale, e suona in modo splendido. È un nome forte, molto universale e immediato. Ero certamente consapevole delle connotazioni gay, ma quello era solo un aspetto". Più o meno nello stesso periodo, cambiò legalmente il suo cognome , Bulsara, in Mercury.

Ma qual era il segreto della sua inconfondibile voce? 

Sebbene la voce parlante cadesse naturalmente nella gamma del baritono, Mercury incise la maggior parte delle canzoni nella gamma del tenore. 

La sua nota estensione vocale si estendeva dal Fa basso basso ( Fa 2 ) al Fa alto soprano ( Fa 6 ). Poteva cintare fino al Fa alto tenore ( Fa 5 ). 

Il biografo David Bret descrisse la sua voce come "un'escalation in poche battute da un profondo e gutturale ringhio di roccia a un tenore tenero e vibrante, quindi a una coloratura acuta e perfetta , pura e cristallina nei tratti superiori".

Il soprano spagnolo Montserrat Caballé, con il quale Mercury ha registrato un album, ha espresso la sua opinione che "La sua tecnica era sorprendente. Nessun problema di tempo , ha cantato con un innato senso del ritmo, il suo posizionamento vocale era molto buono ed era in grado di scivolare senza sforzo da un registro all'altro. Aveva anche una grande musicalità. Il suo fraseggio era sottile, delicato e dolce o energico e sbattente. Era in grado di trovare la giusta colorazione o sfumatura espressiva per ogni parola."

Il cantante degli Who Roger Daltrey ha descritto Mercury come "il miglior cantante rock 'n' roll virtuoso di tutti i tempi. Potrebbe cantare qualsiasi cosa in qualsiasi stile. Potrebbe cambiare il suo stile da una linea all'altra e, Dio, questa è un'arte. E lui è stato brillante in questo". 

Nel 2016, un team di ricerca ha intrapreso uno studio per comprendere il fascino dietro la voce di Mercury. Guidati dal professor Christian Herbst, il team ha identificato il suo vibrato notevolmente più veloce e l'uso delle subarmoniche come caratteristiche uniche della voce di Mercury, in particolare rispetto ai cantanti d'opera.



23/11/21

58 anni dall'assassinio e dai funerali di John Fitzgerald Kennedy - Qual era la poesia "macabra" che amava e che era la sua preferita?



Ricorre in questi giorni la vicenda della morte di uno dei presidenti americani più amati, John Fitzgerald Kennedy, la cui vita fu stroncata dall'assassinio di Dallas, il 22 novembre 1963. 

Due giorni dopo, si tennero i funerali: una Messa da Requiem fu celebrata nella Cattedrale di San Matteo Apostolo il 25 novembre 1963 a Washington D.C. 

Successivamente, Kennedy fu sepolto in un piccolo appezzamento, 20 per 30 piedi, nel Cimitero Nazionale di Arlington.

In un periodo di tre anni (1964-1966),  una cifra incredibile, circa 16 milioni di persone, hanno visitato la sua tomba

Il 14 marzo 1967, i resti di Kennedy furono dissotterrati e trasferiti a pochi metri di distanza in un luogo di sepoltura permanente e in un memoriale. 

Fu da questo memoriale che furono modellate le tombe di Robert e Ted Kennedy. La guardia d'onore alla tomba di Kennedy era la 37a classe cadetta dell'esercito irlandese . Kennedy era rimasto molto impressionato dai cadetti irlandesi durante la sua ultima visita ufficiale in Irlanda, tanto che Jacqueline Kennedy chiese all'esercito irlandese di essere la guardia d'onore al funerale di suo marito

Jacqueline e i loro due figli minorenni deceduti furono successivamente sepolti nella stessa trama. Il fratello di Kennedy, Robert, è stato sepolto nelle vicinanze nel giugno 1968. 

Nell'agosto 2009, anche Ted è stato sepolto vicino ai suoi due fratelli. 

La tomba di John F. Kennedy è illuminata da una " Fiamma Eterna ". Kennedy e William Howard Taft sono gli unici due presidenti degli Stati Uniti sepolti ad Arlington. 

Secondo la Biblioteca JFK , "I Have a Rendezvous with Death" ("Ho un appuntamento con la morte"), di Alan Seeger (poeta americano nato nel 1888 e morto nel 1916) "era una delle poesie preferite di John F. Kennedy e spesso chiedeva a sua moglie di recitarla".

Ecco il testo della poesia:

Ho un appuntamento con la Morte
Su qualche contesa barricata
Quando la Primavera torna
Con la Sua tremula ombra
E i fiori di melo riempiono l'aria
Ho un appuntamento con la Morte
Quando la primavera riporta
giorni azzurri e chiari.
Forse prenderà la mia mano
E mi condurrà nella sua scura terrà
E chiuderà i miei occhi e fermerà il mio respiro
O forse passerò oltre ancora.
Ho un appuntamento con la Morte
Su qualche pendio sconvolto o quota battuta,
Quando la primavera ritorna ancora quest'anno
E il primo fiore di campo compare,
Iddio sa se stanno meglio nel profondo,
Fasciati di seta e profumati
Là dove l'Amore vibra nel sonno dorato,
Stelo accanto a stelo, respiro con respiro,
La dove prementi risvegli sono cari
Ma ho un appuntamento con la Morte
A mezzanotte in qualche città in fiamme,
Quando la primavera va verso nord ancora quest'anno
E per quanto vera sia la mia parola
Non mancherò a quell'appuntamento.



(L'autore, il poeta Alan Seeger morì a soli 28 anni durante la Prima Guerra Mondiale. Il padre andò subito in Francia dopo la guerra e cercò invano la tomba del figlio. Infine, comperò una campana per la chiesa di Belloy-en-Santerre, dove ne fece incidere il nome. La voce del giovane poeta, dunque, risuona ancora, cantando l'Angelus due volte al giorno.)




Fabrizio Falconi - 2021 

21/11/21

I resti di Villa Pepoli - Un luogo romano del tutto sconosciuto

 


A Roma, nascosta dal e al caos cittadino quotidiano, c'è una porta "magica" che conduce in un luogo insolito, dove restano le memorie di antichi fasti, a un passo dalle grandiose Terme di Caracalla. 

Via di Villa Pepoli è una strada molto elegante, inclusa nel quartiere di San Saba, uno dei più appartati e suggestivi della Capitale, e alla quale si accede attraverso una vecchia porta rimasta ancora in piedi. 

Questa porta, in realtà, era uno degli accessi alla Villa Pepoli (di cui è rimasto il toponimo), anche conosciuta come Vigna Cavalieri, sulla quale insisteva l'antico tracciato della Via Ardeatina, quello all'interno delle mura Aureliane. 

La villa apparteneva, fino ai primi del '900 al conte Agostino Pepoli, studioso, collezionista e archeologo, che morì nel 1910. 

Villa Pepoli era magnifica: disponeva di un amplissimo parco - sovrastante le Terme - con scorci di paesaggio rurale, tipicamente romano, che dovevano apparire di grande suggestione. 

Alla morte del conte Agostino, questa stupenda proprietà fu velocemente dismessa e poi svenduta a privati, con la conseguenza di venire usata per la realizzazione di nuove costruzioni. 

Oggi l'ingresso a quanto resta del parco è indicato proprio dall'elegante portale posto all'entrata della via di Villa Pepoli, oltrepassato il quale però si aprono due file di villini quasi tutti realizzati intorno agli anni '20. 

E' assai curioso che durante i lavori di costruzione di questi villini non risultano essere emersi resti archeologici - i quali furono invece quasi sicuramente riinterrati - considerando che invece negli anni '50, durante i lavori di scavo per la rete fognaria, vennero alla luce importantissimi resti di antichi edifici di età imperiale, a 2 metri di profondità, decorati con splendide pavimentazioni a mosaico. 

I resti più imponenti vennero scoperti più recentemente, nei pressi della odierna via Fabio Cilone. 

Gli archeologi si misero al lavoro dunque per trovare anche le pertinenze della famosa Porta Naevia, da cui doveva avere inizio la Via Ardeatina e che doveva trovarsi fra la Chiesa di San Saba e quella di Santa Balbina, che però non è mai stata identificata con esattezza. 

Tutta la zona, si è scoperto successivamente, è comunque occupata da sepolture antiche, che culminano in un incredibile mausoleo circolare, ritrovato alla fine di Via Fabio Cilone, datato ad età augustea, che  finora non è stato possibile attribuire a nessun personaggio dell'epoca, e che - incredibilmente - oggi è impossibile visitare, essendo stato completamente invaso dalla vegetazione spontanea della zona e dal degrado. 

L'edificio fu esplorato per la prima volta nel 1838 dal sacerdote Alessandro Volpi, che ottenne il permesso di scavare nella proprietà della allora Vigna dei Cavalieri

Il sacerdote si imbatté in un sepolcro enorme, di circa 40 metri di diametro! Con un interno purtroppo completamente spogliato durante i secoli. In quella occasione furono comunque recuperate epigrafi e materiali di spoglio, funerari. 

Intorno al Mausoleo più grande, negli scavi successivi furono identificati altri 39 ambienti funerari, una domus, i resti di due strade e l'acquedotto antoniniano. 

Purtroppo tutto questo incredibile apparato archeologico è oggi nascosto e inaccessibile ai visitatori.

L'unico auspicio che si può fare è che presto ritorni ad essere fruibile per la città e per la ricostruzione della sua stessa millenaria storia.

Fabrizio Falconi - 2021 

(notizie tratte da: Paola Quaranta, La Via Ardeatina nella Villa Pepoli all'Aventino Minore, in Studi Romani, Anno LVIII - NN. 1-4, p.107) 


20/11/21

Davvero oggi scrivendo libri si può aspirare all'immortalità ?



Chi e come si guadagna l'immortalità letteraria

Il vecchio sogno idealista o infantile di scrivere libri per consegnarsi alla posterità si dovrebbe infrangere brutalmente quando si conosca almeno per grandissime linee, la storia della fortuna letteraria. 

Se si scorre l'elenco dei vincitori del premio Strega degli ultimi 70 anni, per esempio, si può fare un bilancio, scoprendo che molti dei premiati non hanno superato la prova della notorietà neanche a distanza di qualche decennio.

Chi oggi legge in Italia romanzi di Giovanni Battista Angeletti, vincitore nel 1949? Quanti volumi troverebbe, entrando oggi in una libreria, un potenziale lettore, dello scrittore Michele Prisco (vincitore nel 1966)? Quanti di Raffaello Brignetti (vincitore nel 1971), di Giuseppe Dessì (1972), di Guglielmo Petroni (1974), di Vittorio Gorresio (1980), oppure dei più recenti Ernesto Ferrero (2000) o di Ugo Riccarelli (2004)?? 

Tutti ottimi scrittori, sicuro. Ma già precipitati nell'oblio, almeno per quanto riguarda la ristampa o pubblicazione dei loro libri

E che dire, allargando il campo, dei celebrati Premi Nobel? 

Chi legge oggi o chi ha mai sentito nominare oggi Sully Prudhomme , vincitore nel 1901, Bjørnstjerne Bjørnson (1903), Frédéric Mistral (1904), José Echegaray y Eizaguirre (1905), Rudolf Christoph Eucken (1908), Selma Lagerlöf (1909), Paul Johann Ludwig Heyse (1910), Maurice Polidore Marie Bernhard Maeterlinck (1911), Gerhart Hauptmann (1912), Carl Gustaf Verner von Heidenstam (1916), Karl Adolph Gjellerup (1918), Henrik Pontoppidan (1920), Władysław Stanisław Reymont (1924), Sigrid Undset (1928), Erik Axel Karlfeldt (1931), Roger Martin du Gard (1937)Frans Eemil Sillanpään (1939), Halldór Laxness (1955), Saint-John Perse (1960), Harry Martinson (1974) ??? 

L'elenco è lunghissimo e pare rispondere chiaramente che non basta proprio vincere un premio Nobel per guadagnarsi l'immortalità (a meno che non si consideri immortale l'aver vinto un premio Nobel, cosa di cui dubito molto

Se scrittori premiati col Nobel appena trenta, quaranta, cinquanta anni fa sono precipitati nell'oblio (sopravvivendo le loro opere solo nelle polverose biblioteche o in rari brani di antologie scolastiche), è legittimo chiedersi anche se recentissimi premiati come Olga Tokarczuk (2018) o Louise Gluck (2020) o Abdulrazak Gurnah (2021) saranno, tra quindici o venti anni letti da qualcuno, presenti con le loro opere nelle librerie e soprattutto stampati da qualche editore. 

Insomma, chi cerca l'immortalità con la produzione letteraria, ma più in generale con quella artistica, dovrebbe rassegnarsi prima ancora di provarci, alla irrilevanza: l'immortalità, la vera immortalità spetta a quella razza "aliena" nata con un codice speciale e la cui piena espressività è stata riconosciuta da tutti, erga omnes, contemporanei, posteri e sopravvissuti. 

Quindi se non si è nati Michelangelo, Dante, Shakespeare o Proust, abbandonate i vostri sogni di gloria e bagnatevi sovente, cioè tutti i giorni, nelle acque dell'umiltà. La vostra grande opera, è assai probabile, non vi sopravviverà.

Fabrizio Falconi - 2021 

15/11/21

Il mistero della scomparsa di Ettore Majorana - C'è una traccia che porta a Roma ?

 


La scomparsa di Ettore Majorana è uno dei grandi enigmi irrisolti che ha appassionato a lungo giornalisti e storici. Il geniale fisico catanese infatti, come si sa, scomparve letteralmente nel nulla nel marzo del 1938, dopo aver preso un traghetto della Tirrenia da Napoli a Palermo. Nessuno sa con certezza se giunse mai a destinazione, nessuno sa se mise in opera una geniale messinscena, nessuno sa se si suicidò nelle acque del Tirreno (le ricerche in mare non diedero mai frutti), nessuno sa se – come ha sostenuto il prof. Antonino Zichichi - Majorana, sconvolto da quanto aveva scoperto sull’atomo e preconizzando i disastri che sarebbero provenuti dalle scoperte sull’energia nucleare, non decise di sparire rinchiudendosi in un convento.

In realtà, tra le diverse piste, la Procura di Roma, che recentemente ha chiuso dopo decenni le indagini, ha privilegiato quella sudamericana: della scomparsa cioè volontaria del fisico in Venezuela, sotto falsa identità, laddove la sua presenza sarebbe stata accertata – nella città di Valencia – negli anni compresi tra il 1955 e il 1959.

Ma l’ipotesi di una sopravvivenza, sotto falso nome, di Majorana segue anche una pista romana, che negli ultimi tempi si è arricchita di nuovi particolari.

Secondo un nuovo testimone, infatti, il grande fisico avrebbe terminato i suoi giorni proprio a Roma, e nemmeno troppo distante, anzi molto vicino a quell’Istituto di Fisica di via Panisperna 89/a dove insegnava Enrico Fermi e dove si formarono quei geniali ragazzi destinati a scompaginare la storia della scienza e a far parlare di sé nel mondo intero.

Le ultime tracce di Majorana, infatti, portano sugli scalini della Università Gregoriana, in piazza della Pilotta, a pochi passi da Fontana di Trevi.

La testimonianza arriva da un uomo che asserisce di aver parlato a lungo con quel barbone, incontrato un giorno del marzo 1981 insieme a monsignor don Di Liegro, fondatore della Caritas romana (il quale però, essendo scomparso, non può avvalorare la testimonianza).

Secondo il racconto dell’uomo, il clochard dimostrò di conoscere la soluzione del Teorema di Fermat, un difficilissimo enigma matematico rimasto irrisolto per quattro secoli, definitivamente sciolto nel 2000.

Fu proprio monsignor Di Liegro, racconta il testimone, a confermare l’identità dell’uomo, spiegandogli che si trattava proprio del grande fisico, il quale, dopo una sosta in un convento di Napoli, si era trasferito in un altro istituto religioso, nei pressi di Roma, e da qui si era allontanato, proprio per tornare sui suoi passi, nella zona di Roma cioè dove aveva mosso i suoi primi passi di brillantissimo fisico.

Di Liegro chiese al testimone di mantenere il segreto «per almeno quindici anni dopo la mia morte».

E l’uomo decise di rispettare le volontà del sacerdote.

Vero o falso che sia il racconto, fa molta impressione ancora oggi immaginare Ettore Majorana nei panni di un barbone trasandato, tra la folla indifferente, in quella piazza della Pilotta dove ha sede una delle istituzioni accademiche romane più prestigiose e in prossimità di quei luoghi dov’era nato il mito dei Ragazzi di via Panisperna.

 Tratto da: Fabrizio Falconi, Roma esoterica e misteriosa, Newton Compton, 2015

 

12/11/21

Il suicidio di David Foster Wallace nelle parole di sua moglie



Karen Green è una donna eccezionale. 

E oltre ad essere una donna eccezionale è anche una artista vera. 

E oltre ad essere una donna eccezionale e anche una artista vera è stata anche la moglie di un genio, David Foster Wallace, considerato uno degli scrittori più importanti degli ultimi 50 anni e suicidatosi il 12 settembre del 2008, a soli 46 anni, impiccandosi ad una trave della sua abitazione. 

In tutti questi anni, dopo la morte del marito, la Green ha compiuto ogni sforzo per comprendere la morte di David, ma in una intervista a The Guardian, ha ribadito la volontà di negare l'idea che il suicidio sia in qualche modo un atto significativo, ancor meno comprensibile in termini artistici – il mito del depressivo romantico – come invece molti commentatori della morte di Wallace, mettendolo insieme ad altri suicidi celebri come Kurt Cobain, hanno voluto vederlo. 

"È stato un giorno nella sua vita", dice la Green "ed è stato un giorno nella mia. Il problema per me è che c'è uno stress post-traumatico che deriva dal trovare qualcuno che ami in quel modo, come ho fatto io. È un cosa reale. Un vero cambiamento al tuo cervello, a livello cellulare, a quanto pare. La gente mi dice che avrei dovuto essere preparata, a causa della storia di David con la depressione. Ma ovviamente non ero affatto preparata. Non me ne sarei andata, lasciando lui solo in casa, mai, se avessi sospettato che sarebbe potuto succedere. Sento ancora che è stato commesso un errore". 

Confessa di evitare ancora dopo tanto tempo Google: "Cosa fai quando il referto dell'autopsia di tuo marito è su Internet ed è considerato un argomento degno di una fottuta critica letteraria?" 

Sono rarissime le volte in cui la Green ha parlato del suicidio del marito. "L'ho fatto solo quando sapevo che l'articolo non avrebbe incluso le parole "impiccato" o "corpo scoperto", dice. 

"Ma mi sono sbagliata e l'hanno fatto lo stesso. Sono un'idiota, ovviamente. So che il giornalismo è giornalismo e forse la gente vuole leggere che ho scoperto il corpo più e più volte, ma questo non definisce David o il suo lavoro. Tutto questo lo trasforma in uno scrittore di celebrità, il che penso lo avrebbe fatto molto arrabbiare, o almeno avrebbe fatto arrabbiare la parte buona di lui. Ma adesso ha definito anche me, e sto davvero lottando con questo". 

Se ha deciso di parlarne è stato perché si è sentita in dovere di pubblicare The Pale King , l'ultima opera di David, uscita postuma, e in parte perché ha la sensazione che parlare della sua esperienza possa essere di aiuto ad altre persone che sono state lasciato indietro a convivere con l'ossessione o l'incubo del suicidio. 

Non è sicura di molte cose riguardo alla morte di suo marito ma è certa di una cosa: che Wallace voleva che il Re Pallido fosse pubblicato, anche nel suo stato incompiuto. "Gli appunti che ha preso per il libro e i capitoli che erano completi, sono stati lasciati in una pila ordinata sulla sua scrivania nel garage dove lavorava. E le sue lampade erano accese sopra. Quindi non ho dubbi nella mia mente questo è quello che voleva. Era in uno stato organizzato molto insolito per David. " 

"Forse l'ottusità è associata al dolore psichico", ha scritto Wallace in una delle pagine del Re Pallido, uscito con enorme successo dopo la sua morte, "perché qualcosa di opaco o opaco non riesce a fornire abbastanza stimoli per distrarre le persone da qualche altro tipo di dolore più profondo che è sempre presente, anche se solo ad un livello inferiore, e da cui la maggior parte di noi spende quasi tutto il proprio tempo e le proprie energie cercando di distrarsi."

Una delle molte pagine profetiche dell'opera di un grande scrittore.

10/11/21

Chi ha scritto l'aforisma "C'è un campo oltre il giusto e lo sbagliato..." che perfino Brad Pitt porta tatuato sul braccio?

 


Quando sull'ultimo frame della serie tv The Victim - ottimo drama targato BBC in onda sulla piattaforma Sky - ho visto su schermo nero calare per l'ennesima volta il celebre aforisma sul Campo oltre il giusto e lo sbagliato ho sentito la necessità di andare un po' a indagare. 

L'aforisma - o breve poesia - attribuito al poeta mistico persiano Gialal al-Din Rumi, chiamato più semplicemente in occidente Rumi, è infatti diventato così famoso da noi che perfino il divo Brad Pitt ha pensato di tatuarselo sul suo muscoloso bicipite (vedi foto qui sopra). 

Ma questo aforisma è veramente di Rumi, il poeta mistico persiano vissuto nel 1200?

E cosa dice esattamente? 

La traduzione con cui questi antichi versi sono giunti a noi, in Occidente, recita: 

Ben oltre le idee di giusto e sbagliato c’è un campo. Ti aspetterò laggiù.

Una frase molto suggestiva che fa pensare soprattutto al perdono e alla riconciliazione. E a questo uso viene sostanzialmente riferita.

Esistono diverse versioni occidentali di questo aforisma. Che in realtà farebbe parte di un testo più lungo che nella sua completezza reciterebbe così:

Al di là delle idee di cosa sbagliata e cosa giusta, c'è un campo. 

Ci incontreremo li. 

Quando l'anima si sdraia in quell'erba, il mondo è troppo pieno per parlarne. 

Idee, linguaggio, anche la frase “reciprocamente” non ha alcun senso


In realtà tutte le traduzioni occidentali del quartetto discendono da quella del poeta americano Coleman Barks (nato nel 1937).
Da allora, questa formula, attribuita a Rumi, si trova recitata alle cerimonie nuziali, quando gli intellettuali hanno un dibattito particolarmente controverso, e negli uffici dei terapisti e nelle sale di meditazione dappertutto. 

Studiando però da vicino la cosa si scopre che questa frase NON è proprio quello che ha scritto Rumi. 

La citazione esatta da cui questo aforisma è estrapolato è infatti uno dei quartetti - precisamente il n.157 - di quell'opera sterminata di Rumi, il suo Canzoniere, che si chiama Divan-i Shams-i Tabrīz ("Canzoniere di Shams-i Tabrīz"). 

Scopriamo così che il testo originale di Rumi, di quel Quartetto è, in lingua farsi:


Æ Ò کفر از اسلام برون صحرائی
 است ما را به میان آن فضا سودائی
است عارف چو بدانرسید سر را بنهد نه کفر 
æ نه اسلام æ نه آنجا جائی است

La traduzione dalla lingua farsi di questo quartetto è molto più complessa e molto lontana da quella di Coleman Barks. 

La traduzione letterale, lascerebbe infatti intendere non il campo attraente dove lasciamo cadere tutte le nostre idee e disaccordi nell'erba in cui ci stendiamo e ritroviamo la nostra perduta unità, ma una terra desolata e desolata di disillusione. 

Ecco come sarebbe:

Al di là del male e del giusto fare, c'è un deserto 
Il deserto ci chiama come se fosse l'oasi 
Desideriamo abbracciarci l'un l'altro nella sua erba rigogliosa 
e bevi dalla limpida sorgente 
La luna mi sussurra all'orecchio: 
Ho un piede in quel deserto 
Ma non chiedermi di incontrarti lì 
Perché in quel deserto di delusione, 
proprio come con il bene e il male, 
io e te e anche l'unità tra di noi, cesserebbero di esistere 


Qualcosa di radicalmente diverso dal senso introdotto da Coleman Barks. 

La poesia di Rumi alluderebbe alla grande capacità della mente di creare illusioni e disillusioni.  In questo senso il deserto ci chiama come se fosse un'oasi, richiamandoci al senso ultimo dell'esistenza e alla inutilità della divisione, delle divisioni create dalla mente.

In questi versi Rumi cioè alluderebbe alla disperazione e al desiderio di un uomo che ha attraversato tutte le fasi della ricerca ed è arrivato a quella finale. La non-dualità è vista come uno stato in cui si può tranquillamente assumere una posizione neutrale ad ogni avvenimento poiché, dopotutto, in questa terra, non esiste il male o il bene. Non almeno, in senso assoluto. 

E' soltanto nell'ottica divina, che questa non-dualità finalmente si scioglie e si ricompone.  

Insomma, l'Occidente ha semplificato moltissimo il pensiero di Rumi, trasformando i suoi versi in una frase più facilmente comprensibile e più facilmente spendibile per la nostra mentalità. 

Una occasione, forse, per tornare a rileggere i meravigliosi componimenti di Rumi. 

Fabrizio Falconi - 2021

08/11/21

Chi era Giorgio, il padre di Francesco De Gregori omaggiato da "Tutto più chiaro che qui" ?



Come per molti artisti, il padre ha avuto una notevole importanza nella formazione di Francesco De Gregori, che si scopre anche dall'ascolto di alcune sue (celebri) canzoni. 

Francesco De Gregori è nato nel 1951, dal matrimonio fra il bibliotecario Giorgio e l'insegnante di lettere Rita Grechi, e come raccontano le cronache, il nuovo arrivato ricevette il nome di Francesco in memoria di suo zio, ufficiale degli Alpini e successivamente partigiano vicecomandante delle Brigate Osoppo, ucciso a Porzûs nel 1945 dai partigiani comunisti delle Brigate Garibaldi. 

E' a causa della professione del padre, che il giovane Francesco crebbe a Pescara fino circa ai dieci anni per poi tornare a Roma, dove frequentò il liceo classico Virgilio.

Il 1966 è un anno cruciale per il quindicenne Francesco: insieme a suo padre e a suo fratello Luigi, di sette anni più anziano, si reca a Firenze per prestare soccorso alla popolazione colpita dall'alluvione. E in quello stesso anno, decide di imparare a suonare la chitarra. 

Ma chi era il padre di De Gregori?  Certamente nella formazione di Francesco, hanno avuto la massima importanza le radici "umaniste" di lui e della moglie, Rita Grechi. 

Giorgio De Gregori era nato a Roma il 25 settembre 1913. Laureatosi in lettere, entrò in servizio come bibliotecario aggiunto nelle biblioteche governative nel 1937, a soli 24 anni, presso la Biblioteca nazionale centrale di Firenze. 

Trasferito nel 1942 a Roma, ma chiamato alle armi dopo pochi mesi, sul fronte francese, rientrò in Italia dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 e fu comandato a prestare servizio fino alla fine della guerra presso la Direzione generale delle accademie e biblioteche a Padova. 

Dopo la Liberazione rientrò in servizio alla Biblioteca di archeologia e storia dell'arte di Roma, con la responsabilità anche della custodia del materiale delle biblioteche tedesche in Roma. 

Dal 1952 in poi Giorgio De Gregori rivestì molti e importanti incarichi che lo portarono ai vertici dell'AIB, l'Associazione delle Biblioteche Italiane, di cui fu segretario per molti anni.

Giorgio De Gregori, che  è morto a Roma il 30 giugno 2003, era dunque un vero studioso, un intellettuale ed è immaginabile l'importanza che i libri - e l'amore per i libri - abbiano rivestito nella stessa educazione del futuro cantautore. 

Francesco, dal canto suo, ha ripetutamente omaggiato il padre con accenni presenti in diverse delle sue canzoni e soprattutto in una canzone che gli ha interamente dedicato:  "Tutto più chiaro che qui", contenuta nell'album "Canzoni d'Amore" pubblicato nel 1992.  A tal proposito il cantautore romano dirà: "Non era un Grande Vecchio. Era mio padre, Era lui che faceva il bagno nel Tevere. Canottiere negli anni Venti; grande uomo. Aveva visto tutto".

Ed è una canzone sempre bellissima da riascoltare: qui sotto



Fabrizio Falconi - 2021 

07/11/21

Quali sono stati i 5 film più visti di sempre al cinema, per numero di spettatori, in Italia? Molte sorprese.

 


Siamo da sempre abituati alle classifiche del box-office, per ciò che concerne il cinema, sempre aggiornate però sulla stagione in corso, oppure sull'unico parametro degli incassi, sulla base dei quali è ben difficile fare confronti con il passato: costo del biglietto, numero delle sale, diverso valore della moneta, delle lire prima e dell'euro poi, rendono impossibile stilare classifiche che abbiano un qualche senso.

L'unico criterio valido resta allora quello del numero di biglietti staccati: cioè del numero di spettatori che effettivamente si è recato in una sala cinematografica per vedere quel certo film. 

Anche qui non mancano i problemi nel paragonare gli anni d'oggi con quelli del passato: troppo diverso il sistema di fruizione del cinema, ieri e oggi. Come sappiamo oggi l'offerta del cinema è variatissima e i mezzi per usufruire della visione di un film sono infiniti, dal web agli smartphone, dalla smart tv allo streaming: la sala è rimasta un mercato praticamente di nicchia.

La classifica del maggior numero di spettatori GLOBALE dei film proiettati in Italia nella storia del cinema e della distribuzione riserva tuttavia interessanti sorprese.

Il film più visto nella storia del cinema in Italia è infatti Dottor Zivago: il capolavoro di David Lean, uscito nel 1966, risulta essere stato visto nel nostro paese da una cifra incredibile di spettatori: 22 milioni e 900.000. Considerando che all'epoca la popolazione italiana era di circa 51.000.000 di abitanti, significa che quel film fu visto da quasi un italiano su due, al cinema.

Al secondo posto si piazza Il Padrino di Francis Ford Coppola, che nel 1972 portò al cinema qualcosa come 21.800.000 spettatori. 

In terza posizione il colosso biblico I dieci comandamenti, diretto da Cecil B. DeMille, che nel 1953 (quando gli italiani erano 47 milioni) realizzò 16.800.000 spettatori.

Quarto è il più grande successo italiano della saga dell'agente 007: Missione Goldfinger, uscito nel 1964, ottenne 15.800.000 spettatori.

Quinto, un altro kolossal: Guerra e Pace, tratto da Tolstoj con la regia di King Vidor, anche se di completa produzione italiana, nel 1956. Al botteghino realizzò 15.623.000 spettatori (dato certificato dalla SIAE che lo conferma film di produzione italiana più visto di tutti i tempi nel nostro paese). 

A sorpresa, il sesto posto è occupato dal controverso Ultimo Tango a Parigi, di Bernardo Bertolucci. Il film con Marlon Brando e Maria Schneider, pur essendo stato sequestrato poche settimane dopo la sua uscita, e tornato nelle sale nel 1973, fu visto da ben 15.623.000 milioni di spettatori. 

Sono numeri da capogiro, oggi del tutto irripetibili. Basti pensare che La vita è bella di Roberto Benigni (1997) o il recente Quo vado di e con Checco Zalone, non hanno raggiunto la soglia dei 10 milioni di spettatori.  


Fabrizio Falconi (Fonte dati: http://boxofficebenful.blogspot.com/)


06/11/21

Il figlio segreto di Maria Callas: l'ombra della "Divina".

 


Una vita straordinaria, colma di successi straordinari, ma colma anche di un dolore profondissimo e sordo, di una inquietudine insopprimibile, di una fragilità congenita unita ad una determinazione straordinaria nella sua carriera mirabolante. Maria Callas, nel corso della sua vita custodì anche un segreto poco noto, che in un articolo tempo fa, fu così ricostruito:

Milano, 5 settembre 1977 Luigi era nervoso. Erano le undici e cinque e «La Signora» non era ancora arrivata. Quella scena si ripeteva ogni primo lunedì del mese. Da diciassette anni. Era il suo piccolo, grande segreto. Una vita onesta la sua: da quarant'anni per tutti lui era solo «il Ginetto», il vecchio custode del cimitero di Bruzzano, alla periferia nord di Milano. 

Se la ricordava ancora come fosse ieri quella mattina di diciassette anni prima. Era un lunedì. Il primo lunedì di maggio. Faceva ancora freddo, il cielo non prometteva niente di buono. E lui se ne stava attaccato alla piccola stufetta della sua guardiola a leggere il giornale. Come ogni lunedì mattina, non c'era niente da fare: il cimitero era chiuso al pubblico. 

All'improvviso il rumore di una macchina, di quelle potenti. Ginetto non credeva ai suoi occhi. Davanti al cancello c'era una berlina, di quelle che si vedevano giusto alle feste dei morti al Monumentale, il cimitero dei ricchi: blu, con le tendine grigie, per proteggere la privacy dei «signori», tirata a lucido come nuova. 

Non aveva mai visto niente di simile in tutta la sua vita. «È lei il custode?» Un uomo alto, magro, in un elegante completo grigio, interruppe d'un tratto i suoi pensieri. «Guardi che qua è tutto chiuso. Dovete tornare più tardi, nel pomeriggio» rispose Ginetto, seccato per quell'intrusione che spezzava la monotonia del suo inizio settimana. «Lo sappiamo. Ma "La Signora" deve assolutamente far visita al cimitero. Questo è per il suo disturbo» disse l'autista senza scomporsi, mettendogli frettolosamente una busta in mano e guardandosi in giro con aria circospetta, per paura che qualche occhio indiscreto potesse assistere a quella scena. 

Ginetto aprì in fretta la busta: c'erano cinquecentomila lire in contanti. Un'enormità. Non aveva mai visto tanti soldi tutti insieme. Con le mance, qualche cresta sui lumini e lo stipendio del Comune riusciva a stento a raggranellare centottantamila lire alla fine di ogni mese. Quell'uomo gli stava offrendo lo stipendio di tre mesi. E non ci doveva pagare nemmeno le tasse. Era lì a contare, ancora incredulo per tutto quel ben di Dio, quando l'anonimo autista lo interruppe ancora una volta. «Allora? Ci fa entrare? Se saprà conservare questo segreto ci vedrà arrivare alle undici del mattino di ogni primo lunedì del mese. Le garantiamo questa rendita in cambio del più assoluto riserbo. Niente chiacchiere. Con nessuno. Accetta?» 

Ginetto fece due calcoli: quella sarebbe stata la svolta della sua vita. Il tredici al Totocalcio che aveva sempre sognato. Non era onesto? Be', in fondo lui non rubava niente a nessuno. Faceva solo un piacere a una sconosciuta «Signora». Senza pensarci due volte, aprì il pesante cancello del cimitero. «Vi accompagno. Dove dovete andare? Qui dentro è casa mia» propose. «Non si preoccupi. "La Signora" sa dove andare.» 

Avrebbe voluto ringraziarla, «La Signora». Ma una tendina grigia la nascondeva al resto del mondo. Andava avanti così da diciassette anni. Tutti i mesi. Puntuale come un orologio svizzero, la berlina blu arrivava alle undici. «Son quasi le undici e mezzo. Che le sarà successo?» Ginetto ora incominciava a preoccuparsi sul serio. Non era mai successo in tanti anni che «La Signora» mancasse al suo appuntamento. 

Poi, all'improvviso, il rumore della berlina. Ginetto tirò un sospiro di sollievo. Anche per quel mese la sua rendita era assicurata. Maria piangeva, come ogni volta. Lasciava che le lacrime scorressero lungo le sue guance scavate dalla solitudine. Dietro quella piccola foto di un neonato morto, dietro quel nome, Omero, inciso nel marmo a lettere d'oro, si nascondeva un pezzo della sua vita. Un segreto. Suo figlio. Sì, quel figlio che era stata costretta a nascondere agli occhi del mondo; quel figlio che aveva fatto seppellire di nascosto in un angolo remoto di Milano, come se se ne dovesse vergognare. 

Quel figlio che non aveva potuto abbracciare neppure una volta per la crudeltà di suo padre, Aristotele Onassis.


fonte Il Giornale, 8 settembre 2007