31/03/22

La grande amicizia e stima tra Kundera e Fellini: due geni che (però) non si incontrarono mai

 

      

Un lungo viaggio alla scoperta di Milan Kundera, il geniale, timido e riservatissimo scrittore, poeta e drammaturgo ceco. A regalarci un ritratto inedito dell'autore de 'L'insostenibile leggerezza dell'essere' attraverso un'amicizia nata sotto il segno di Federico Fellini e' Stefano Godano in 'Kundera e Fellini. L'arte di non incontrarsi' che è in libreria per Rizzoli, con la prefazione di Vincenzo Mollica. 

Kundera considerava Fellini la vetta dell'arte della seconda meta' del Novecento e Fellini ricambiava definendolo il piu' grande scrittore contemporaneo: si scrivevano e si stimavano ma non si sono mai incontrati, racconta nel libro Godano, giornalista, per molti anni confidente e amico fedele di Fellini, studioso appassionato dei rapporti tra letteratura e cinema. 

Qualche anno dopo la morte di Fellini nel 1993, Godano e la moglie Daniela Barbiani, nipote e assistente del regista, incontrano Milan e Vera Kundera. E' il 2001 e nasce una straordinaria amicizia, fatta di incontri, lettere e lunghe telefonate, di ore e ore a chiacchierare a casa Kundera e nei ristoranti di Saint-Germain, a Parigi. 

Lo scrittore piu' inaccessibile e irraggiungibile si confida con l'autore sull'onda di una forte amicizia esaltata dalla passione per Federico Fellini e dalla ricerca dei punti di contatto creativi e immaginifici con il lavoro del grande regista. 

I romanzi di Kundera, la fuga dalla Cecoslovacchia, l'amore per la Francia e l'insofferenza per la gauche caviar, la passione per Venezia, Capri e Roma e i giudizi su alcuni grandi scrittori contemporanei vengono ripercorsi in un ritratto fedele dello scrittore, arricchito dai suoi disegni e da quelli di Fellini. 

Godano ha lavorato con Daniela Barbiani anche alla realizzazione del 'Dizionario intimo di Federico Fellini' (Piemme 2019), per il quale ha raccolto il testo inedito di Milan Kundera posto all'inizio del libro. 


29/03/22

Pochi lo sanno, ma sotto il Roseto comunale di Roma c'è il grande cimitero ebraico di Roma

 



Il Roseto comunale di Roma, noto per la bellezza e l’enorme varietà di specie che ospita – circa millecento tipi di rose diverse – sorge oggi sul declivio destro del Circo Massimo che sale verso l’Aventino, in un’area divisa in due da Via di Villa Murcia. E per una specie di scherzo del destino, in quest’area sorgeva nel III secolo avanti Cristo un tempio dedicato alla divinità di Flora, dea romana delle piante.

La collocazione attuale del Roseto però è piuttosto recente. Esattamente risale al 1950 quando il Comune di Roma decise di spostare in questo luogo il Roseto comunale che dal 1931 sorgeva invece poco lontano, sul Colle Oppio dove era stato realizzato su incarico del Governatore di Roma Francesco Boncompagni Ludovisi. 

La nuova sistemazione, nell’area attuale dell’Aventino ebbe una storia piuttosto travagliata a causa della particolarità di questa area. Chi oggi visita il Roseto comunale, infatti, non sa di trovarsi proprio sopra una enorme distesa (si calcola siano decine di migliaia) di antiche tombe.   Per l’esattezza tombe ebraiche. Le prime sepolture risalgono al 1645, quando venne istituito in quest’area un cimitero, il cosiddetto Ortaccio degli ebrei. Più anticamente, almeno dal Trecento, il cimitero ebraico di Roma si trovava all’interno della vecchia Porta Portese, nel rione Trastevere. Poi, quando furono costruite le nuove mura, nel 1587, il vecchio cimitero fu abbandonato e spostato proprio nell’area dell’Aventino.

Al primo terreno, concesso da papa Innocenzo X agli israeliti, presto seguirono, a causa del sovraffollamento, altri due lotti.  In questi tre spazi contigui, per circa 250 anni gli ebrei seppellirono i loro morti.

L’area dell’Aventino, però cominciò, in tempi più recenti a fare gola alle autorità comunali, per la sua vicinanza alla zona archeologica.  Falliti i primi tentativi di esproprio, per la opposizione della comunità israelitica, nel 1934, in pieno fascismo, tutta l’area fu definitivamente sottratta al cimitero, dopo un lungo e infruttuoso braccio di ferro da parte degli ebrei di Roma che cercarono protezione anche presso il rabbinato europeo.  Ma erano tempi molto difficili e anche da parte delle autorità religiose del continente arrivò il consiglio di cedere per evitare complicazioni ancor più pericolose.

Così il nuovo piano regolatore fascista ricoprì di terra una gran parte dell’antico cimitero per realizzarvi una nuova arteria di collegamento tra Via della Greca e Viale Aventino (l’attuale Via del Circo Massimo) per farvi sfilare gli atleti in ricordo della Marcia su Roma.

Del vecchio cimitero si salvarono circa ottomila sepolture che furono in gran fretta traslate al Verano.

I terreni dell’Aventino, quelli che non erano stato interessato dall’asfalto per la costruzione di Via del Circo Massimo divennero, durante i combattimenti della seconda guerra mondiale, orti di guerra.  E soltanto nel 1950 il comune decise di trasferirvi il Roseto comunale del Colle Oppio, che era stato distrutto dalle bombe.

La nuova sistemazione fu decisa con il consenso della Comunità ebraica ed il Comune, consapevole che il Roseto avrebbe fatto da copertura e da custodia a tombe e sepolture secolari, decise di rendere omaggio e ricordo della originaria funzione del luogo: così anche oggi si può osservare come i vialetti che dividono le aiuole nel settore delle collezioni delle specie pregiate, formino esattamente la trama visibile dall’alto, di una menorah, il celebre candelabro a sette braccio simbolo degli ebrei.

Ancora oggi, i kohanim, i sacerdoti ebrei, non possono calpestare quelle aiuole e quel giardino, per il divieto imposto dal capitolo XXI della Torah.

Tratto da: Fabrizio Falconi, Misteri e Segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma, Newton Compton, Roma, 2013


28/03/22

Il film definitivo sulla guerra: "Apocalypse Now" e i versi profetici di T. S. Eliot che Coppola utilizzò nel film

 


Se c'è un film che bisognerebbe riguardare oggi, mentre la guerra insensata e feroce infuria in Ucraina, dopo l'invasione russa, quello è Apocalypse Now, il capolavoro di Francis Ford Coppola (1979), che soprattutto nell'ultima mezz'ora, in cui giganteggia la figura di Marlon Brando nei panni del misterioso e terrorizzante colonnello Kurtz, ci si interroga sul senso profondo della guerra, di questa terribile contro-figurazione umana, che sembra inscritta nel nostro Dna e comunque inestirpabile. 

Coppola lo fa utilizzando, nelle sequenze precedenti la morte del colonnello Kurtz, i versi della poesia di T. S. Eliot " The Hollow Men" (Gli uomini vuoti, 1925). 

La poesia, quando fu pubblicata, era preceduta nelle edizioni a stampa dall'epigrafe che Eliot aveva tratto da Heart of Darkness (Cuore di Tenebra, 1899), il celebre racconto di Joseph Conrad e che recita "Mistah Kurtz - he dead", ovvero la frase pronunciata da un servitore nero che annuncia la morte di Kurtz (sarebbe "Il Signore Kurtz .. è morto"). 

Nella famosa sequenza finale del film, quella con Marlon Brando, avvolto nella penombra, si intravedono chiaramente anche le copertine di due libri aperti sulla scrivania di Kurtz, che sono esattamente From Ritual to Romance di Jessie Weston e The Golden Bough di Sir James Frazer, proprio i due libri che T. S. Eliot citò come le principali fonti e ispirazione per il suo celebre poema "The Waste Land" (La Terra Desolata, 1922). 

Anche in questo caso l'epigrafe originale di Eliot per "The Waste Land" è un passaggio da Heart of Darkness, che termina con le ultime parole di Kurtz descritte dal suo servitore:  " (Kurtz) ha vissuto di nuovo la sua vita in ogni dettaglio di desiderio, tentazione e resa durante quel momento supremo di completa conoscenza? Di sicuro a un certo punto iniziò a piangere in un sussurro in seguito a qualche immagine, a una visione,gridò due volte, un grido che non era altro che un respiro – "L'orrore! L'orrore!" 

Sono le parole pronunciate appunto da Marlon Brando nel celebre finale monologo: è l'orrore che Kurtz ha seminato, di cui è stato l'artefice implacabile e il fiero servitore, che si riduce in polvere nella consapevolezza di un fallimento estremo che conduce a una solitudine dannata e finale. 

Quando, nel film, Willard (Martin Sheen) viene presentato per la prima volta al personaggio di Dennis Hopper, il fotoreporter descrive il proprio valore in relazione a quello di Kurtz con una frase anch'essa tratta da un'altra famosissima poesia di Eliot,  "The Love Song of J. Alfred Prufrock" (Il canto d'amore di J. Alfred Prufrock, 1910/11): "I should have been a pair of ragged claws/Scuttling across the floors of silent seas", ovvero Avrei potuto essere un paio di ruvidi artigli Che corrono sul fondo di mari silenziosi" 

Inoltre, il personaggio di Dennis Hopper parafrasa i versi finali di "The Hollow Men", in uno dei dialoghi con Martin Sheen con queste parole: "This is the way the /expletive/ world ends! [...] Not with a bang, but with a whimper.", ovvero: E’ questo il modo in cui finisce il mondo/ Non già con uno schianto ma con un lamento."

La profezia di Eliot si adatta bene ad ogni guerra e anche alla guerra a cui stiamo assistendo.

Una volta, spiegando il significato di Apocalypse Now, Coppola, ha detto che il film può essere considerato contro la guerra, ma è ancora più contrario alla menzogna: "... il fatto che una cultura può mentire su ciò che sta realmente accadendo nella guerra, che le persone vengono brutalizzate, torturate , mutilato e ucciso, e in qualche modo presentare questo come morale è ciò che mi fa orrore e perpetua la possibilità di una guerra".

E anche queste, sono parole che oggi fanno riflettere.

Fabrizio Falconi - 2022 

27/03/22

La Poesia della Domenica: "Variazioni Belliche" di Amelia Rosselli






Contiamo infiniti cadaveri. Siamo l'ultima specie umana.
Siamo il cadavere che flotta putrefatto su della sua passione!
La calma non mi nutriva il solleone era il mio desiderio.
Il mio pio desiderio era di vincere la battaglia, il male,
la tristezza, le fandonie, l'incoscienza, la pluralità
dei mali le fandonie le incoscienze le somministrazioni
d'ogni male, d'ogni bene, d'ogni battaglia, d'ogni dovere
d'ogni fandonia: la crudeltà a parte il gioco riposto attraverso
il filtro dell'incoscienza. Amore amore che cadi e giaci
supino la tua stella è la mia dimora.

Caduta sulla linea di battaglia. La bontà era un ritornello
che non mi fregava ma ero fregata da essa! La linea della
demarcazione tra poveri e ricchi.


Amelia Rosselli 

26/03/22

Storia di un Matrimonio - un meraviglioso film da non perdere


Storia di un Matrimonio (Marriage Story) di Noah Baumbach è un meraviglioso film uscito soltanto per qualche settimana nelle sale nel 2019 e attualmente visibile su Netflix.

Baumbach ha realizzato una sorta di requiem per il matrimonio tra due creativi, il regista tetrale off Charlie, e l'attrice Nicole, sua musa e moglie. I due sono in crisi. La terapia non aiuta. La decisione di Nicole - che si sente schiacciata dalla personalità e dalla creatività del marito - di lasciare New York e trasferirsi insieme al figlio piccolo a Los Angeles, nella casa dove abitano la madre e la sorella, scatena il conflitto.
Ne nasce una quasi involontaria battaglia legale, perché Charlie non è in nessun modo disposto a trasferirsi sulla West Coast e nello stesso tempo pretende che il figlio divida il suo tempo tra New York e Los Angeles.
Scaturisce così un film a quadri assai doloroso, dove l'intelligenza e la sensibilità di due persone evolute si scontra con le tentazioni di distruggere con la guerra ciò che si è costruito.
Qualcuno ha accostato questo film a Kramer contro Kramer, ma è una vera eresia.
K. contro K. era un film totalmente hollywoodiano. Storia di un matrimonio ricorda invece, per lo stile con cui è girato, Cassavetes.
Un film e una scommessa simile può essere vinta solo se si dispone di due attori dalla capacità espressiva mostruosa come Scarlet Johansson e Adam Driver.
Con la camera sempre stretta intorno ai visi, a spalla, per lunghi monologhi e atroci litigi, la Johansson e Driver si superano in bravura.
Un film di rara intelligenza che apre il cuore e lo fa dolorare.
Alle due grandissime prove d'attore - la Johansson si cimenta in un monologo in piano sequenza che dura quasi 10 minuti, Driver, nella scena del furibondo litigio tira fuori ogni nervo espressivo dalla sua faccia estremamente mobile - si uniscono i "comprimari" Laura Dern (che per questo film ha vinto l'Oscar) e addirittura il grande Alan Alda, nei panni dei due avvocati.
Un vero spettacolo di film, non perdetelo.

Fabrizio Falconi

25/03/22

La famosissima (e commovente) foto di Falcone e Borsellino: chi l'ha scattata? E come nacque?

Falcone e Borsellino nella iconica foto scattata da Tony Gentile 

Anche se non ci vediamo più da qualche anno, conservo un ricordo di stima incondizionata per Tony Gentile, uno dei migliori fotoreporter italiani, in assoluto. 

Ho incrociato Tony per la prima volta molti anni fa nelle lunghe attese come cronista nelle aule dei processi più controversi che si sono tenuti in Italia. Ho apprezzato subito il suo sorriso, le sue parole parche, la pazienza, l'intelligenza che emanava e emana dal suo sguardo. Non eravamo propriamente amici, non avevamo questa confidenza, ma credo che ci stimassimo vicendevolmente e in quelle lunghe ore di attese, condividevamo opinioni, impressioni, idee. Mi sembrava che il suo cognome si adattasse magnificamente alla sua personalità. 

Tony, nato a Parlermo nel '64, ha un curriculum notevole: fotoreporter e giornalista iniziò a fotografare nel 1989 collaborando con l'Agenzia fotografica Sintesi grazie alla quale pubblicò i suoi reportage dalla Sicilia sui maggiori quotidiani e periodici italiani e stranieri. E in questi anni raccontò con le sue  immagini l'attacco stragista della mafia contro lo Stato, fotografando le stragi di Capaci e di via D'amelio.  Dal 2003 si trasferisce a Roma dove entra a far parte dell'Agenzia di stampa internazionale Reuters per la quale ha coperto, fino al 2019, storie di attualità, cronaca, costume e sport di interesse internazionale viaggiando tanto in giro per il mondo e fotografando alcuni degli eventi che sono rimasti nella memoria collettiva. 

Ma pochi sanno che Gentile è l'autore della fotografia dei magistrati Falcone e Borsellino che sorridono, diventata icona del riscatto di un popolo intero alla violenza della mafia. 

Qualche tempo fa, Gentile ha raccontato a Francesca Marani de Il Fotografo, quando e come nacque quella magica fotografia, che oggi è nel cuore di tutti gli italiani

«Il giorno in cui ho realizzato quello scatto» dice Tony Gentile, «non avrei certo potuto prevedere il percorso che l’immagine avrebbe fatto, la vita che avrebbe avuto, anche indipendentemente da me. Mi trovavo a un convegno al quale erano presenti i due giudici come relatori, dovevo coprire l’evento su commissione di un giornale locale. A un certo punto Falcone si avvicina a Borsellino, i due si dicono qualcosa e poi scoppiano in una risata fragorosa che richiama l’attenzione degli astanti. È una frazione di secondo, salto davanti a loro e colgo l’attimo. È solo dopo la strage di Capaci del 23 maggio che recupero lo scatto e lo invio a vari giornali che prontamente l’archiviano in un cassetto e dopo quella di via D’Amelio del 19 luglio, la foto è pubblicata sulle prime pagine di tanti quotidiani italiani. Da quel giorno, sarà stampata sulle magliette, appesa ai muri, conosciuta da tutti. E questo è senza dubbio il lato positivo: aver creato una fotografia che ha il tempo dell’eternità, un’immagine che i ragazzi possono osservare sui libri di storia, un simbolo positivo per le future generazioni» 

Tony all'epoca aveva solo 28 anni. 

Questa è la stampa dei provini di quel preziosissimo rullino, con le foto scattate quel giorno:

Borsellino

Nella medesima intervista a Il Fotografo, Tony Gentile ricorda i suoi anni giovani, le manifestazioni che frequentava assiduamente, che erano seguite da grandi fotografi come Letizia Battaglia e Franco Zecchin. 

Racconta anche il suo veloce apprendistato, quando fin da subito si trovò calato all’interno di un universo di grandi conflitti e cambiamenti politici che investivano, in quegli anni la città di Palermo. 

"L’idea di un giovane fotoreporter," dice, "solitamente, è quella di andare per il mondo, partire alla volta di un Paese lontano, ma io non avevo bisogno di andare da nessuna parte. La guerra era lì, di fronte a me. In casa, nella mia città. Essere un fotografo di cronaca in quegli anni in Sicilia significava scontrarsi inevitabilmente con i morti ammazzati per strada e doversi misurare con la documentazione di un fatto mafioso. Attendevo con ansia il momento in cui avrei dovuto fotografare un morto ammazzato perché non sapevo quale sarebbe stata la mia reazione. La mia memoria visiva tuttavia era già costellata di immagini di morte, ero cresciuto con quelle fotografie stampate sui giornali. Quando poi è successo sul serio, quando sono stato chiamato a fotografare il mio primo omicidio, nel maggio del 1990, la macchina fotografica, come spesso accade, ha fatto da filtro e, nonostante l’impressione iniziale, sono riuscito a portare a termine il mio compito. In fondo, un po’ cinicamente, ti concentri solo sul lavoro: portare a casa una buona fotografia. Forse, è un bene perché così non hai il tempo per lasciarti coinvolgere emotivamente". 

Quel che è certo è che oggi, certamente non solo e non soltanto per la famosa foto a Falcone e Borsellino, Tony Gentile è uno dei migliori fotoreporter, uno di quelli che hanno fatto - consumando la suola delle scarpe e a prezzo delle cicatrici sul proprio cuore - la storia degli ultimi decenni in questo paese. 

Tony Gentile davanti a una foto di Giovanni Falcone

Fabrizio Falconi - 2022 

22/03/22

The White Lotus, la bellissima e feroce nuova serie HBO che racconta cosa è diventato l'occidente

 


The White Lotus è una ferocissima, splendida serie (2021), una delle migliori dell'anno, che non smentisce la qualità del marchio HBO, ormai una garanzia assoluta. 

L'ha scritta il geniaccio Mike White immaginando e descrivendo una settimana in un prestigioso resort hawaiano chiamato appunto "The White Lotus". Protagonista è il concierge Armond (uno stupefacente Murray Bartlett) che deve vedersela con clienti ricchi sfondati e pazzoidi (una coppia in luna di miele, una famiglia disfunzionale, una attempata signora depressa venuta a disperdere le ceneri della madre). 

Siamo dalle parti dei Coen (e di Fargo, in particolare), in quanto a toni e atmosfere: domina il grottesco, la satira tagliente, ma si vira decisamente sul dolente e sul drammatico mano a mano che ci si avvicina alla fine. 

Scene sessualmente esplicite, ma non insistite o volgari, e la capacità talentuosa di far evolvere un'ambientazione o "scenario" già visto (il resort di lusso, i ricchi che si comportano male, l'isola esotica) in qualcosa di veramente e del tutto originale. 

E' una descrizione feroce di quello che è diventato l'Occidente e in tempi come questi viene da pensare quanto sia facile per la propaganda di Putin (ma del resto anche per quella araba/musulmana) puntare il dito su un Occidente alla deriva, in preda alla depravazione dei costumi, al consumo abissale di droghe e alcol, alla dipendenza da farmaci e tecnologia, alla mancanza assoluta di un qualsiasi punto di riferimento alto (non diciamo "morale") superstite, in grado di riempire quel vuoto di senso miserevole in cui è precipitata la vita. 

Eppure, grazie proprio ad opere come questa di Mike White, l'Occidente dimostra una capacità reattiva, autoconsapevole e autocritica durissima (come già accadeva in Don't Look up): il fatto che in Occidente si possano immaginare storie come queste, descriverle, farle vedere a un pubblico, è esattamente la differenza che ancora esiste - e non è poco - tra l'Occidente (o quel che resta di esso) e i regimi di Putin o panislamici fondamentalisti, che si illudono di fermare il tempo solo con la censura e la dura repressione dei comportamenti e delle libertà.

Fabrizio Falconi - 2022 

21/03/22

Le circostanze della tragica morte del grande Keith Emerson, uno dei più grandi tastieristi di sempre

 


Per diverse generazioni è stato veramente un mito, e ancora oggi il nome di Keith Emerson evoca il virtuosismo tecnico dell'uso delle tastiere (dal pianoforte al moog, a tutte quelle elettroniche) che ha contrassegnato un epoca, prima con formazioni leggendarie come The Nice o Emerson Lake & Palmer e infine con una lunga carriera solista. 

Emerson nato nel 1944 in una cittadina del West Yorkshire, dimostrò per decenni una incredibile energia nelle sue esibizioni dal vivo, unita a un talento creativo notevolissimo. 

La sua fine, umana, fu però particolarmente severa.

Già nel 1993, il musicista era stato costretto a prendersi un anno di pausa dalla musica,  dopo aver sviluppato una sindrome nervosa che aveva colpito la sua mano destra, paragonata a quello che comunemente viene chiamata "crampo dello scrittore", e che è una forma di artrite. 

Iniziò un periodo molto duro per Emerson che stava divorziando, dovette affrontare un incendio della sua casa nel Sussex e si trovava alle prese con difficoltà finanziarie. 

Cominciò a bere, prima che un corso di psicoterapia lo portasse a trasferirsi a Santa Monica, in California, dove occupò il tempo correndo maratone, andando in giro con la sua Harley-Davidson e scrivendo colonne sonore e la sua autobiografia, Pictures of an Exhibitionist , che si apre e si chiude con un resoconto della sua malattia e della successiva operazione al braccio. 

Nel 2002, Emerson aveva riacquistato il pieno uso delle sue mani e poteva suonare come prima. 

Più tardi però ricominciarono i problemi con la malattia che gli fu diagnosticata come distonia focale.

Durante la notte tra il 10 e l'11 marzo 2016, all'età di 71 anni, Emerson si uccide nella sua casa di Santa Monica con un colpo di pistola alla testa; soffriva ormai di depressione cronica  a causa della malattia alla mano destra, che ormai lo obbligava a suonare la tastiera con otto dita, e con una prognosi di ulteriore peggioramento.

Il medico legale stabilì la morte per suicidio, e concluse che Keith aveva sofferto anche di mal di cuore e di depressione associata all'assunzione di alcolici

Come dichiarato dalla sua fidanzata Mari Kawaguchi, Emerson era diventato negli ultimi tempi "depresso, nervoso e ansioso" perché il danno ai nervi aveva severamente limitato il suo modo di suonare; era preoccupato che le sue performance nei concerti già in agenda in Giappone potessero risultare troppo povere e non all'altezza del suo nome, così da deludere i fan

Emerson fu sepolto il 1 aprile 2016 al Lancing and Sompting Cemetery, Lancing, West Sussex.

I suoi ex compagni della band ELP, Carl Palmer e Greg Lake, rilasciarono dichiarazioni Palmer disse: "Keith era un'anima gentile il cui amore per la musica e la passione per la sua esibizione come tastierista rimarranno impareggiabili per molti anni a venire".  Lake aggiunse: "Per quanto triste e tragica sia la morte di Keith, non vorrei che questo fosse il ricordo duraturo che le persone si portano via. Quello che ricorderò sempre di Keith Emerson è stato il suo straordinario talento di musicista e compositore e il suo dono e la sua passione per intrattenere. La musica era la sua vita e nonostante alcune delle difficoltà che ha incontrato sono sicuro che la musica che ha creato vivrà per sempre". Greg Lake morì nello stesso anno. 

Fabrizio Falconi 2022 


18/03/22

Il VIDEO più divertente (e intelligente) del mondo...

 

 


In questi tempi così cupi, c'è bisogno di leggerezza.

Costituiscono una ottima panacea questi 3 minuti del video di una allegra canzone, Toe Jam,  singolo di debutto della band elettronica britannica The Brighton Port Authority, pubblicato il 5 agosto 2008, tratta dal loro album di debutto I Think We're Gonna Need a Bigger Boat

La canzone è stata composta  insieme a David Byrne, che la canta insieme al rapper Dizzee Rascal . 

La canzone fu elencata al numero 14 nell'elenco delle 100 migliori canzoni del 2008 della rivista Rolling Stone. 

Ma brilla soprattutto il video musicale della canzone, diretto da Keith Schofield, che ricostruisce i colori e le atmosfere degli anni '70 con uomini e donne che ballano spiritosamente, spogliandosi nudi.

Le barre di censura poste sopra le loro aree genitali e i seni delle donne formano geniali figure geometriche sullo schermo. 

Il video musicale ha all'epoca spopolato su Internet. E forse oggi, per la sua ironia e la sua intelligenza creativa, merita di essere rivisto.

Fabrizio Falconi - 2022   





17/03/22

Putin e il Monaco Nero - una chiave per capire la psicologia di questa guerra

Anton Cechov in una foto del 1903 colorizzata da Klimbim


Credo che chiunque voglia capire un po' di più dello spirito russo, della psicologia di questa guerra e di colui che l'ha scatenata, farebbe bene a riprendere o prendere per la prima volta in mano uno dei più grandi racconti Anton Cechov, Il Monaco Nero, pubblicato nel 1894.

Il racconto ha per protagonista Andrej Vasil'ič Kovrin, un giovane professore universitario di psicologia, stanco e oberato dal lavoro, che decide perciò di trascorrere qualche mese in campagna presso il suo ex tutore Egor Pesockij, un orticultore che vive con la figlia Tanâ in una tenuta ricca di giardini e frutteti meravigliosi. 

La trama, come quasi sempre nei grandiosi testi di Cechov, è piuttosto semplice e può essere descritta così: 

Andrej è affascinato da una leggenda riguardante le apparizioni soprannaturali un monaco nero, e finisce per vederlo. 

Dapprima si preoccupa, sapendo che le allucinazioni sono segno di malattia mentale. Il monaco tuttavia gli parla, mette a tacere i suoi timori e lo convince di dover svolgere un compito importante per il progresso dell'umanità. 

Andrej si sente un eletto destinato a «servire la verità eterna, annoverarsi fra quelli che con migliaia d'anni d'anticipo avrebbero reso l'umanità degna del regno di Dio». 

Andrej sposa Tanâ e ritorna in città con la moglie. Costei si accorge però della malattia del marito e lo convince a farsi curare. Andrej guarisce, le allucinazioni sono scomparse, ma con esse è scomparsa anche la gioia di vivere, essendo Andrej convinto che senza il monaco nero come guida sarà destinato alla mediocrità («Come furono fortunati Buddha, Maometto e Shakespeare che i buoni parenti e i medici non li avessero curati dall'estasi o dall'ispirazione! (...) I dottori e i buoni parenti tanto faranno che alla fin fine l'umanità rimbecillirà, la mediocrità sarà considerata genio e la civiltà perirà»). 

Insofferente Andrej si separa da Tanâ e si unisce a Varvara Nikolaevna, una donna «che aveva due anni più di lui e lo accudiva come un bambino». 

Intanto Andrej si ammala di tubercolosi polmonare. Per giovare alla propria salute si reca in Crimea con Varvara. La malattia progredisce e nelle fasi finali appare nuovamente il monaco nero il quale rimprovera Andrej di non aver avuto fiducia nella sua missione di genio. 

«Quando Varvara Nikolaevna si svegliò e uscì da dietro il paravento, Kovrin era già morto, e sul suo volto si era fissato un sorriso di beatitudine».

Perché è grande questo racconto e perché ha qualcosa di così attuale che riguarda da vicino quello a cui stiamo assistendo in queste settimane di guerra?

Perché nello spirito umano - e particolarmente nello spirito russo, così incline alle perturbazioni dell'anima e alla esaltazione - è insito questo desiderio di grandezza, questo istinto di megalomania che la coscienza e la ragione tengono normalmente a bada in limiti considerati sociali, ma che sono pronti a esplodere quando una psicologia si "ammala". 

Il Monaco Nero è suadente perché dice a Andrej quello che lui vuole sentirsi dire: che lui non è nato per caso, che è venuto al mondo per uno scopo molto preciso e per un compito grandioso. Lui non sarà un mediocre, lui influirà nella storia, addirittura preparerà il cammino al regno di Dio! 

Andrej intuisce di essere pazzo, ma lentamente si lascia convincere che quel che il monaco ha da dirgli sia la cosa più importante, il motivo stesso per cui vive. Senza quella visione, e cioè "guarito", Andrej è profondamente infelice, nel suo ritorno alla "normalità". 

In fondo, un qualche Monaco Nero sussurra sicuramente anche alle orecchie di Putin, gli suggerisce che c'è per lui un posto privilegiato nella storia, un compito fondamentale da portare avanti prima di morire, e che gli garantirà forse, perfino una vita dopo la morte. 

Non c'è nulla di più irresistibile - e di più pericoloso - di una pazzia che si trasforma in ragione di vita e di autoaffermazione. 

Fabrizio Falconi . 2022




15/03/22

Guerra in Ucraina - Una delle più grandi leggende dello sport, Sergej Bubka "Difenderò il nostro paese con tutti i mezzi a mia disposizione"


"Amo la mia Ucraina con tutto il cuore, sotto la sua bandiera ho ricevuto le più alte onorificenze: vinceremo!". Così Sergey Bubka, leggenda del salto con l'asta prima da sovietico e poi da ucraino, in merito all'invasione militare russa nel territorio ucraino.

Bubka, 58 anni originario di Lugansk nell'omonima autoproclamata Repubblica Popolare e nella sua stupenda carriera capace di stabilire ben 35 record mondiali tra indoor ed outdoor, è stato nominato dal presidente del Comitato Olimpico Internazionale, Thomas Bach, coordinatore degli aiuti umanitari dal Movimento Olimpico a favore dell'Ucraina.  

"Miei cari ucraini, la famiglia olimpica non è indifferente al nostro dolore, come ogni ucraino, non riesco a dormire, difenderò il nostro Paese con tutti i mezzi a mia disposizione, utilizzando tutti i miei collegamenti internazionali, la guerra deve finire, la pace e l'umanita' devono prevalere", ha scritto ancora Bubka su Twitter.

Sergey Bubka è presidente in carica del Comitato olimpico nazionale ucraino ma anche vicepresidente di World Athletics e membro del Comitato Olimpico Internazionale.   

Mariia Bulatova, vicepresidente del Comitato olimpico nazionale ucraino, ha ringraziato la comunità olimpica per il sostegno, "non siamo dimenticati, stiamo ricevendo offerte per alloggi per gli atleti che hanno lasciato il nostro amato Paese e stiamo ricevendo donazioni".  

Fonte - AGI 

14/03/22

E' morto William Hurt - Due film per ricordarlo


Nel giorno della morte di William Hurt, mi piace ricordarlo con due tra i suoi film meno celebrati (anch'io ho nel cuore Smoke e come tutti tanti altri, compreso Il Grande freddo):

- Il primo è il suo film d'esordio, che all'epoca vedemmo in pochi: uscito nel 1980, quel geniaccio fuori di testa di Ken Russell lo aveva tratto da un copione (diventato poi romanzo) di Paddy Chayefsky (con il quale ovviamente litigò durante le riprese, al punto che Chayefsky ritirò la firma della sceneggiatura): vi si raccontavano le angosciose sperimentazioni di uno psichiatra (nella realtà era John Lilly) che mette alla prova se stesso, dentro una vasca di deprivazione sensoriale, per osservare senza distrazioni sensoriali di alcun tipo le proprie visioni interiori. Non contento, lo psichiatra aggiunge alla immersione nella vasca anche l'assunzione preventiva di sostanze allucinogene coltivate dagli sciamani sudamericani.
E' un film strano e inquietante che funziona grazie a William Hurt, il quale esordisce con una prova che gli valse la candidatura al Golden Globe di quell'anno come miglior attore esordiente. Vi si intravedevano già tutte le sue doti.
- Il secondo è uno dei film in assoluto meno riuscito di Wim Wenders: Fino alla Fine del Mondo, girato in mezzo mondo e uscito nel 1991 con un cast spettacolare (Max Von Sydow, Sam Neill, Jeanne Moreau, ecc..) e una colonna sonora strepitosa. Il film fu un flop al botteghino dappertutto. E anche la critica lo maltrattò. Risentiva delle avversità riscontrate da Wenders nella realizzazione, dell'eccessiva lunghezza e di un progetto affastellato per troppo tempo e poco chiaro forse anche nelle intenzioni dell'autore con riferimenti che andavano da "L'invenzione di Morel" di Bioy Casares a Orwell. Si trattava però di un apologo sulla società occidentale e sulla incapacità di guardare, del nostro rapporto con le immagini (tema da sempre wendersiano) che oggi andrebbe rivisto e forse rivalutato.
Hurt, al massimo del suo fascino estetico, vi recitava il ruolo di protagonista nei panni del figlio dello scenziato, Trevor Mc Phee, che porta con sé il dispositivo segreto capace di riprodurre o generare immagini inconsce e/o archetipiche.
Ora che ci penso sono anche due ruoli che si assomigliano, con due personaggi impegnati a sperimentare, a esplorare, il tempo, il futuro, le immagini, la vita.
Forse è per questo, che rappresentano un bel modo per ricordare oggi il grande William Hurt.

Fabrizio Falconi



The wonderful voice of Danilo Ottaviani for a Message to Humans (not to be missed)

 



This video - just four minutes long - is truly an extraordinary work of art, which not through images and sound, sends a message to the entire human race, the text is written by Kristin Flyntz.  

The images follow one another in frenetic way - as in the famous Koyaanisqatsi, a film by Godfrey Reggio with the music score by Philip Glass (1983), hypnotic, distressing and definitive.  

This heartfelt letter is very well acted by Ottaviani's voice without emphasis, without sleight of hand, simply enhancing  and delivering its ultimate message.  

His warm, welcoming, empathic voice guides us through the nightmare experienced in the last two years on a planetary scale, as if the Covid-19 virus itself were speaking to each one of us to make us realize how our uncontrolled selfishness has put our lives and the life of the entire planet at risk. 

The creation of a video message of this type is so important: the images coordinated with the words and the actor's voice seem to come, in an ancestral way, from our collective subconscious.  

Controlled and honest, Ottaviani does not seek to amaze but rather to give voice to the truth that every human being has been able to verify in the last two years, with the upheaval of our lives, suddenly laid bare.  

Kudos to Danilo Ottaviani, for his professionalism. An example of how art can - and above all must - be placed at the service of a new humanism. A collective rebirth that is not only desirable, but indispensable.


Fabrizio Falconi 


13/03/22

Poesia della Domenica: "Per l'Ucraina" di Taras Ševčenko

 


Ricordate, fratelli miei… – 
Affinché quella sventura non ritorni – 
Come voi e io guardavamo 
Per bene da dietro le sbarre. 
E, certo, pensavamo: 
“Quando 
 Per un consiglio quieto, una chiacchiera, 
Quando ci incontreremo di nuovo 
Su questa terra devastata? ”
Mai, fratelli, mai berremo 
Insieme l’acqua del Dniepr! 
Ci separeremo, disperderemo nelle steppe, 
Nelle selve la nostra sventura, 
Crederemo ancora un po’ alla libertà, 
Poi cominceremo a vivere 
Tra la gente, come la gente. 
E finché sarà così, 
Amatevi, fratelli miei, 
Amate l’Ucraina, 
E pregate il Signore 
Per lei, povera di talento, 
Dimenticate, amici, 
E non maledite. 
Talora ricordatevi di me 
Nella crudele schiavitù. 


(scritta nel 1847, Fortezza di Orsk)
traduzione – Anna Panassukova

12/03/22

Pasolini e l'amore per il calcio. Per chi batteva il suo cuore di tifoso, Bologna o Roma?

 



Pasolini romanista? No. Nella sua vita di tifoso non rinnegò mai il suo amore per il Bologna. 

Eppure nei venticinque anni romani imparò a conoscere e ad amare i tifosi romanisti. Nelle nuove borgate e nei popolari rioni del centro c'era solo una squadra. Difficile non farci i conti, prima o poi. 

Chi lo conobbe ricorda che Pasolini andava all'Olimpico anche quando non c'era il Bologna in trasferta. 

Lo faceva con un blocco degli appunti in tasca, per segnarsi espressioni e imprecazioni che per altri erano la normalità, per lui erano preziosi elementi di quella normalità che cercava di assimilare e restituire nei suoi romanzi. 

Ve lo immaginate? Un bolognese con la riga fra i capelli e vestito di tutto punto, che senza scomporsi annotava su carta i "malimortaccitua" sentiti in curva. Il contrasto doveva essere simile a quello delle tante foto che lo vedono sporcarsi di fango inseguendo un pallone in mezzo ai ragazzini già sporchi di fango. È allo stadio che probabimente sentì quel «Forza, a Treré!» che gli amici di Tommaso Puzzilli gridano giocando al biliardino in "Una vita violenta". 

Perché il calcio in borgata era una questione seria, tanto che attribuire a qualcuno il tifo per "quelli là" equivaleva a un insulto: «An vedi questi! Ammazza che broccolo! […] 'Sto laziale stronzo!», grida Tommaso proprio a quelli che non lo lasciano giocare. 

Ed è sempre lui che, escluso da una partita non di biliardino ma di calcio, si lamenta: «Quale giusti, quale giusti, ma che sarebbe? Che, sete 'a Roma?». Per poi inserirsi di prepotenza: «Nun lo vedi che so' Pandorfini so'?».

La Roma non fu la squadra tifata da Pasolini, ma è quella tifata dalle sue opere. Anche nei primi racconti romani, datati 1950-51, è l'unica fede calcistica evocata. In "La passione del fusajaro" il venditore di fusaglie "Morbidone" si innamora di un maglione visto in una vetrina a Campo de' Fiori e l'infatuazione verso il costoso capo d'abbigliamento lo porta a fantasticare su una vita perfetta: «Gli sguardi di ogni pischella erano per lui. Poi, la domenica, a Ostia – no, alla partita di calcio. La Roma avrebbe vinto – a dispetto di Luciano e Gustarè – ed egli col maglione azzurro sarebbe andato a ballare in una sala del Trionfale: e avrebbe ballato con le più belle ragazze»

I suoi personaggi sono romanisti perché i suoi amici erano romanisti

Non una scelta, ma pura mimesi della realtà: era romanista il trasteverino come erano romanisti i dimenticati che vivevano nelle baracche fuori città. 

Chi ha visto e si ricorda l'episodio "Che vitaccia!" in "I mostri" di Dino Risi, in cui Vittorio Gassman spende gli utimi spicci per andare allo stadio, sa di cosa si parla. 

Per Pasolini, i romanisti «più commoventi» erano gli immigrati dalle campagne e dal Meridione: «Il loro amore per la Roma strappa le lacrime. L'amano disperatamente, e gridano poco: ingoiano dolori e macinano gioie in silenzio. E non dimenticano facilmente»

Lo scrisse in un articolo uscito esattamente sessanta anni fa su "l'Unità". Era la cronaca di un derby del 1957 vinto 3-0 dalla Roma. 

Per il giornale comunista non andò in tribuna stampa (non ci volle andare nemmeno tre anni dopo, quando fece da cronista per le Olimpiadi): si tuffò nel settore popolare pieno di vita, accompagnato dall'esperto Sergio Citti, che all'epoca non era ancora Sergio Citti ma "er Mozzone" di Tor Pignattara, romanista come era romanista il fratello Franco e com'è romanista Ninetto Davoli. Ragazzi di vita, ragazzi di Roma. 

11/03/22

E' vero che Robert De Niro finì in carcere in Italia negli anni '80?

 


Alla domanda del titolo, dovremmo rispondere - per scrupolo dei particolari - che no, Robert de Niro non fu propriamente arrestato all'inizio degli anni '80, mentre si trovava a Roma. Però dovremmo aggiungere che in quella giornata il grande attore americano - in compagnia del collega Keith Carradine - si prese certamente uno spavento e che comunque finì recluso per qualche ora in una caserma dei carabinieri, col sospetto, grottesco di appartenere alle Brigate Rosse, in una vicenda che merita comunque di essere raccontata, e della quale restano le sorprendenti foto che vedete sopra e sotto il post. 

Chi li ha vissuti, ricorda quegli anni: giorni di paura e violenza, in tutto il Paese. Dopo il rapimento e l'uccisione di Aldo Moro, le Brigate Rosse sono in difficoltà: arresti (anche se il super-latitante Mario Moretti è ancora libero) e dissociazioni ne hanno minato la forza militare, ma organizzazioni armate di estrema destra e di estrema sinistra sono ancora assai attive in diverse città italiane e a Roma, ovviamente. 

È in questa angosciosa atmosfera che De Niro, il quale aveva appena girato con Scorsere «Toro scatenato» atterra in Italia per presentare il suo nuovo film. 

Assieme a lui nella capitale c'è anche il collega e amico Keith Carradine. Ospiti in un albergo a Trinità dei Monti, gli attori americani non vogliono rinunciare ad un po' di svago nella «Roma by night», ignari degli insoliti risvolti che riserverà loro la serata. 

A bordo di un'Alfetta due «paparazzi» attendono i divi all'uscita dell'hotel, pronti a pedinarli. È proprio quel veicolo ad insospettire l'autista del taxi che porta De Niro e Carradine in giro per la città. «C'è un'Alfetta che mi segue, mi sembra sospetta» comunica il tassista ad una pattuglia di carabinieri in Piazza del Popolo. 

Quando il taxi riparte, l'auto dei fotografi viene immediatamente bloccata dai militari. «In quel taxi ci sono due terroristi, volevamo fotografarli!» afferma uno dei reporter. A quel punto i carabinieri ripartono a sirene spiegate verso il tassì. Una volta raggiunto il veicolo, De Niro e Carradine vengono prelevati con la forza e perquisiti spalle al muro. 

Nel frattempo sono giunti di corsa anche i fotografi per poter immortalare quella ghiotta situazione. I militari hanno intenzione di chiarire ogni dettaglio e conducono presso la caserma di via In Selci sia gli attori che i paparazzi. Il bizzarro equivoco avrà fine soltanto dopo un'ora di accertamenti. 

E non si sa bene come sia finita: se poi, gli spavaldi (e incoscienti) paparazzi abbiano pagato per lo scherzo procurato ai due divi o, com'è probabile, l'abbiano fatta franca. 




Fonte: Spazio '70

08/03/22

Quando Pasolini andò in Russia: "Mosca come la Garbatella"

 


L'interesse di Pier Paolo Pasolini per la letteratura russa è talmente ampio da meritare un posto a sé nell'ormai sconfinata bibliografia sulla sua opera. Dall'illimitatezza del mondo contadino sempre vagheggiato e poi cantato ne La religione del mio tempo sino al saccheggio di temi e immagini dostoevskijane, la scrittura del poeta di Casarsa risulta essere attraversata da un costante filo rosso che lega parte della sua produzione a quanto sperimentato in terra russa.

Pasolini era stato inviato per “Vie Nuove” al Festival della Gioventù a Mosca nel 1957, e lì, ospite del Congresso degli scrittori, Pasolini non vede che anime buone. Passa in Russia in tutto tre settimane, dal 27 luglio al 16 agosto, tra Mosca e Odessa, con una delegazione di cui facevano parte il filosofo senatore Banfi, Sandro Curzi, Mario La Cava, e subito si disveste dei “vizi acquisiti in secoli di storia”, dei russi “pigri, complicati ed eccessivi come al tempo di Dostoevskij”, per testimoniare una società “veramente diversa”. Semplice, diretta, umile.

Un idillio, “un’esperienza meravigliosa e fondamentale”. 

Mosca, poi, è ““una immensa Garbatella: un misto dunque di liberty e di Novecento, con pareti colossali e graticci di finestre. Spesso tuttavia con file di casette basse, ad un piano o due piani”. Ci sono grattacieli, “quegli «orrendi» edifici, condannati da Krusciov. Ma non sono insopportabili. Ispirano anzi della simpatia. Sono cose commoventi, come tutti gli sforzi degli umili per apparire grandi. Mosca è una città di contadini”. Un’altra storia, senza più classi sociali, non sottomessa, come si dice, a una “classe dirigente”. I russi sono i contadini padani della domenica, naturali tra di loro come “i ragazzini nelle piazzette dei paesi”. L’aria è pulita, il cibo sano, i rumori naturali, rapporti sinceri e solidali. Sono temi che riprenderà in una sezione di La religione del mio tempo.

Tra gli autori da egli più amati - oltre al citato Dostoevskij e a Osip Mandel'štam - spicca senz'altro la figura intellettuale e umana di Anna Achmatova. La poetessa, che conosceva bene l'italiano tanto da tradurre i "Canti" di Leopardi, è ammirata da Pasolini soprattutto in virtù della sua natura 'scomoda', da intellettuale disorganica come lui stesso si imponeva di essere. A lei dedica una poesia struggente, in cui la comunione ideale di anime e intenti è resa attraverso un'immersione nello stile dell'autrice, di cui sono riconosciuti la bellezza e il 'mistero'.
Pier Paolo Pasolini - Quasi alla maniera dell'Achmatova, per lei
Un poeta dice che un poeta è un passero
che ripete tutta la vita le stesse note.
Le tue sono le note di un passero che crede
che la sua vita sia tutta la vita.
Nessuno va a disilludere un passero, perché
un passero non può farsi disilludere:
la sua sicurezza è come la presenza –
sulla terra – del paese di Tsarskoe Selò.
È passata su Tsarskoe Selò la rivoluzione?
Certo, è passata, ma semplicemente come
"un evento che non ha l’eguale"
e il passero continua a cantare.
Nulla esiste se non si misura col mistero:
che testimonianza avremmo degli "eventi"
se non cantasse prima e dopo di loro
un passero col suo canto lieve e severo?
(Poesie marxiste, 1964-1965, in Tutte le poesie, Mondadori)

Fonte: Pier Paolo Pasolini e la Russia: una poesia per Anna Achmatov di Ginevra Amadio

07/03/22

Russians di Sting: perché la canzone è tornata di grande attualità ?

 


E' una delle grandi hits di Sting, della sua carriera solista, iniziata dopo la separazione dai Police, e contenuta nel suo primo meraviglioso album, The Dream of the Blue TurtlesRussians, che tutti ricordiamo, è tornata strettamente d'attualità in questi giorni, vediamo perché.

Russians, fu pubblicata, insieme al resto dell'album nel giugno 1985, e in seguito come come singolo a novembre. 

La canzone è un commento e un appello che critica la politica estera e la dottrina della distruzione reciproca assicurata (MAD) allora dominante della Guerra Fredda da parte degli Stati Uniti e dell'allora esistente Unione Sovietica

Nel 2010, Sting ha spiegato che la canzone è stata ispirata guardando la TV sovietica tramite il ricevitore satellitare alla Columbia University:  "Avevo un amico all'università che ha inventato un modo per rubare il segnale satellitare della TV russa. Bevevamo qualche birra e salivamo questa piccola scala per guardare la televisione russa... A quell'ora della notte ci arrivavano solo i bambini.  Sono rimasto colpito dalla cura e dall'attenzione che hanno riservato ai programmi dei loro figli. Mi dispiace che i nostri attuali nemici non abbiano la stessa etica". 

Pochi giorni fa, il 5 marzo 2022, durante l'invasione russa dell'Ucraina , Sting ha pubblicato un video di se stesso mentre si esibiva in "Russians" su Instagram affermando: "Ho cantato questa canzone solo di rado nei molti anni trascorsi da quando è stata scritta, perché non avrei mai pensato che sarebbe stata di nuovo rilevante. Ma, alla luce della decisione sanguinosa e tristemente sbagliata di un uomo di invadere un vicino pacifico e non minaccioso, la canzone è, ancora una volta, un appello alla nostra comune umanità. Per i coraggiosi ucraini che combattono contro questa brutale tirannia e anche per i tanti russi che stanno protestando contro questo oltraggio nonostante la minaccia di arresto e reclusione - Noi, tutti noi, amiamo i nostri figli. Fermate la guerra.

Il video musicale di accompagnamento del singolo fu diretto da Jean-Baptiste Mondino ed è stato girato in uno stile in bianco e nero simile, influenzato dalla New Wave francese. 

Il video presentava anche in primo piano l'attore bambino Felix Howard. 

La canzone come è noto, utilizza il tema romantico della suite del tenente Kijé del compositore russo Sergei Prokofiev,  e la sua introduzione include un frammento del programma di notizie sovietico Vremya in cui il famoso giornalista televisivo sovietico Igor Kirillov dice in russo: ".. .Il primo ministro britannico ha descritto i colloqui con il capo della delegazione, Mikhail Sergeyevich Gorbachev, come uno scambio di opinioni costruttivo, realistico, pratico e amichevole...", riferendosi all'incontro di Mikhail Gorbachev e Margaret Thatcher nel 1984. 

Il leader sovietico all'epoca era Konstantin Chernenko. Sempre in sottofondo si sentono le comunicazioni della missione Apollo-Soyuz

In un'intervista del 2021, il regista James Cameron, autore e produttore di Terminator 2 , ha affermato che la canzone lo ha ispirato a creare il personaggio di John Connor, il bambino di 10 anni che sarebbe stato il personaggio centrale della trama. : "Ricordo di essermi seduto una volta, a scrivere appunti per Terminator, e sono rimasto colpito dalla canzone di Sting, che "Spero che anche i russi amino i loro figli". E ho pensato: "Sai una cosa? L'idea di una guerra nucleare è così antitetica alla vita stessa". Ecco da dove viene il ragazzo". 

marzo 2022

Il video originale di Russians di Sting: 


04/03/22

Come nacque il meraviglioso discorso di Chaplin nel "Grande Dittatore" ?


Specialmente in questi tempi di ansia e di guerra, torna alla mente il monologo finale del Grande Dittatore, uno dei più famosi monologhi cinematografici di sempre, nel capolavoro scritto, diretto, prodotto e interpretato da Charlie Chaplin. 

Come si sa, uscito negli Stati Uniti nel 1940, dunque all'inizio della Seconda Guerra Mondiale, il film rappresenta una geniale parodia dei regimi nazi-fascisti che a quel tempo imperversavano in Europa, mettendo alla berlina i dittatori e i loro aiutanti  di quel tempo, da Hitler a Mussolini, da Goebbels a Goering. 

Si tratta del primo lungometraggio interamente parlato di Chaplin: il regista sapeva che far parlare il suo personaggio più famoso, Charlot, avrebbe potuto snaturarlo fino a ucciderlo, ma sentiva anche di vivere in un contesto storico in cui parlare era diventato un dovere

Ciò che ancora oggi colpisce del monologo pronunciato da Chaplin, nei panni del barbiere ebreo scambiato per la sua somiglianza con il dittatore, è la sua universalità, il suo messaggio umanista e pacifista, che non è mai invecchiato. 

Il testo del monologo è interamente opera di Chaplin che scrisse interamente da solo la sceneggiatura del film. 

Nel discorso finale, il barbiere, nei panni di Hynkel, adotta un tono radicalmente diverso dal resto del film (per lo più una serie di gag visive ) per una sequenza genuinamente seria e piena di dramma, un messaggio politico profondo, apparendo in un'inquadratura statica  per più di sei minuti, un tempo eccezionalmente lungo, durante i quali Chaplin si rivolge direttamente allo spettatore e il personaggio del barbiere lascia il posto allo stesso Charles Chaplin. 

Nella celebre scena, Chaplin sbatte le palpebre meno di dieci volte durante l'intero discorso finale.

Charlie Chaplin ebbe l'idea del film quando un amico, Alexander Korda, notò che il suo personaggio sullo schermo e Adolf Hitler sembravano in qualche modo simili. 

Chaplin, in seguito, apprese che lui e il dittatore erano nati entrambi a una settimana di distanza e avevano più o meno la stessa altezza e peso ed entrambi hanno lottato nella povertà, fino a raggiungere un grande successo in campi diametralmente opposti: quello del potere assoluto politico e quello artistico. 

Quando Chaplin venne a conoscenza delle politiche di Hitler di oppressione razziale e aggressione nazionalista, usò le loro somiglianze come ispirazione per attaccare Hitler mediante la pellicola. 

Il cineasta - originariamente - intendeva chiamare il film The Dictator, ma ricevette un avviso dalla Paramount Pictures che, qualora avesse scelto questo titolo, gli avrebbero addebitato 25.000 dollari: Chaplin accettò le imposizioni della Paramount Pictures e inserì Great nel titolo.

Il regista raccontò in seguito che indossare il costume di Hynkel lo aveva fatto sentire più aggressivo e quelli a lui vicini ricordano che era più difficile lavorare con lui nei giorni in cui stava girando nei panni del personaggio.

Fabrizio Falconi -2022