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03/12/20

L'incredibile storia dei due fratellini salvati sull'ultima scialuppa del Titanic

 


Molto più commovente della storia d’amore raccontata nel film Titanic, questa è la straordinaria esperienza di due fratellini sopravvissuti al naufragio del transatlantico, conosciuti come gli “orfani del Titanic”, gli unici bambini che si siano salvati senza avere al fianco un genitore o un tutore.

Michel Navratil, un sarto di origine slovacca che viveva in Francia, si era imbarcato con i due figli Michel Marcel (12 giugno 1908-30 gennaio 2001) ed Edmond (1910-1953). 

I bambini erano stati sottratti alla custodia della madre, così l’uomo assunse il falso nome di Louis M. Hoffman, mentre i figli furono registrati come Lolo e Momon

Durante il viaggio, come passeggeri di 2° classe, papà Navratil fece credere di essere vedovo, dimostrandosi un genitore attento e amorevole. Dopo la collisione con l'iceberg, avvenuta alle ore 23.40 del 14 aprile 1912, l’ultima scialuppa di salvataggio ad essere calata fu la “D”, alle ore 2.05 delle notte. 

Mentre rimanevano ancora 1500 persone a bordo, solo 47 passeggeri, potevano sperare di salvarsi salendo sulla “D”. I marinai del Titanic fecero imbarcare solo donne e bambini, e Navratil, compiendo l’ultimo gesto d’amore per i suoi figli, riuscì a calarli nella scialuppa.

Michel, che all’epoca non aveva ancora quattro anni, in seguito raccontò che al momento del distacco il padre gli disse: “Figlio mio, quando vostra madre verrà a prendervi, come sicuramente farà, dille che l’ho amata veramente, e ancora la amo. Dille che mi aspettavo che lei ci raggiungesse, affinché noi tutti potessimo vivere felicemente insieme nella pace e nella libertà del Nuovo Mondo.”


31/07/20

Luoghi dell'Anima: Cabo Espichel, in Portogallo. Un posto e una storia bellissimi




        La storia della cristianità non è fatta solo di grandi templi, magnificenza, ori e porpora, ma anche – e soprattutto? – di luoghi umili, fuori dalle rotte, di pietre dimenticate, o mute, di storie minute sussurrate dal vento.
        Una di queste storie, una storia semplice, l’ho trovata molti anni fa, in Portogallo.
        Lisbona, all’epoca, era un cantiere sterminato, in vista dell’Esposizione Universale del 1998, che doveva cambiare la faccia a un paese rimasto ancorato alle struggenti malinconie della sua terra e della sua musica, anche dopo la fine della dittatura salazarista, la più lunga di tutto il Novecento in Europa.
        In quei giorni non c’era una sola parte di Lisbona immune dal frastuono delle ruspe. Una nuvola bianca di polvere, enorme, si levava al di sopra del Bairro Alto, della Baixa, dell’Alfama.
        Dalla terrazza dell’Elevador de Santa Justa, ardita costruzione del prediletto allievo di Eiffel, riuscivi a vedere i colpi inferti alla città, in ogni direzione, e il traffico impazzito, in coda sul Ponte 25 Aprile (l’unico mezzo per varcare l’estuario del Tago, prima della costruzione dell’immenso ponte Vasco de Gama, realizzato appunto per quella Esposizione Universale), sotto il sole cocente.
        Fu scelta obbligata lasciarsi alle spalle il prima possibile l’infernale caos, e fuggire verso sud, dove solerti depliants forniti dalla receptioniste dell’albergo di Lisbona, promettevano paesaggi deserti, spiagge selvagge, e invitanti degustazioni gastronomiche.
       Il Portogallo vive del suo mare.
       Nel bene o nel male, ne determina i destini. Il clima più piovoso d’Europa condiziona l’umore degli abitanti, lo spazio sconfinato che si spalanca dietro ogni curva di strada statale dirotta il pensiero su termini immateriali.
       Succede così anche quando si imbocca, in macchina, l’autostrada IP1, che arriva in poche ore fino alle coste dell’Algarve.
        Questa strada, appena oltrepassato l’enorme ponte sospeso sull’estuario del Tejo, com’è il nome del fiume in portoghese,  devìa leggermente verso destra, verso la costa atlantica, per poi dirigersi verso Setubàl.  A sud di Lisbona il litorale dapprima è sabbioso,  poi all’improvviso si ergono le rocce scoscese della Sierra de Arrabida, il promontorio che culmina nel Cabo Espichel,  secondo lembo più occidentale di tutto il continente europeo.
        Il primato in questo senso spetta infatti al Cabo da Roca (pochi chilometri a nord di Lisbona), quello che i romani chiamarono promontorium magnum,  leggendario punto di partenza   dei navigatori portoghesi, cantato da Camoes nelle Lusiadi.
            Onde a terra acaba/ e o mar comeca  Dove la terra finisce e il mare comincia.

            Ma se si immagina un Finisterre, il Cabo Espichel non ha eguali.  
            La strada si divide in due prima di Sesimbra, e punta dritto verso il margine del  promontorio.  Sembra non offrire alternative, giunti all’ennesima curva, di non poter far altro che terminare nel vuoto.
            Così è.



            La strada asfaltata si ferma qualche decina di metri prima di un antico, isolato complesso religiosa, diviene una lingua di sterrato che prosegue oltre e non si ferma fino all’ampia distesa di terra che un centimetro dopo precipita nell’oceano. Cabo Espichel è una specie di zoccolo di roccia, spianato, 180 metri a strapiombo sul mare.  Vi si arriva attratti dal magnete del grande Faro bianco, che svetta di lato, sulla scogliera. Poi, si entra, senza quasi accorgersi, in un lunghissimo recinto rettangolare. Sullo sfondo, la facciata della Chiesa di Nossa Senhora do Cabo, come viene comunemente chiamata dalla gente del posto, nonostante il nome esatto sia: Santuario de Nossa Senhora de Pedra Mua. Ai lati della Chiesa, in un perimetro perfettamente rettangolare, le due ante dell’Hospedarias, l’alloggio per i pellegrini, che cominciarono a visitare questo luogo, sempre più numerosi, a partire dal XII secolo.
            Prima di entrare in chiesa, oltrepassandola, si procede verso la scogliera, arrivando proprio sul punto più a strapiombo della costa.  I gabbiani, guinchos come li chiamano qui, disegnano rapide traiettorie nel vento forte. L’aria è tersa, l’orizzonte ampio, senza più ostacoli. Qui, come in tutto il Portogallo, è ancora viva la memoria dell'epopea del descumbrimiento, l'epoca delle navigazioni che portarono i malinconici e impavidi lusitani lungo le coste dell'Africa e nelle terre più remote del pianeta.  I vecchi della zona conoscono a memoria i racconti tramandati da intere generazioni,  di tempi dimenticati, quando i fari andavano ad olio di oliva, e qualche volta facevano cilecca: le navi nel mare, quand’era in tempesta, si illudevano, attratti come falene dalla luce di Espichel,  d’essere ormai in vista del porto di Lisbona, e finivano per schiantarsi contro la scogliera.
           Le sventure dei naviganti non finivano nemmeno con il naufragio, perché nascosti tra i rovi, sotto la pioggia, c’erano pirati ad  attendere i  superstiti, per ucciderli e saccheggiare il bottino.
            Approfittavano, gli assassini, di quegli unici sentieri che scendono ancora oggi stretti e serpeggianti sul fianco della scogliera, ma che è meglio conoscere bene prima di affrontarli, se non si vuol finire nel precipizio: dicono che questi sentieri siano stati tracciati centinaia di anni fa, dai pacifici pescatori che vivevano qui, prima ancora dei pirati,  e che benedivano ogni giorno questi fondali ricchi di pesci, soprattutto bacalao, e bodiao, e poi alghe, cucinate direttamente sul fuoco ed erano, sembra, gustosissime.
          Deve essere capitato ad uno di questi pescatori, un semplice umile pescatore tra tanti, in un mattino di luce, di scorgere all’improvviso, quella misteriosa visione, mentre risaliva dal suo scoglio. Fu un prodigio inspiegabile, la cui fama si diffuse come un lampo, in un’epoca in cui  il Portogallo era tornato ad essere cristiano. Nel 1064 Coimbra era stata riconquistata, strappata agli arabi,  dopo quasi quattro secoli. Diventava nuovamente capitale del Regno.
         Ed ecco che in questo villaggio sperduto, eremo estremo verso l’occidente, un pescatore scorge un segno:  Maria - Nossa Senhora per il popolo, per gli umili, le donne, i pescatori -  la madre di Gesù, appare a cavallo di una mula.
          Non esistono descrizioni ufficiali dell’evento: possiamo soltanto immaginarlo. Possiamo immaginare la diffidenza e lo spavento, gli sguardi sospetti, e la propagazione del racconto del pescatore. Che a quanto pare, non ebbe altri testimoni, oltre a lui. La convocazione da parte di qualche alto prelato, gli interrogatori, i tentativi di dissuasione, forse. L’ostinazione del pescatore.
          Il miracolo quotidiano del cristianesimo è anche questo:  che in un luogo così, la voce di un pescatore in un mattino assolato, diventi fede. Fede per tutti.
          Non sappiamo attraverso quali passaggi la tradizione orale si trasformò in convincimento e fede, e memoria di e per tutti.  Quel che sappiamo è che la leggenda, nel trascorrere delle generazioni, aggiungeva ogni volta nuovi particolari, come quello secondo cui la mula, la mula di Cabo Espichel, la mula di Maria, aveva lasciato perfino delle impronte, bene impresse in una pietra, sulla scogliera, pietra che naturalmente divenne oggetto di venerazione.
          E così, dopo  tre secoli, tre secoli durante i quali questa storia divenne il cemento di una intera popolazione,  nel 1410 si costruì il primo santuario, anzi più propriamente l’eremo, pensato espressamente per loro, i mareantes, la gente del mare, gli eterni protagonisti delle stagioni di Espichel. All’inizio doveva essere solo una piccola costruzione, minima come quella che adesso si ammira a circa 100 metri dalla Chiesa, e oggi è conosciuta come Ermida da Memória o anche  Capela da Memória, minuta cappella con cupola,  all’interno decorata con splendidi azulejos azzurri e bianchi. 
         E’ questo il luogo esatto in cui apparve la visione e in cui fu originariamente conservata l’immagine della Vergine, di origine misteriosa, che celebrava l’apparizione di Maria sulla Mula.
          Questa immagine era il lasciapassare per ogni impresa, per ogni avventura tra le onde, per ogni giornata di duro travaglio lontano da casa, consegnati mani e piedi al capriccio della sorte, e delle tempeste. Di tutto quel che l’uomo non può mai controllare, e lo aspetta nel buio della notte, nel vento improvviso, nella mareggiata che spezza la schiena,  e non perdona.  Dove oggi sorge la rozza croce di pietra, lì iniziava la lenta processione dei mareantes, verso l’immagine della Vergine.



I due lati porticati dell’Hospedarias , una volta occupati dagli alloggi per i pellegrini, oggi sono in abbandono, fatiscenti, chiusi.   Soltanto vicino alla Chiesa c’è una piccola bottega, che vende bevande fresche, e qualche vecchia cartolina. 
           Una vecchia contadina, che vende semplicemente le sue mercanzie dentro cassette di legno, ci guarda, spiega che ha imparato un po’ di italiano da un lontano parente, scappato al fascismo, e rimasto lì per cinque anni prima di riuscire a imbarcarsi per l’America.
           Lei si chiama Maria Dominga, ci dice, e quel nome le è stato imposto proprio in onore di Nossa Senhora. Per loro, per la gente di Espichel, Nossa Senhora è una persona, prima di tutto. Qualcuno a cui affidarsi, che capisce, che dà consigli. “Molte tragedie”, ci dice, parandosi gli occhi dal sole, con la mano rugosa dritta come un ventaglio, “sono state evitate da lei, è lei che ha detto a un uomo, prima della tempesta: non andare ! E lui non è partito. Si è salvato.”
            Davvero ?
            “Anche mio marito non è partito,” spiega seriamente con uno sguardo da bambina corrucciata in un volto di vecchia, “il giorno dopo c’era tempesta, una tempesta  grande, muito muito…. Grande   agita la mano, per far intendere che si tratta di qualcosa veramente memorabile.   “ E il mio marito fu livre de perigro , seguro.”
            E’ ancora vivo ?  No, risponde, non è più vivo, ma una malattia, sembrerebbe quasi voglia dire con quel ciondolare della testa, una giusta malattia – non l’ingiusta tempesta – lo ha portato via.
            Poi ci fa segno di seguirla. 
            Di nuovo attraversiamo il piazzale dietro la chiesa, sotto il sole.   Ci conduce, con andatura spedita, senza esitazioni, fino al punto di osservazione dove eravamo poco prima.
           Poi ci chiede di osservare una linea nella roccia della scogliera, verso sud, la dove le falesie sono altissime.   Effettivamente, guardando con attenzione, c’è una linea più scura, che attraversa diagonalmente la parete scoscesa, come la vena di una mano.
          “ La vedete ?  Quella fenda…si è formata quando…. È arrivato il grande tremor de terra ! ”
          So a cosa si riferisce, naturalmente.  So cosa intendono i portoghesi quando si parla di ‘grande tremor de terra’.   ‘Il’ terremoto,  quello vero, qui è stato uno soltanto, quello che nessuno – come idea - ha mai dimenticato, nessuno che viva qui.  Il terremoto del 1755.   Uno dei più spaventosi terremoti che abbiano mai scosso il suolo della terra, a memoria d’uomo.
          “ Quella fenda non esisteva, prima, “ disse la donna, “ a mio padre lo raccontò mio nonno, e a mio nonno, suo nonno..”
          Capimmo cosa sosteneva.  La crepa sulla scogliera, questo intendeva, si era formata quel giorno del 1755, e aveva rischiato di spaccare per sempre la montagna in due, portando in fondo all’Oceano il Cabo Espichel, con il suo santuario.  
           Oracao, pedido…”
           Erano state le preghiere, questo ci disse, a fermare la crepa nella montagna.  Il racconto dei nonni sosteneva che tutta la gente di Cabo Espichel, quando la terra aveva preso a tremare, come mai nella storia, e le onde si erano alzate fino a cento metri,  tutta la gente, si era chiusa dentro il Santuario a pregare.  E la sorte sembrava segnata, perché quella crepa sulla scogliera voleva soltanto dire che….
           Ma le preghiere a Nossa Senhora, furono ascoltate.
           Nossa Senhora non voleva questo. Voleva proteggere la gente di Cabo Espichel.
           La donna indicò ancora la riga scura sulla scogliera:
           “ Sì è fermata, da quel giorno ! Si è fermata lì. E non si è più mossa.  La fenda è ferma, da più di duecento anni ! “
         
           Quando tornammo a Lisbona, qualche giorno dopo, ripensai al grande terremoto del 1755, che in qualche modo i furori dei cantieri in corso evocavano con fumi e strepiti. La mattina del primo novembre di quell’anno, 1755, un sisma del nono grado della scala Richter rase al suolo questa città, causando quasi centomila morti.  Le scosse provocarono danni incalcolabili in tutto il Portogallo, perfino in zone lontanissime dalla  capitale, come la costa dell’Algarve, interessando 10 milioni di chilometri quadrati di territorio. Il terremoto fu avvertito in Olanda, nelle Antille, nelle Barbados, e i danni furono disastrosi perfino sulle coste del Marocco.  6 interminabili minuti di puro terrore. Il mare, a Lisbona – raccontarono i pochi superstiti – si ritirò del tutto, lasciando le barche in secca; dopo qualche minuto un’onda spaventosa si abbattè   su tutta la costa aggiungendo nuova devastazione, penetrando nell’entroterra, fino alle colline di Cintra.
           L’apocalisse, quel giorno, bussò alle porte di un paese sfortunato, lo lasciò in ginocchio, ancor più motivato nel suo ‘bisogno di sventure’.
           In tanta devastazione, Cabo Espichel, il fragile sperone di roccia, aveva resistito.  Il silenzio era salvo.  L’impronta prodigiosa della mula, era ancora al suo posto.  E la
semplice fede di  Maria Dominga si rinnovava ogni giorno nel simbolo della linea scura della fenda, che una misericordia non umana, aveva cristallizzato sul fianco della scogliera, per sempre.



Tratto da: Fabrizio Falconi, Dieci Luoghi dell'Anima, Cantagalli Editore, 2009 - Vedi il libro su Amazon clicca qui