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Franco Gàbici, L'Avvenire, 16/7/2012
Con il tempo, però, e soprattutto negli ultimi decenni, la villa aveva subito notevoli trasformazioni, a opera soprattutto del principe Marcantonio IV Borghese (1730-1809) che, tra le altre cose, aveva ordinato ai suoi architetti la costruzione di un anfiteatro destinato a ospitare corse di cavalli, esibizioni e feste, e ispirato alla piazza del Campo di Siena, città da cui la famiglia Borghese, originariamente, proveniva.
Nacque così piazza di Siena, subito divenuta il fulcro della villa, che nel frattempo i Borghese avevano deciso di aprire al pubblico, cioè al popolo di Roma, per il passeggio durante i giorni festivi e dove, in quelle occasioni, erano ospitati eventi e balli. Uno dei fatti memorabili che ebbero luogo a Roma, nell’Ottocento, fu il primo volo in mongolfiera, che si levò proprio da piazza di Siena.
Il protagonista fu il francese François (o Francisque) Arban, nato a Lione nel 1815, pio niere dell’aviazione che aveva iniziato a dedicarsi alla mon golfiera nel 1832. Qualche anno più tardi, Arban venne a Roma, invitato dai Borghese. Ospite della villa, annunciò che avrebbe ten tato un’esibizione sui cieli della capitale. Dopo due mesi di permanenza romana e di preparazione, finalmente, alle tre e mezzo del pomeriggio del 14 aprile del 1846 Arban salì a bordo del suo pallone, davanti a una folla straboccante assiepata sulle tribune di piazza di Siena, che cominciò ad applaudirlo mentre compiva un primo giro a pochi metri d’altezza, ancora trattenuto da una corda di ancoraggio.
Qualche minuto dopo, sciolto l’ormeggio, al suono della banda militare e spinto dal vento di sud-est, Arban prese quota con l’aerostato sorvolando l’intera Villa Borghese. Seguendo la direzione del vento, come raccontano i cro nachisti dell’epoca, l’aviatore «sorpassò più volte i giri del Tevere, dirigendosi rapidamente verso i monti Sabini, po tendo però sempre scorgere da quel punto, la Villa [Borghese], le fabbriche e la maestosa cupola della città da cui pochi minuti prima si dipartiva».
Continuando l’avventura, Arban si trovò ben presto a quote altissime, al punto tale che cominciò ad avere problemi di respirazione, con il termometro che segnava un grado sopra lo zero. Rifocillatosi col vino che aveva a bordo e col cibo «di cui si era ugualmente munito», e verificata l’altezza ormai troppo elevata, aprì la valvola abbassando la mongolfiera di diverse centinaia di metri quando, dopo un’ora di viaggio, gli si aprì sotto gli occhi lo scenario del fiume Velino e poi della valle reatina, accorgendosi subito delle moltitudini di persone che lo indicavano e gli face vano cenno di avvicinarsi, abbassandosi ancora.
La popolazione reatina era entusiasta, seguiva il percorso a piedi, a cavallo o con vetture, e finalmente, nei pressi del lago di Piediluco, convinse Arban ad atterrare, visto anche che si profilavano, minacciose, le montagne degli Appennini.
Aveva viaggiato per cinquanta miglia (ottanta chilometri) quando gettò via gli ultimi sacchi di zavorra, lanciando a una trentina di persone che lo aspettavano le corde per l’ancoraggio. Particolare curioso, tra i primi che vennero ad aiutare Arban a scendere dall’aerostato ci fu un tipo che, dopo averlo abbracciato e baciato, chiese a bruciapelo al volatore, in italiano: «Mi dai tre numeri?». Ancora provato dall’impresa e ostacolato dal non sapere la lingua, Arban capì soltanto in un secondo momento che quello gli chiedeva con insistenza tre numeri per giocare al Lotto.
Arban, insomma, era visto come una specie di mago, al quale non dovevano mancare nemmeno capacità divinatorie e – immaginiamo più che altro per togliersi il fastidio di torno – con il lapis scrisse alcuni numeri a casaccio che furono ricevuti dal “villico reatino” come un prezioso tesoro. Invitato a riposarsi dopo l’impresa nella casa di un notabile del luogo, alle tre del mattino seguente Arban prese la diligenza che doveva riportarlo a Roma, dove giunse alle tre del pomeriggio, subito accolto dal principe Borghese, grato per l’impresa che aveva appena compiuto.
La popolarità di Arban dopo quel primo viaggio aumentò a dismisura, al punto che in diverse altre città italiane furono organizzate sue esibizioni a bordo della mongolfiera. La sua carriera di aviatore però si infranse presto in circostanze tragiche: tre anni dopo, preso il volo da Barcellona per un’esibizione, con l’intenzione di superare i Pirenei e arrivare fino a Lione, Arban non riuscì a portare a compimento l’impresa. La forza dei venti sospinse infatti l’aero stato verso il largo del mar Mediterraneo, dove scomparve nel nulla. I suoi resti e quelli del velivolo non furono mai più ritrovati, dando adito alle più diverse leggende, tra cui quella secondo cui la sua mongolfiera, arrivata addirittura fino in Africa, aveva consegnato l’aviatore agli indigeni che lo avevano fatto prigioniero e ucciso.
Estratto da: Fabrizio Falconi, Storie incredibili di Roma che non ti hanno mai raccontato, Newton Compton Editore, 2024
Non è dato sapere se sia realmente accaduto o se si tratti di una leggenda, ma sta di fatto che gli studiosi hanno preso in considerazione la questione e alcuni sono andati alla ricerca di riferimenti astronomici che potrebbero giustificare la famosa visione che apparve all’imperatore Costantino 1700 anni fa, il 27 ottobre del 312, alla vigilia della battaglia di Ponte Milvio combattuta in località Saxa Rubra e nel corso della quale venne sconfitto Massenzio.
Secondo Lattanzio (250-327) la visione sarebbe avvenuta in sogno, mentre Eusebio di Cesarea (265-340) scrive che la croce luminosa sarebbe apparsa in pieno pomeriggio e fu osservata anche da tutti i soldati. Sulla croce campeggiava la scritta «Toutô nika», che più tardi Rufino tradusse Hoc signo victor eris» e che la tradizione trasformò nel più noto «In hoc signo vinces».
Tutti invece concordano sul fatto che Costantino, dopo la visione, fece incidere sui labari dei soldati la lettera greca «chi», il simbolo del Dio cristiano. Già Filostorgio (368-439) aveva proposto una interpretazione astronomica del «segno celeste» e in tempi più recenti Fritz Heiland del Planetario di Jena ha avanzato l’ipotesi che la visione potesse essere interpretata come una congiunzione planetaria. A differenza delle stelle, che vengono chiamate "fisse" perché su intervalli temporali abbastanza lunghi mantengono inalterate le loro reciproche posizioni, i pianeti non hanno posizioni immobili e in effetti il termine "pianeta" deriva da un termine greco che significa «astro errante».
Heiland, dunque, dopo aver ricostruito il cielo del 312 notò che nell’autunno di quell’anno Giove, Saturno e Marte, tre pianeti molto luminosi, si trovavano vicini e allineati fra le costellazioni del Capricorno e del Sagittario.
La configurazione planetaria insolita poteva essere interpretata dai soldati come un cattivo presagio e Costantino avrebbe addirittura inventato la storia della visione per trasformare il presagio in un segno di buon auspicio. Subito dopo il tramonto, inoltre, in mezzo alla volta celeste campeggiava il Cigno, una costellazione a forma di croce, tant’è che viene chiamata dagli astronomi la «Croce del Nord».
Una stella laterale, poi, le conferiva l’aspetto di uno «staurogramma», dove con questo termine si definisce il monogramma che si ottiene sovrapponendo le due lettere greche maiuscole tau (T) e rho (P).
Sotto il Cigno, inoltre, si trova la costellazione dell’Aquila, simbolo di Roma e dei suoi eserciti, e anche questa circostanza contribuì a rafforzare i significati simbolici della visione.
Interessante a questo proposito è l’affresco di Piero della Francesca nella basilica di San Francesco di Arezzo intitolato «Il sogno di Costantino» nel quale l’artista, come ricordano Bruno Carboniero e Fabrizio Falconi nel volume In hoc signo vinces (Edizioni Mediterranee), riproduce il cielo stellato relativo all’evento e un angelo dall’aspetto di cigno che porge una croce all’imperatore.
Va anche sottolineato che la posizione dell’angelo nell’affresco non è casuale, ma rispecchierebbe la posizione realmente occupata nel cielo dalla costellazione del Cigno.
Un altro segno della visione di Costantino si può ammirare all’interno del battistero paleocristiano di San Giovanni in Fonte di Napoli, fatto erigere dallo stesso imperatore. Sulla cupola, infatti, spicca un bellissimo mosaico che raffigura un grande staurogramma a ricordo della visione di Costantino. Legato a Costantino è anche il casale di Malborghetto, continua a leggere qui.
Tratto da Fabrizio Falconi - Le Basiliche di Roma - Newton Compton, Roma, 2022 - tutti i diritti riservati
La meravigliosa Basilica
a pochi passi dal Pantheon è uno dei casi in cui il nome dell’edificio
chiarisce da se stesso la sua origine, le sue fondamenta. La Chiesa di Santa Maria sopra Minerva è
una delle più straordinarie di Roma. Fondata nel secolo
VIII sui resti di un tempio di Minerva Calcidica e
rifatta in forme gotiche nel 1280, deve il suo fascino anche a questo: il
sorgere sullo stesso luogo esatto dell'antico Tempio di Iside al Campo Marzio
(o Iseo Campense o Iseum et Serapeum) che
i Romani avevano dedicato al culto delle due divinità orientali, Iside e
Serapide e che nel corso dei secoli, dopo la caduta dell’impero, ha restituito
preziosissimi reperti, in gran provenienti dall'Egitto e trasportati a Roma
dopo che quella provincia fu acquisita da Augusto dopo la morte di Cleopatra
imperatrice. Non solo: nella stessa zona dell’Iseo Campense,
sorgeva anche il Tempio di Minerva Chalcidica, costruita dall’imperatore
Domiziano, l’ultimo della dinastia Flavia, alla fine del I secolo d.C.
L’appellativo di Chalcidica significava letteralmente “guardiana” o
“portiera” e si riferiva al fatto che il tempio in onore della dea (chiamato
anche in seguito Minerveum), era
stato costruito proprio di fronte al Porticus Divorum, la grande area
porticata voluta dallo stesso Domiziano, dedicata al padre Vespasiano e al
fratello Tito.
L’esistenza di una chiesa
cristiana, edificata sopra i resti di questi edifici è testimoniata già nel 700
d.C. ed era stata affidata alle suore basiliane provenienti da Costantinopoli, ma
fu rifatta completamente in forme gotiche intorno al 1280 da architetti toscani,
quando il possesso dell’oratorio era passato nelle meni dei frati domenicani. È
dunque particolarmente importante in una città come Roma dove sono piuttosto
rari gli esempi del puro gotico.
Modificata poi con vari interventi
nei secoli scorsi, la basilica è una delle più importanti di Roma per i tesori
d'arte che contiene e per contenere le tombe della Santa patrona d’Italia,
di quattro pontefici e di innumerevoli altre personalità.
La splendida facciata – quasi
minimalista – della chiesa, fu dovuta al conte Francesco Orsini che ne finanziò
la costruzione nel 1453. Sopraggiunti problemi economici però, evidentemente,
ne bloccarono il completamento ed essa rimase incompiuta fino al 1725, fino a
quando non intervenne papa Benedetto XIII. La facciata resta ancora oggi
semplicissima, nuda e disadorna abbellita però da due portali rinascimentali (i
laterali) e uno ottecentesco (il centrale), sovrastati da tre rosoni. La
facciata, nitida e bianca fa da sfondo alla piazza antistante, al centro della
quale si erge il celebre Elefantino (o Pulcino) della Minerva, opera
dello scultore Ercole Ferrata su progetto del Bernini, che sorregge uno dei
tredici, vetusti obelischi originali egizi romani, il più piccolo di tutti
(proveniente proprio dall’Iseum et Serapeum).
L’interno della basilica è imponente, a tre navate, separate da massicci pilastri e offre al visitatore il colpo d’occhio di uno sterminato cielo stellato che fa pensare ai simili soffitti medievali a crociera della Basilica superiore di San Francesco ad Assisi, o del duomo di Siena o di San Gimignano, ma invece è di fattura moderna: risale infatti al XIX secolo, quando si scelse una decorazione più in linea con le linee gotiche antiche dell’edificio. Nel pavimento sono invece incastonate moltissime e importanti iscrizioni e sepolture. Nelle due navate laterali si aprono invece diverse cappelle che contengono numerosi tesori. Cominciando dalla navata di destra, nel primo pilastro si ammira la tomba e il busto di Antonio Castalio, una delle più belle sculture del rinascimento romano. Più avanti, nella quinta cappella, la tomba seicentesca firmata dal Maderno, di Papa Urbano VII, il pontefice che detiene il record di minor durata del pontificato: soltanto tredici giorni in tutto, dal 15 al 27 settembre del 1590. Subito dopo la sua elezione, infatti, il papa fu colto da violente febbri malariche, che ne impedirono anche la cerimonia di incoronazione. Venne sepolto in San Pietro, ma fu poi trasferito qui per la sua generosità nei confronti della Arciconfraternita dell’Annunziata che si dedicava all’assistenza delle zitelle bisognose e che aveva sede vicino a Santa Maria sopra Minerva. Sull’altare di questa cappella, una bellissima Annunciazione di Antoniazzo Romano, del 1460. Nella settima cappella, un affresco di Melozzo da Forlì – Cristo giudice tra due angeli - che adorna una delle tombe rinascimentali.
Nella navata di sinistra, invece,
la terza cappella conserva un piccolo olio su tavola, che dopo una
dubbia attribuzione al Pinturicchio, è oggi unanimemente considerato opera
di Pietro di Cristoforo Vannucci, più famoso con il nome di Perugino
(1448-1523), il maestro di Raffaello. Perugino (o allievi della sua
stretta scuola) lo realizzò negli anni successivi al 1479, quando fu
chiamato da Papa Sisto IV per decorare l'abside della Cappella della Concezione
nel coro della Basilica Vaticana. È un ritratto, quello del Salvatore del
Perugino, estremamente affascinante. Per l'uso dei colori (il verde
intenso del mantello sul rosso pompeiano della tunica), per l'effige del
volto, in espressione dolcissima, con il capo debolmente reclinato sulla
destra, il viso incorniciato dai capelli castani, le guance rosee, lo sguardo
penetrante. Perugino usò la tecnica dello sguardo animato (comune
ad altri celebri ritratti rinascimentali, tra cui La Gioconda):
grazie ad un sapiente uso della prospettiva, lo sguardo del Cristo, infatti,
sembra seguire quello dell'osservatore. Lo si sperimenta davanti al
dipinto, spostandosi lentamente da destra verso sinistra e al contrario: lo
sguardo del Cristo sembra continuare ad osservare direttamente negli occhi,
colui che guarda.
Passando ora al transetto, alla fine
della navata di destra, eccoci davanti alla meravigliosa Cappella Carafa, uno
dei capolavori assoluti del Quattrocento, con gli straordinari affreschi di Filippino
Lippi, su commissione del cardinale Oliviero Carafa. Nelle quattro vele della
volta, sono rappresentate quattro Sibille. Lo stemma al centro è quello della
famiglia Carafa. La parete centrale inserisce all’interno della scena dell’Annunciazione
la figura di san Tommaso che presenta
alla Vergine Maria il cardinale Carafa,
inginocchiato. Nella parte alta c’è l’Assunzione della Vergine e una corona di angeli
che le danzano intorno, ciascuno con in mano uno strumento musicale diverso, un
vero e proprio inventario di strumenti musicali dell’epoca. Nella parete destra,
scene della vita di san Tommaso, mentre sulla lunetta,
verso sinistra è raffigurato il miracolo del Crocifisso che parlando al Santo
gli dice: “hai scritto bene di me Tommaso, che ricompensa vuoi?”. E sembra lui
abbia risposto: “Nient’altro che te Signore”. In basso, è
raffigurato invece il Santo in cattedra che tiene in mano un libro con la
scritta: "Sapientiam sapientum perdam", che significa
"Distruggerò la sapienza del sapiente", frase tratta dagli scritti di
san Paolo. Davanti a lui una figura con un volto inquietante, raffigurante il
peccato con un cartiglio che dice "Sapientia vincit malitiam",
"La sapienza vince la malizia”, chiara allusione alla spiritualità
domenicana da sempre caratterizzata da una ricerca della Verità e una lotta al
vizio e all’errore. Tommaso è circondato da quattro figure femminili che
rappresentano la filosofia, la teologia, la dialettica e la grammatica. I molti
personaggi in primo piano sono per lo più eretici (identificati anche da
iscrizioni dorate sui loro indumenti), tra cui il profeta persiano Mani,
fondatore del manicheismo , con un dito sulle
labbra, Eutiche con un orecchino di
perla, Sabellio, Ario e altri. I libri per
terra sono quelli eretici, che stanno per essere bruciati. All’interno della
Cappella anche la grande tomba di papa Paolo IV Carafa, opera di Pirro Ligorio.
Proseguendo a sinistra del presbiterio, una statua molto particolare:
pochi sanno infatti che la basilica di Santa Maria sopra Minerva, oltre ai
molti tesori custodisce anche un’opera di Michelangelo, il Cristo Portacroce,
che fu realizzata tra il 1519 e il 1520 con l’intervento di allievi del
maestro. Originariamente il Cristo era interamente nudo, cosa che ovviamente urtò
la suscettibilità di qualche notabile o cardinale, che ordinò di ricoprirne i
fianchi con una fascia di bronzo dorato. Con lo stesso metallo fu realizzata
anche una calzatura per il piede destro, sporgente, proprio per prevenirne la
consunzione ad opera dei fedeli, come è avvenuto per il piede della statua
dell’Apostolo, in San Pietro.
Al di sotto dell’altare maggiore, realizzato in stile neogotico,
riposano i resti del corpo di Santa Caterina da Siena, contenuti in un
sarcofago del Quattrocento. La Santa, patrona d’Italia e compatrona d’Europa
morì a Roma il 29 aprile del 1380 e fu sepolta nel cimitero di Santa Maria
sopra Minerva. Il teschio e un dito sono invece conservati e venerati nella
basilica di San Domenico, a Siena, città di nascita della Santa. Il sarcofago,
che si vede attraverso i vetri, sotto l’altare è assai suggestivo, perché
raffigura la santa, giacente.
L’abside della Basilica conserva poi le tombe di due papi, opere
di Antonio da Sangallo il giovane: Clemente VII e Leone X, entrambi
appartenenti alla famiglia dei Medici. Sempre nel transetto sinistro, nel
passaggio che viene comunemente usato per l’uscita secondaria dall’edificio,
un’altra importante sepoltura: quella del Beato Angelico, al secolo Guido di
Pietro. Il sommo pittore morì a Roma il 18 febbraio del 1455 e fu qui
sepolto. La lapide interrata mostra il
rilievo del corpo del pittore con indosso l’abito domenicano, entro una
nicchia rinascimentale e una iscrizione che recita: “Qui giace il venerabile
pittore Fra Giovanni dell'Ordine dei Predicatori. Che io non sia lodato
perché sembrai un altro Apelle, ma perché detti tutte le mie ricchezze, o Cristo, a te. Per
alcuni le opere sopravvivono sulla terra, per altri in cielo. la città di
Firenze dette a me, Giovanni, i natali.” |
Tornando a Santa Caterina, nella
sagrestia della Basilica si venera il piccolo Oratorio di Santa Caterina, con
la camera dove morì la Santa, ornata da affreschi del Quattrocento. Tra le
molte altre sepolture, nella Basilica, ricordiamo quelle di altri due papi,
oltre ai tre già citati: Urbano VII (morto nel 1590) e Benedetto XIII (1730); quella
del poeta, umanista e cardinale Pietro Bembo, del vescovo Guglielmo Durand e dello
scultore Andrea Bregno. Tra le molte vicende storiche di cui la Basilica fu
testimone, vanno annoverati anche due conclavi, da cui uscirono eletti Eugenio
IV nel 1431 e Nicolò V nel 1455. Quest’ultimo, come raccontano le cronache
dell’epoca, “fu posto a sedere sopra l’altare maggiore della chiesa e vi
ricevette l’obbedienza.”
La Basilica, ogni 25 marzo
ospitava la caratteristica cerimonia in occasione della festività
dell’Annunziata, alla presenza del papa: si trattava dell’elargizione dei
sussidi dotali alle zitelle che venivano prescelte tra tutti i rioni della
città e che si riunivano nella piazza Santa Chiara, dov’era la sede della
Arciconfraternita dell’Annunziata, fondata nel 1460. Da qui, le donne, a due a
due, vestite di bianco (dovevano essere vergini e di buona reputazione) e con
una candela in mano, procedevano in processione fino a Santa Maria sopra
Minerva per assistere alla messa solenne, al termine della quale, ricevevano
dalle mani del papa un sacchetto contenente la dote che variava da un minimo di
trentacinque a un massimo di ottanta scudi, oltre alle vesti e a un fiorino per
le scarpe.
Tratto da Fabrizio Falconi - Le Basiliche di Roma - Newton Compton, Roma, 2022 - tutti i diritti riservati
Il corso/seminario da tenersi da ottobre 2023 a maggio 2024 affronterà in percorsi di circa due ore ciascuno, le tappe significative della storia trimillenaria di Roma mediante l’attraversamento dei luoghi conosciuti e meno conosciuti e degli aneddoti, curiosità, letture, citazioni, ecc.. con l’uso di slides e il coinvolgimento totale dei partecipanti, alla conoscenza dei molti segreti e misteri della Città Eterna.
In ogni incontro la Passeggiata virtuale consentirà di conoscere meglio i luoghi, la storia le infinite curiosità su Roma, come di solito non si vedono mai.
MERCOLEDI' 1 ottobre 2023 Ore 11:00
Un viaggio avventuroso nella storia bimillenaria delle meravigliose Basiliche di Roma. Dalle Basiliche antiche del Foro Romano, ancora superstiti, alle quattro patriarcali, alle tre minori, alle oltre venti paleocristiane, piene di storia.
Questo è Le Basiliche di Roma di Fabrizio Falconi, appena uscito in tutte le librerie.
E ordinabile su Amazon e su tutte le librerie online.
Del Libro e delle Basiliche di Roma ho parlato nella intervista a Alessandra Rauti di Radio Rai nella intervista andata in onda a Incontri d'Autore su RadioUno domenica 23 gennaio 2023.
Dalle costruzioni pagane e paleocristiane fino a San Pietro e San Giovanni in Laterano
La storia bimillenaria di Roma è indissolubilmente legata a quella delle numerose basiliche che punteggiano la città. Che si tratti delle grandi chiese della cristianità o degli edifici pubblici pagani superstiti, questi luoghi sono diventati iconici della grandezza di Roma, e non mancano mai di stupire e affascinare i milioni di turisti che visitano la Città Eterna. In questo prezioso libro, Fabrizio Falconi illustra la nascita e il significato originale delle basiliche, per poi condurre il lettore in un percorso che tocca tutte quelle presenti nell’Urbe. Si raccontano aneddoti e curiosità sulla costruzione e la storia di questi magnifici luoghi, spaziando dalle quattro basiliche apostoliche ai ruderi di quelle di Roma antica, fino ad arrivare alle basiliche minori e a numerose chiese di fondazione paleocristiana. Da San Pietro in Vaticano alla Ulpia, da San Giovanni in Laterano a Santa Croce in Gerusalemme fino a Santa Cecilia in Trastevere e San Martino ai Monti: uno straordinario viaggio all’interno della storia della Capitale.
La storia di intere generazioni racchiusa in monumenti eterni
La basilica di San Paolo fuori le mura
Santa Maria Maggiore
Santa Croce in Gerusalemme
San Sebastiano fuori le mura
San Lorenzo fuori le mura
Santa Prassede
Santa Maria degli Angeli e dei Martiri
Santi Dodici Apostoli
Santa Maria sopra Minerva
Santa Maria in Domnica
San Clemente
e tante altre...
Non è celebrata come la sorella consolare Appia Antica, che per una lunghezza di quasi dodici chilometri di percorso cittadino (entro il Raccordo Anulare) ha mantenuto lo stesso aspetto che aveva duemila anni fa, ma anche la Via Aurelia è capace oggi di stupire il visitatore.
Del resto questa consolare fu una
delle primissime costruite a Roma, esattamente nella metà del III secolo a.C. e
come le altre prese il nome del suo costruttore, Gaio Aurelio Cotta. Aveva lo
scopo di collegare l’Urbe a Cerveteri, l’antica Caere Vetus, etrusca, la cui fondazione sembra risalire addirittura
al XII secolo a.C.
L’Aurelia Vetus – questo
primo tratto – fu poi prolungato fino alla colonia di Pyrgi, alle pendici del
Monte della Tolfa, e poi sempre più su fino a Cosa – la colonia che si trovava
sul promontorio di Ansedonia – a Populonia, Vada (oggi in provincia di Livorno,
che sorgeva al duecentottantasettesimo chilometro della Via), Pisa, Luna,
Genova e Sabatia, cioè fino al confine naturale delle Alpi liguri, al confine
con la Francia odierna, scavalcando con la geniale ingegneria romana, zone
paludose (come quella nel Versiliese) e popolazioni ostili che si incontravano
durante la costruzione (come i temibili Apuani).
Una costruzione che durò per tre
secoli e che fu completata nel 13 a.C. sotto Augusto, con la via Julia Augusta
che celebrò il consolidamento delle conquiste del nord e la sottomissione delle
popolazioni alpine.
Ma a noi interessa qui il circuito
cittadino della Via consolare, che prende origine dalla Porta San Pancrazio,
anche se anticamente la Via partiva proprio dal Campidoglio, come tutte le
altre consolari, nella computazione chilometrica (e come del resto avviene
anche oggi), scavalcando il Tevere attraverso il cosiddetto Ponte Rotto, i cui
resti monumentali sono ancora oggi visibili a valle dell’Isola Tiberina, opera
del console Manlio Emilio Lepido e costruito negli stessi anni della Via
Aurelia, intorno al 241 a.C.
La Via Aurelia poi, si inerpicava
sul colle del Gianicolo, attraversava le campagne oggi occupate dalla Villa
Doria-Pamphilj ( attraverso un sentiero laterale si accedeva al Casale di
Giovio) per spingersi poi sempre più a nord, a una distanza più o meno regolare
dal litorale.
Al giorno d’oggi, l’Aurelia antica, nel suo tracciato,
rimasto lo stesso da secoli, separa con esattezza il confine tra il quartiere
Aurelio e il quartiere Gianicolense, fino all’altezza della via Bravetta.
E proprio lungo questo itinerario
c’è una vecchia consolidata leggenda romana, secondo cui una carrozza trainata
da cavalli con occhi di fuoco e con a bordo il fantasma di donna Olimpia (la
celebre cognata di papa Innocenzo X Pamphilj) partiva a tutta velocità dalla
villa della famiglia, in direzione del centro di Roma, lungo la Via Aurelia
Antica, attraversava come un fulmine Ponte Sisto per tornare poi nuovamente a
sparire all’interno della stessa villa percorrendo obbligatoriamente la via
Tiradiavoli, una strada ricordata fino a tutto il 1914 nella toponomastica
romana (e dall’origine piuttosto eloquente), poi incorporata anch’essa
nell’Aurelia Antica.
Come nacque la leggenda è opportuno
brevemente narrare.
A Donna Olimpia Maldaichini, che il
popolo dell’Urbe chiamava, a metà tra il familiare e lo sprezzante, la pimpaccia, il nomignolo che alla temuta
dama aveva affibbiato l’irriverente Pasquino, sono ancora oggi intitolate a
Roma una importante via e una piazza.
La gente di Roma la chiamava anche Papessa, per le sue frequentazioni importanti
oltretevere e la sua parentela acquisita con il Papa, e per le stesse ragioni: il
Cardinal padrone.
Quello invece di pimpaccia derivava dalla geniale scritta
che giocando sulla separazione delle lettere del suo nome, apparve un giorno affissa
sulla più celebre statua parlante di Roma, Pasquino: « Olim pia, nunc impia », che tradotto dal latino si leggeva: olim (una volta) pia (religiosa), nunc adesso) impia (peccatrice).
Nata a Viterbo nel 1592 da una
famiglia modesta, Olimpia Maidalchini aveva sposato in seconde nozze Pamfilio amphilj, fratello di quel cardinale, Giovanni Battista
Pamphilj, che pochi anni dopo sarebbe diventato papa con il nome di
Innocenzo X.
Grazie alla sua sottile
intelligenza e alle sue arti politiche, Olimpia divenne con gli anni la consigliera molto influente del papa, ed
in poco tempo la donna più potente e temuta di Roma, al punto che alla sua
morte lasciò l’incredibile somma di due milioni di scudi d’oro,
contribuendo in questo modo a consolidare la fortuna dei Pamphilj.
Innocenzo X, avvalendosi dell’opera
dei più geniali architetti e artisti dell’epoca – in primis Bernini e Borromini – cambiò il volto alla città, risistemando
Piazza Navona, la Basilica di San Giovanni in Laterano, edificando la sontuosa Villa Pamphilj,
organizzando una celebrazione sfarzosa, destinata a rimanere negli annali,
dell’Anno Santo del 1650, il tutto con la stretta collaborazione della cognata.
Dopo la morte di Panfilio, il
fratello del futuro papa, che aveva sposato in seconde nozze e che era più
vecchio di lei di trent’anni, infatti Olimpia si era ritrovata nel 1639 libera dall’assolvere i doveri
coniugali, e soprattutto libera di dedicarsi completamente al cognato,
alimentando in tal modo le dicerie e i veleni (generati in gran parte proprio
dalle pasquinate) secondo le quali i due erano stati amanti, ed
era stata la stessa Olimpia a provocare la morte del marito, somministrandogli
nel sonno un potente veleno.
Cinque anni dopo, l’ascesa di
Giovanni Battista Pamphilj, si completò con la sua elezione a papa: era il
trionfo per Donna Olimpia: ad essa, il
cognato consegnò un potere immenso. Non v’era praticamente affare
importante che a Roma potesse essere
deciso senza averla prima consultata, non v’era la possibilità di essere
ricevuti in udienza privata dal pontefice, senza prima passare dal suo
avallo. Al figlio della nobildonna,
Camillo, fu inoltre concesso l’onore di diventare dapprima capo della flotta e
delle forze dell’Ordine della Chiesa, e poi di divenire a sua volta Cardinale,
ricevendo la porpora nel concistoro del 1644 direttamente dalle mani dello zio
paterno.
Questo potere smisurato attirò però
su Olimpia, inevitabilmente, l’odio feroce di molti avversari, con la
proliferazione di rumorosi scandali, che
ne aumentarono la fama controversa.
Un ultimo
episodio infamante fu attribuito ad Olimpia nella occasione della morte di
Innocenzo X, che morì il 7 gennaio del
1655 – alla bella età di 81 anni: sembra proprio che, con il cadavere ancora
caldo del Pontefice, Olimpia non si
fece problemi a cavare, dal di sotto del suo letto, due casse piene d’oro, e al contempo, professandosi ‘una povera vedova’, a esimersi dal fargli
fabbricare una cassa da morto. Non solo, l’ingrata cognata non volle saper
nulla, né di esequie, né di sepoltura o
dei convenzionali, lussuosi abiti da lutto che si imponevano al pontefice
morto: con il risultato che la salma di
Innocenzo fu abbandonata per tre giorni in una segreta del Vaticano, dove venne
vegliato da tre operai i quali si incaricarono quanto meno di proteggere il
cadavere dall’insidia dei topi. Sembra incredibile, ma anche la poverissima
bara e le esequie furono poi pagate da due generosi maggiordomi (uno dei quali fra l’altro era
stato da lui perfino malamente licenziato), nella indifferenza totale
dell’austera Olimpia.
Ritiratasi a vivere nelle sue sconfinate tenute di San Martino al
Cimino, nel viterbese, Olimpia
sopravvisse due anni, prima di morire.
Ma anche dopo la morte la leggenda nera intorno ad Olimpia continuò per
molti e molti anni. Basti pensare, come abbiamo detto, che soltanto nel 1914 fu
cancellata dagli stradari cittadini quella certa Via Tiradiavoli, nella quale
la tradizione popolare voleva che il carro fiammeggiante con a bordo il celebre
fantasma fosse bloccata, nelle notti di tempesta, dai demoni che volevano
portare con loro l’anima avida della signora.
Ma anche l’abolizione della Via e del suo lugubre nome, non ha
cancellato la memoria del curioso destino di Donna Olimpia e del suo inquieto,
esoterico andirivieni, lungo il tracciato della antica Via Aurelia.
Tratto da: Fabrizio Falconi, Misteri e Segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma, Newton Compton, 2013