30/05/19

Esce in una nuova edizione: "Vite che non sono la mia", il capolavoro di Emmanuel Carrère




Un libro "sulla vita e sulla morte, sulla povertà, la giustizia, la malattia e, soprattutto l'amore"

E' lo stesso Emmanuel Carrère a definire uno dei suoi lavori piu' empatici e commoventi Vite che non sono la mia che dal 13 giugno prossimo torna nelle librerie italiane per i tipi di Aldelphi nella nuova traduzione di Federica Di Lella e Maria Laura Vanorio, proprio in occasione della 35/a edizione del Premio Hemingway che si terra' a Lignano Sabbiadoro dal 17 al 22giugno prossimi e che assegnera' all'autore francese il riconoscimento per la sezione Letteratura. 

Pubblicato in Francia nel 2009, per mesi 'D'autres vies que la mienne' ha dominato le classifiche dei libri piu' venduti. 

A spingerlo a volere raccontare "le vite degli altri", due episodi che lo hanno segnato nel profondo: il devastante tsunami in Sri Lanka del 2004 dove lui stesso si trovava insieme con la sua famiglia e dove il dolore di migliaia di persone si aggiunge al dolore, quello di una coppia francese per la perdita della figlioletta di quattro anni. L'altra difficile vicenda e' quella vissuta subito dopo, che avrebbe portato alla morte per cancro della sorella della sua compagna. 

Per questa sua capacita' di guardare nel profondo dell'animo umano e "Per lo stile incisivo e inconfondibile, perché ha saputo trasporre il dato biografico e autobiografico, raccontato spesso nella sua nudita', pietra di scandalo intorno a cui ruotano le contraddizioni delle nostre societa'", lo scrittore parigino sara' insignito del Premio Hemingway sabato 22 giugno, alle 18.30 al CinemaCity di Lignano Sabbiadoro. 

La sera prima, alle ore 21, invece, al Centro Kursaal, Carrère dialoghera' con lo scrittore Alberto Garlini, presidente di Giuria del PremioHemingway. 

Fonte ANSA

28/05/19

Libro del Giorno: "Elegie al futuro poeta" di Nguyen Chì Trung




Davvero onore al merito al raffinato editore pugliese Interno Poesia per aver portato in Italia la poco conosciuta poesia del vietnamita Nguyen Chì Trung, nato in un villaggio sulla costa del Vietnam del Sud e cresciuto a Saigon, prima di recarsi in Germania nel 1967 per studiare filosofia, matematica e meccanica applicata.  

Elegie al futuro poeta è stata pubblicata per la prima volta ad Hanoi nel 1990, seguita dalla seconda parte pubblicata nel 1994 e dalla terza nel 1996.  Tutte confluite nella opera completa in sette volumi pubblicata in Vietnam nel 2013, con traduzioni in diversi paesi del mondo. 

L'edizione di Interno Poesia è impreziosita da una accurata prefazione di Filomena Ciaravella e da una nota finale di Giulia Basile.  Le poesie sono tradotte dall'inglese dalla stessa Ciaravella in collaborazione con Antonino Caponnetto e - questa è una vera, interessante novità - con gli studenti  del Liceo "De Rogatis Fioritto" di San Nicandro Garganico, in provincia di Foggia. 

Elegie al Futuro Poeta, come scrive nella prefazione Filomena Ciavarella, è “un canto lieve e melanconico, che ci invita ad entrare nel secolo futuro, dove la nostalgia diviene una delicata preghiera all’ignoto. Dolcemente la sua voce accarezza e esorta le anime dei poeti del futuro, innalzando una melodia che riverbera l’Oriente nel tono doloroso e affettuoso dell’elegia. Tesse con le corde della poesia un inno che si eleva nel cielo perduto, come solo un flautista della poesia può fare. Le Elegie sono preghiere profondamente lievi nella forma del Sutra, nascono dal fiume millenario della tradizione dei Veda in India”.

Apparentemente di tono nichilista, la poesia di Trung è invece un puro inno al mistero della vita, con il suo profondo dolore, e con la sua provvisoria, profondissima estasi:

Tu che vieni in un secolo senza Unione
Solo - io vado errando in regioni di sogni
La vita non è un qualche cosa che io possieda tanto
La morte non può voler dire che siamo intagliati nel bambù

Nguyen Chì Trung 
Elegie al Futuro Poeta
Interno Poesia, 2019



27/05/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 24. "Apocalypse Now" (Apocalypse Now) di Francis Ford Coppola (1979)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 24. "Apocalypse Now" (Apocalypse Now) di Francis Ford Coppola (1979)

La pellicola è ambientata nel 1969, in piena guerra del Vietnam. Il capitano Benjamin L. Willard (Martin Sheen), è appena tornato a Saigon: è un ufficiale dell'esercito americano, già per tre anni in Vietnam, formalmente in ruolo nella 173ª Brigata Aviotrasportata, ma in realtà incaricato di operazioni speciali della CIA. 

L'incarico che gli viene affidato stavolta è molto difficile e pericoloso: per questo altri, prima di lui, hanno rinunciato. Dovrà trovare ed eliminare il pericoloso e folle colonnello Kurtz (interpretato da un demoniaco Marlon Brando) che si asserragliato nel cuore della giungla instaurando, a capo di una colonia di locali, un dominio violento e isolato.

Apocalypse Now è la descrizione di questa discesa ad inferos, di questo viaggio che Willard deve intraprendere per raggiungere Kurtz è che è costellato da prove e da visioni ai limite del fantastico, come quando si imbatte nel capitano William "Bill" Killgore, della “Cavalleria dell'aria” che prima dell'attacco spara Wagner a tutto volume dagli altoparlanti che ha fatto installare sui suoi elicotteri e che, durante il combattimento in corso, decide che deve assolutamente fare surf. 

L'attraversamento della giungla, dei suoi fantasmi e dei suoi territori d'ombra è anche - proprio come nel romanzo ispiratore di Coppola, il "Cuore di Tenebra" di James Conrad - un viaggio all'interno dell'ombra interiore, dei fantasmi più cupi dell'inconscio, dei tabù e degli orrori che galleggiano nel cuore umano. 

Fino all'incontro con l'orrore, con il male per eccellenza: ovvero Kurtz e i suoi guerrieri. Arrivato al cospetto del Colonnello, per Willard non ci saranno molte alternative e l'unica strada possibile si rivelerà tutt'altro che rassicurante, in un memorabile finale di catarsi e violenza. 

L'opera di Coppola è ormai un must assoluto e una delle pietre miliari della cinematografia di ogni epoca. Tutto in questo film, dalla fotografia di Vittorio Storaro al montaggio, alla scenografia, alla recitazione allucinata degli attori principali, alla colonna sonora di Carmine Coppola, è al servizio del mondo estetico che Francis Ford Coppola crea, incantato e incantando, distruggendo l’epica romantica della guerra e tutto l’immaginario che la sorregge. 

La Guerra è una nave di folli, dove l'animo umano si perde alla ricerca e nel terrore dei propri fantasmi, in una morale al contrario portata alle sue estreme conseguenze dall'estremo, lucido immoralismo del colonnello Kurtz e della sua nichilistica concezione del destino umano. 

Un film che è divenuto leggenda - anche a partire dalle incredibili circostanze nelle quali fu diretto e dell'incredibile travaglio psicologico che stremò Coppola, insieme alle difficoltà finanziare che rischiarono molto seriamente di gettarlo sul lastrico per sempre. 

Il film vinse tra le ovazioni la Palma d'Oro al Festival di Cannes e una quantità incredibile di premi in tutto il mondo anche se fu scandalosamente snobbato alla cerimonia degli Oscar dove si aggiudicò soltanto due statuette a fronte delle otto nominations. 

Fabrizio Falconi






26/05/19

Poesia della Domenica - III carme (La morte del Passero) di Gaio Valerio Catullo



Piangete, o Veneri e voi Amori,
e voi uomini che avete più gentilezza.
È morto il passero alla mia ragazza,
il passero, tesoro della mia ragazza;
lei lo amava più dei propri occhi,
perché era dolce come il miele e la riconosceva
così come una bimbetta la sua mamma;
mai che si scostasse dal suo grembo
e, saltellando intorno qua e là,
cinguettava sempre, solo rivolto alla sua padrona.
Ora procede per una strada oscura,
là donde si dice che nessuno torni.
Maledizione a voi, maledette oscurità infernali,
che inghiottite ogni cosa graziosa:
un passero così carino voi m'avete rapito.
Che brutta azione! Che passerotto infelice!
Ora per colpa tua, gonfi di pianto, sono arrossati
gli occhi soavi della mia ragazza.


Catullo, Liber Catulliano, III carme (La morte del passero), I sec. a.C.

Lugete, o Veneres Cupidinesque,
Et quantum est hominum venustiorum:
Passer mortuus est meae puellae, 
Passer, deliciae meae puellae, 
Quem plus illa oculis suis amabat; 
Nam mellitus erat, suamque norat 
Ipsam tam bene quam puella matrem, 
Nec sese a gremio illius movebat, 
Sed circumsiliens modo huc modo illuc 
Ad solam dominam usque pipiabat. 
Qui nunc it per iter tenebricosum 
Illuc, unde negant redire quemquam. 
At uobis male sit, malae tenebrae 
Orci, quae omnia bella deuoratis; 
Tam bellum mihi passerem abstulistis. 
O factum male! io miselle passer! 
Tua nunc opera meae puellae 
Flendo turgiduli rubent ocelli.

in alto: Cardellino, di Carel Fabritius, 1654

24/05/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 23. "Il raggio verde" (Le rayon vert) di Eric Rohmer (1986)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 23. "Il raggio verde" (Le rayon vert) di Eric Rohmer (1986)

Quando Il raggio verde vinse il Leone d'Oro alla Mostra del Cinema di Venezia del 1986, in molti si rallegrarono per il grande riconoscimento che arrivava alla carriera di Éric Rohmer, uno dei più grandi cineasti francesi, paladino di un cinema povero, di rara profondità, attento alla perlustrazione meticolosa dei movimenti dell'animo umano. 

Il raggio verde in particolare era il quinto del ciclo Commedie e proverbi (Comédies et proverbes),  con il quale Rohmer, ispirandosi a detti popolari o orientali, offriva un catalogo balzachiano dell'umanità del suo paese. 

Il raggio verde prende il via da un verso di Arhur Rimbaud, tratto dal poema Chanson de la plus haute tour che è riportato nel fotogramma iniziale: Ah! Que le temps vienne Où les cœurs s’éprennent, cioè Ah! Venga il tempo In cui i cuori si innamorano! ; mentre il titolo del film deriva  dal fenomeno ottico del raggio verde e dall'omonimo romanzo di Jules Verne che ne era stato ispirato, cioè dal quel fenomeno per cui, in certe particolari condizioni atmosferiche, quando il sole sta tramontando sull'orizzonte è possibile percepire, solo per qualche fugace istante un riflesso verde  (dovuto alla rifrazione dello spettro della luce) nell'ultimo spicchio dell'astro prima che si inabissi. E una vecchia credenza sostiene che chi assiste a questo fenomeno conquista la possibilità di guardare con chiarezza nel proprio cuore e nel cuore altrui.

Si parla dunque d'amore.

E si seguono le vicende di Delphine, segretaria in un ufficio di Parigi, interpretata dalla splendida attrice Marie Rivière (la quale collaborò con Rohmer alla scrittura del film e dei dialoghi), la quale vede svanire il suo progetto di vacanze in Grecia quando l'amica con cui sarebbe dovuta partire vi rinuncia.

Delphine si trova a vivere dunque, in piena estate, quel disorientamento esistenziale preludio di quello che qualche decennio più tardi Zygmunt Bauman avrebbe chiamato "tempo liquido". Riceve diversi altri inviti, ma non è convinta: è un po' depressa, sogna il grande amore, si rammarica della sua solitudine, ma non ha sufficiente energia e voglia per lasciarsi coinvolgere da e con persone che non la interessano più di tanto, ritrovandosi a rimbalzare da un posto all'altro, da una situazione all'altro, da un cocktail a un ballo, a una vacanza all'altra, senza scopo.

Non la aiuta nemmeno la psicoterapia, da cui fugge, né i panegirici degli amici che la spingono a rinunciare a ciò che lei sente, cioè ad abbandonare le sue pretese romantiche, l'inseguimento di un vero amore e a lasciarsi vivere divertendosi come fanno tutti. 

Alla fine accetta l'invito di una amica per una vacanza in una casa di Cherbourg, che ha l'effetto di deprimerla ancor di più. E lo stesso avviene con un'altra trasferta di qualche giorno in Savoia, a casa del suo ex compagno. Torna a Parigi. E qui incontra un'altra amica che si offre di prestarle una casa a Biarritz.  Delphine accetta.

Quando è da sola sulla spiaggia di Biarritz, ascolta per caso la conversazione di alcune villeggianti che parlano di un romanzo di Jules Verne, Il raggio verde.

Qualche giorno dopo, mentre si trova a  Saint-Jean-de-Luz con un ragazzo che ha incontrato per caso alla stazione di Biarritz intento a leggere L'idiota di Dostoevskij, e con cui ha fatto amicizia, Delphine nota l'insegna di un negozio, “Il Raggio Verde” e chiede al ragazzo, Jacques, di accompagnarla a vedere il tramonto da un punto panoramico. Nell'attimo in cui il sole si inabissa definitivamente, Jacques e Delphine vedono per un breve momento la luce verde.

Così si chiude il film, lasciando immaginare che le speranze di Delphine possano aver trovato risposta grazie anche all'apparizione di quel misterioso segno.

A Rohmer interessa la descrizione del cuore puro - e perciò inquieto - di Delphine. Non è un caso che Jacques, il ragazzo che forse diventerà il suo amore, stia leggendo proprio L'Idiota. Delphine, in fin dei conti, è un Myskin moderno, un'anima che non sa e non può accontentarsi della prosa che ha intorno e che cerca qualcosa di indistinto, l'abbandono, la passione, il sentimento unico e felice di un amore non condizionato dai requisiti mondani. 

Realizzato come sempre fa Rohmer in formato di 16 mm e costato meno di 200 milioni di lire, questo film realizzò nelle sale incassi record con più di 15 miliardi.

Il segno di una genialità chapliniana di questo autore, capace di ottenere il massimo risultato col minimo impiego di mezzi, parlando direttamente al cuore dello spettatore, delle sue domande irrisolte, della sua inquietudine, annidata dietro ogni vita ordinaria. 

Fabrizio Falconi

23/05/19

Arriva in Italia dopo 35 anni la "Madonna Benois" di Leonardo da Vinci !



Dal 4 luglio al 4 agosto 2019, Perugia sarà teatro di uno straordinario appuntamento d'arte.

Alla Galleria Nazionale dell’Umbria, infatti, arriva la Madonna Benois, uno dei capolavori giovanili di Leonardo da Vinci, proveniente dall’Ermitage di San Pietroburgo, che torna in Italia dopo 35 anni dalla sua unica esposizione.

L’appuntamento, una delle iniziative che celebrano il quinto centenario della morte del genio fiorentino, vivrà un momento preliminare alla Pinacoteca di Fabriano, dal 1° al 30 giugno, in occasione della XIII Unesco Creative Cities Network Annual Conference.

La mostra offre la possibilità di un interessante confronto iconografico tra la Madonna Benois e le opere del Perugino, eseguite al suo rientro in Umbria da Firenze, e conservate nella Galleria Nazionale dell’Umbria.
Già nelle Cronache Rimate del 1482, infatti, il pittore Giovanni Santi ricordava che Due giovin par d'etate e par d'amori / Leonardo da Vinci e 'l Perusino / Pier della Pieve ch'è un divin pittore, per sottolineare il profondo rapporto che legò i due artisti mentre lavoravano insieme come giovani apprendisti nella bottega fiorentina del Verrocchio.

La Madonna Benois è un’opera chiave del giovane Leonardo da Vinci. Dipinta con ogni probabilità tra il 1478 e il 1480, segna la sua indipendenza dallo stile e dalla formazione di Verrocchio, nella cui bottega il maestro era entrato circa 10 anni prima: un manifesto di quella “maniera moderna” di cui l’artista fu iniziatore.
Al suo secondo impegno su uno dei temi religiosi più diffusi, all’età di ventisei anni, il genio del Rinascimento rompe con la tradizione e inventa una nuova figura di Maria: non più l’imperturbabile Regina dei cieli, ma una semplice madre che gioca con il proprio figlio.

“La Madonna è scesa dal trono su cui gli artisti del Quattrocento l’avevano posta e si è andata a sedere su una panca, in una stanza di casa abitata”, afferma Tatiana Kustodieva, del Dipartimento dell'arte dell’Ermitage. È rimasta la tradizionale tenda che scende dietro la schiena di Maria, che da segno di un cerimoniale, oppure simbolo delle alte sfere, è diventato un tessuto ricoprente lo schienale di una sedia. La stanza è descritta con grande parsimonia, ma Leonardo rende omaggio al suo tempo considerando con l’attenzione di un quattrocentista dettagli come i riccioli di Maria, la spilla, i fragili petali del fiore, le testine dei chiodi nella cornice della finestra. Ciascun oggetto non esiste per sé stesso e grazie alla luce partecipa di un unico ambiente”.

A differenza dei suoi contemporanei Leonardo concentra l’attenzione su ciò che è fondamentale, poiché “Un buon pittore - annota lo stesso Leonardo nel “Trattato della Pittura” - deve dipingere due cose principali: l’uomo e la rappresentazione della sua anima. Il primo è facile, il secondo è difficile, poiché deve essere rappresentato da gesti e movimenti delle membra del corpo”.

La Madonna Benois entrò nelle collezioni dell’Ermitage nel 1914, venduta da Marija Aleksandrovna Benois, che la aveva ereditata dal nonno paterno, mercante in Astrachan, a un prezzo inferiore a quello di mercato, «purché rimanesse in Russia». Non è nota la storia del dipinto prima dell’Ottocento, ma appena fu esposta per la prima volta nel 1908, quasi tutti gli storici dell’arte del tempo l’assegnarono a Leonardo da Vinci, attribuzione che oggi risulta molto solida e affermata pressoché all’unanimità.

La rassegna, organizzata in collaborazione con Villaggio Globale International, rinsalda il legame già in essere tra la Galleria Nazionale dell’Umbria e il Museo Ermitage di San Pietroburgo: grazie a questa collaborazione, La lavandaia, capolavoro di Jean Siméon Chardin dell’Ermitage, è presente alla mostra della Galleria dedicata alle Bolle di sapone, mentre, lo scorso dicembre, l’Annunciazione della Vergine Maria di Piero della Francesca, cimasa del Polittico di Sant’Antonio, è stata eccezionalmente prestata al museo russo, che ora sceglie di celebrare il genio del grande artista toscano proprio nel suo paese natale.


LEONARDO DA VINCI. LA MADONNA BENOIS
Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria (corso Pietro Vannucci, 19)
4 luglio – 4 agosto 2019

Orari: da martedì a domenica, 8.30-19.30; lunedì 12.00-19.30 (ultimo ingresso ore 18.30)

Biglietti: intero, € 8,00; ridotto, € 4,00, Gratuito (per le singole categorie consultare il sito www.gallerianazionaledellumbria.it/visita); Card Perugia Città Museo


Biglietteria/Bookshop: Tel. 075.5721009; gnu@sistemamuseo.it 



21/05/19

Torna: "La luna sul Colosseo" con visite guidate notturne al magnifico monumento di Roma



Il clangore delle armi, il ruggito delle belve inferocite, il sangue. E poi il frastuono di grida, incitamenti, tifo. Odori forti che si mischiano ai rumori, colori che abbagliano, emozioni che stringono lo stomaco. Assistere duemila anni fa ad uno spettacolo del Colosseo doveva essere un'esperienza davvero a tinte molto forti, tanto da inchiodare agli spalti di ogni ordine i circa 50mila spettatori che ogni volta partecipavano agli spettacoli. Ma cosa succedeva poi al tramonto quando l'arena macchiata di sangue, di lacrime e di umori, si svuotava di vittime e carnefici? E come doveva essere la notte del gladiatore che sapeva di dover entrare in scena al mattino?

Torna "La Luna sul Colosseo", il progetto di visite notturne organizzate dal Parco archeologico e quest'anno il percorso guidato tra spalti e sotterranei del monumento italiano piu' gettonato dai visitatori si arricchisce di nuove suggestioni con una serie di installazioni e uno spettacolo firmati da Studio Azzurro.

"Le tecnologie digitali applicate al settore dell'archeologia offrono una potenzialita' straordinaria di lettura e di comprensione del patrimonio avvicinando il pubblico alla storia", sottolinea la direttrice del Parco Archeologico del Colosseo e dei Fori, Alfonsina Russo. 

Tant'e', a dispetto del poco tempo che si e' avuto per organizzare ("tre-quattro mesi") e del prezzo del biglietto di ingresso aumentato a 24 euro, il successo dell'iniziativa sembra gia' assicurato con i circa 400mila euro di costi ampiamente coperti dagli incassi.

"Bisogna affrettarsi, da qui a gennaio restano pochi biglietti, siamo certi del sold out", sorride soddisfatta la direttrice manager. Rispetto alle ricostruzioni multimediali offerte per i Fori dalle visite immersive firmate da Piero Angela, questo percorso e' tutt'altra cosa.

Qui la ricostruzione storica, il racconto della vita del monumento, che prende avvio dagli interventi urbanistici del fascismo, e' ancora come sempre interamente affidata alle parole degli archeologi, degli storici dell'arte e degli architetti dello staff. Sono loro come gia' nelle passate edizioni a spiegare, illustrare, raccontare, rispondere alle tante, inevitabili, domande del ristretto pubblico visitatori, mai piu' di 25 a turno per ovvie ragioni di sicurezza.

L'intervento multimediale punteggia quel racconto, lo amplifica ridando voce piuttosto alle 'fonti', gli storici, i poeti, i saggisti dell'epoca, da Marziale che disprezza il tiranno Nerone e inneggia all'opera dei Flavi ("sotto il tuo impero o Cesare, e' diventato delizia del popolo cio' che era stato delizia del tiranno") a Cassio Dione che pure applaude ai "numerosi e grandiosi spettacoli", citando la presenza di gru, elefanti, bestie selvatiche.

Ad evocare il fascino oscuro del sangue e le pulsioni piu' bestiali che riuscivano ad invadere anche gli animi piu' miti e' poi Sant'Agostino, che compare incappucciato scatenando qualche brivido, quando tutto attorno le ombre della sera si appoggiano sull'arena e sulle grandiose arcate dell'anfiteatro.

Certo e' nei sotterranei che la suggestione trova i suoi registri piu' forti, con i cunicoli illuminati dalle fiaccole e la lotta tra gli animali che rivive feroce sui muri che una volta ne contenevano le gabbie.

In fondo alla galleria il "montabelve", la replica archeologica realizzata nel 2015 di uno dei 28 montacarichi di cui era dotata la struttura all'epoca di Domiziano, fa la sua impressione.

Prima di tornare all'aperto dove nell'arena va in scena la visione del sogno di un gladiatore alla vigilia del combattimento. "In attesa del giorno, della gara", del sangue, che potra' portare la liberta' o la morte.

Le visite, in italiano e in inglese, durano 75 minuti e partono dalle 20.00 alle 22.30, tutti i giorni tranne la domenica. Da novembre a dicembre l'orario di partenza e' anticipato dalle 18.00 alle 20.00. 

20/05/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 22. Il volo della Fenice (The Flight of Phoenix) di Robert Aldrich (1965)



Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 22. Il volo della Fenice (The Flight of Phoenix) di Robert Aldrich (1965)


Questo celebre film (di cui è stato realizzato un remake in tempi recenti, nel 2004) è oramai un classico, per diversi motivi, primo fra tutti quello di essere il precursore assoluto di un intero genere, quello della gara per la sopravvivenza al seguito di una catastrofe, in questo caso aerea. 

Durante un volo di trasferimento l'aereo di una compagnia petrolifera statunitense, infatti, un bimotore da trasporto Fairchild C-82 Packet, condotto da Frank Towns (Jimmy Stewart, che in effetti anche nella vita reale fu un pilota di aerei durante la seconda guerra mondiale), un pilota veterano di guerra ormai in declino e afflitto dai rimorsi, e dal suo ufficiale di rotta alcolizzato Lew Moran (nientemeno che il grande Sir Richard Attenborough, qui nei panni di semplice attore coprotagonista), parte sulla rotta che lo conduce da una stazione estrattiva in pieno deserto del Sahara verso la costa del Mediterraneo, ed è costretto ad un atterraggio di fortuna a seguito di una violenta tempesta di sabbia che intasa i motori. 

Lo schianto sulla sabbia causa la morte di due passeggeri ed il grave ferimento di un terzo, il giovane italiano Gabriele (l'attore italiano Gabriele Tinti), lasciando illesi i due membri dell'equipaggio e gli altri passeggeri: il dottor Renaud, un medico francese; l'operaio petrolifero Trucker Cobb (il grande Ernest Borgnine), appena licenziato perché affetto da turbe psichiche; il capitano Harris (Peter Finch), un rigido militare dell'esercito britannico, e la sua "vittima" prediletta, il sergente Watson, Mike Bellamy, un prospettore petrolifero; Standish, un timido e devoto ragioniere; Ratbags Crow, un irriverente giornalista scozzese; il tedesco Heinrich Dorfmann, che ha fatto visita al fratello, un lavorante messicano e la sua scimmietta. 

La riserva d'acqua è sufficiente per le due settimane, mentre ci sono quintali di datteri in scatola da mangiare. Per evitare la tempesta, Towns è però stato costretto a deviare di quasi duecento chilometri dalla rotta dichiarata: dopo i primi giorni il gruppo si rassegna all'idea che i soccorritori devono avere ormai abbandonato le ricerche. 

Comincia così una avvincente e disperata lotta per la sopravvivenza: un primo tentativo di coprire a piedi la distanza che li separa dall'oasi più vicina si conclude con la morte del messicano e di Trucker Cobb, mentre le condizioni dell'italiano ferito si fanno sempre più disperate, tanto che morirà pochi giorni più tardi. 

A questo punto Dorfmann, il passeggero tedesco, propone un'idea geniale e a prima vista pazzesca: smantellare il relitto dell'aeroplano, utilizzandone i componenti per realizzare un velivolo più piccolo, in grado di portare in salvo i superstiti. 

 Dapprima oggetto di scherno e incredulità, la proposta appare via via l'unica speranza di salvezza, soprattutto alla luce delle misurazioni e dei calcoli elaborati dal suo ideatore, la cui professione è quella di ingegnere aeronautico. Dorfmann, con ingegnosi stratagemmi, riesce ad ovviare alla mancanza di utensili e componenti e si trova ad affrontare l'ostilità proprio del pilota Frank Towns, legato ai suoi pregiudizi da età "eroica" dell'aviazione. 

L'ala di tribordo viene smontata, mentre viene inventato un sistema con cui il velivolo dovrà scivolare sulla sabbia prima del decollo. A ostacolare il cammino verso la salvezza ci penserà anche una carovana di predoni che attraversano il deserto con i loro cammelli; non solo: a un certo punto lo stesso Dorfmann rivela candidamente di essere un progettista di aeromodelli, non di veri aerei; ma il progetto è ormai in stato avanzato per rinunciare e Towns suggerisce a Dorfmann di non rivelare agli altri che costruisce "giocattoli". Rimasti in sette, i superstiti infondono le loro ultime energie nel completamento dell'aereo, e alla fine Towns riesce a decollare, portando in salvo tutti ed atterrando in un'oasi dove avviene l'estrazione del petrolio. 

Diretto da uno dei migliori registi di sempre di Hollywood,  Robert Aldrich, Il volo della fenice, interpretato da uno straordinario cast interamente maschile è una straordinaria indagine sui caratteri umani e allo stesso tempo un perfetto racconto d'avventura. 

Il Volo della Fenice
(The Flight of the Phoenix)
di Robert Aldrich
Stati Uniti d'America, 1965 
Durata 142 min 
con James Stewart, Richard Attenborough,  Peter Finch, Ernest Borgnine



19/05/19

Poesia della Domenica - "Elegia al futuro poeta" di Nguyen Chì Trung





Tu che vieni nel secolo futuro
Non portare con te il dolore di mille anni
Io solo dormirò e vivrò con l'ombra
che è apparsa e ora è svanita.

You come into the future century
Don't bring with you the grief of a thousand years
I alone will sleep and live with the shadow
That has appeared and now vanished

Nguyen Chì Trung

Traduzione dal vietnamita in inglese di Nguyen Chì Trung
in collaborazione con Linda Kunhardt
Traduzione dall'inglese in italiano di Filomena Ciavarella
in collaborazione con Antonino Caponnetto
e gli studenti dell'IISS "De Rogatis Fioritto"
di San Nicandro Garganico (FG)

Tratto da:

Nguyen Chì Trung
Elegie al futuro poeta
Interno Poesia, 2018
pp.90
euro13,50 




18/05/19

Roma sotto attacco delle "Specie Aliene", a causa dei cambiamenti climatici: Pappagalli, roditori oversize, punteruolo rosso, testuggini azzannatrici.


Vivere, convivere, lottare, soccombere alle specie aliene invasive: queste le tematiche al centro della riunione di esperti dal titolo 'Alieni a Roma' organizzata oggi dalla Fondazione Bioparco in collaborazione con Life ASAP(Alien Species Awareness Program) coordinato dall'ISPRA (l'Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) per parlare di questa cittadinanza parallela che ormai abita stabilmente le città e delle azioni per sensibilizzare l'opinione pubblica sul fenomeno. 

Pappagalli, testuggini palustri americane, nutrie, punteruoli rossi e tanti altri sono in preoccupante aumento a Roma e stanno causando seri problemi alla biodiversita' cittadina, fino all'estinzione delle specie autoctone e all'alterazione degli habitat che occupano. 

Attualmente in Italia sono presenti piu' di 3.000 specie aliene, introdotte spesso volontariamente, di cui oltre il 15% invasive. 

A livello europeo, negli ultimi 30 anni, il numero di specie alloctone e' cresciuto del 76% e in Italia del 96%. Per contenere tale fenomeno ogni anno l'Unione Europea sostiene dei costi che superano i 12 miliardi di euro. 

Nella Capitale piu' di mille coppie di parrocchetto dal collare di origine asiatica, e altrettante di parrocchetto monaco, di origine sudamericana, si contendono i quartieri Parioli il primo, San Giovanni e Appio il secondo

Il punteruolo rosso dell'Estremo Oriente ha cancellato buona parte delle palme dagli orti botanici e dalle piazze; resistono coraggiosamente quelle di piazza di Spagna. 

"Le sponde del Tevere sono il rifugio di famiglie di nutrie, roditori oversize dall'aspetto simile ai ratti, spiega il Presidente della Fondazione Bioparco di Roma, Francesco Petretti. Le zanzare tigre, e' solo questione di giorni, con le copiose piogge di maggio ci faranno 'vedere le stelle'. I parrocchetti - continua Petretti - cacciano dal nido picchi e storni, cince e torcicolli, le nutrie devastano la flora acquatica dei laghetti nei parchi e del Tevere. Per alcune specie e' difficile dare numeri, ma e' verosimile sostenere che le testuggini d'acqua americane, le stesse che si vendevano nei luna park a 100 lire, superino le decine di migliaia di esemplari. Fra loro si nasconde anche qualche temibile testuggine azzannatrice americana, un vero mostro dalle mandibole a becco. 

E l'elenco delle specie aliene invasive, che un tempo venivano definite esotiche, e' ancora lungo, e gli effetti negativi che questi animali hanno sull'ecosistema urbano, con tutte le componenti indigene, sono senza precedenti

Le famiglie in visita al Bioparco - conclude Petretti - saranno coinvolte per segnalare la presenza degli alieni nei giardini e per le strade dei quartieri romani". 


17/05/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 21. Fanny & Alexander (Fanny och Alexander) di Ingmar Bergman (1982)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 21. Fanny e Alexander (Fanny och Alexander) di Ingmar Bergman (1982)


Nel suo ultimo grande film pensato per la televisione e poi realizzato (anche) per il cinema,  Fanny e Alexander (1982), Ingmar Bergman ci ha lasciato una sorta di evidente testamento spirituale.
Quel film rappresenta infatti, meglio di altri, la summa della parabola artistica e della profondissima riflessione spirituale e filosofica sul senso della esistenza, attraverso i riferimenti ad una vicenda autobiografica che il regista aveva già raccontato nel suo libro Lanterna magica.   

In Fanny e Alexander oltre al magnifico racconto familiare che ricostruisce l'infanzia di Alex/Ingmar, le vicende dolorose e gioiose, i traumi e il male, l'amicizia e l'amore e il bene, Bergman sintetizzò in questo film ciò in cui credeva, ciò che credeva di aver capito, sul finire della sua intensa e prolifica parabola artistica e della sua vita, del mistero dell'esistenza.


Negli ultimi anni della sua vita, anche il cinema divenne per Bergman, superfluo. Il congedo dal set, più volte annunciato, si concretizzò con tre piccoli film, Dopo la Prova (1984), Il segno (1986) e Verità e affanni (1997) che non intaccarono l’impressione che il vero testamento spirituale del regista restasse Fanny & Alexander.  Bergman si era già ritirato da tempo nella sua isola di Faro, in una completa solitudine, in una austerità quasi claustrale, interrotta soltanto dalla visita dei suoi otto figli – divenuti nel frattempo quasi tutti attori - degli amici intimi e degli attori, compagni di lavoro dei suoi film più famosi. 
   
“Mangiava poco. Si vestiva male. Non aveva bisogno di comodità: nell’isola di Faro dove ha vissuto quando poteva perché amava quel paesaggio ideale per la rappresentazione di una condizione umana desolante, per lungo tempo è mancata persino l’energia elettrica. Si alzava alle sette del mattino, andava a letto alle dieci di sera ma non sempre dormiva, soffriva di insonnia in maniera angosciosa.”  Così descrisse questo uomo inquieto – inquieto fino alla fine – Lietta Tornabuoni in un articolo commemorativo il giorno dopo la sua morte, avvenuta il 30 luglio del 2007, pochi giorni dopo che il regista aveva compiuto 89 anni.
     
Il film prende l'avvio da una memorabile festa di Natale, in casa Ekdahl, una estesa famiglia dell'alta borghesia di Uppsala, il cui patriarca - Oscar - è anche il capo della compagnia di attori che intorno ad essa, ruota.  Alla improvvisa, dolorosissima morte di Oscar, un uomo buono e fecondo, si apre una crisi che coinvolge direttamente i figli, Fanny e Alexander quando la loro madre si unisce in matrimonio con il diabolico vescovo protestante Vergerus, con conseguenti vessazioni dei due bambini da parte del patrigno.

Per Fanny e Alexander sarà una tragica discesa ad inferos e una altrettanto dolorosa, ma stupefacente rinascita, grazie all'attraversamento - soprattutto da parte di Alex -  di quella che Jung chiamava Ombra, cioè il lato oscuro della propria interiorità.  

Alla fine del film, Bergman mette queste parole in bocca allo Zio Gustaf, il più epicureo e materialista della famiglia Ekdahl, il meno sovrastrutturato potremmo dire, che brinda alla pace ritrovata, all'unità della famiglia, nonostante tutto, alla speranza nel futuro, pur con la profonda consapevolezza delle profonde avversità che la vita può offrire. Questo il testo integrale del discorso. 

L’unico talento che io ho è quello di amare quel piccolo mondo racchiuso tra le spesse mura di questo edificio e soprattutto mi piacciono le persone che abitano qui in questo piccolo mondo. Fuori di qui c’è il mondo grande e qualche volta capita che il mondo piccolo riesca a rispecchiare il mondo grande tanto da farcelo capire un po’ meglio. In ogni modo riusciamo a dare a tutti quelli che vengono qui la possibilità, per qualche minuto, per qualche secondo, di dimenticare il duro mondo che è la fuori. Il nostro teatro è un piccolo spazio fatto di disciplina, di coscienza, di ordine e di amore.

Noi non siamo venuti al mondo per scrutarlo a fondo, no davvero. Noi non siamo preparati, attrezzati, per questo tipo, per certe indagini. La cosa migliore è mandare all'inferno i grandi contesti. Noi vivremo in piccolo, nel piccolo mondo. E ci contenteremo di quello. Lo coltiveremo e lo useremo nel modo migliore. La morte colpisce all'improvviso e all'improvviso si spalanca l'abisso. All'improvviso infuria la tempesta e la catastrofe ci sovrasta. Noi tutto questo lo sappiamo, ma ci rifiutiamo di pensare a queste cose sgradevoli... Attori, attrici, abbiamo un grande bisogno di voi perché sarete voi che ci darete brividi di soprannaturale e soprattutto anche i nostri piaceri terreni. Il mondo è una tana di ladroni, e la notte sta per calare. Il male strappa le catene e vaga nel mondo come un cane impazzito, e tutti ne siamo contaminati: noi Ekdahl come qualsiasi altra persona. Nessuno vi sfugge. 
Per questo dobbiamo essere felici quando siamo felici ed essere gentili, generosi, teneri, buoni. Proprio per questo motivo è necessario e tutt'altro che vergognoso essere felici, gioire di questo piccolo mondo: della buona cucina, dei dolci sorrisi, degli alberi da frutta che sono in fiore, o anche di un valzer. Tengo in braccio una piccola, dolce imperatrice. E' una cosa tangibile eppure incommensurabile. Un giorno mi dimostrerà che ho avuto torto in tutto quello che ho detto ora. Dominerà non solo sul piccolo mondo, ma su ogni cosa. 

In questo discorso finale v'è la sintesi del film-capolavoro e forse della intera parabola creativa del grande Ingmar Bergman. 


Fanny & Alexander è ancora oggi un racconto e un'opera visiva di potenza insuperata.


Fanny & Alexander

(Fanny och Alexander)
di Ingmar Bergman 
Svezia, Francia, Germania Ovest, 1982 
Durata 188 min (cinema), 312 min (TV) 
Fotografia Sven Nykvist 
con Pernilla Allwin, Bertil Guve, Ewa Fröling, Gun Wallgren, Jarl Kulle

 


15/05/19

Tarocchi e I-Ching: Esce un nuovo libro, "I codici del cambiamento", con nuove tesi, presentato venerdì prossimo a Roma.




L’I Ching e i Tarocchi, due tra i più antichi testi di sapienza tradizionale, custodiscono, nella loro matrice codificata, una segreta conoscenza del DNA e dei suoi meccanismi. 

Un numero sempre più elevato di studi scientifici ipotizza che il DNA sia una vera e propria lingua che, svolgendo funzioni di meta-comunicazione simili a quella di un’antenna ricetrasmittente, risponde a diversi tipi di frequenze, tra cui quelle del linguaggio e dell’attitudine umani

Sul piano simbolico, infatti, i 64 esagrammi del Libro dei Mutamenti e i 22 Arcani Maggiori del Tarot sembrano essere, rispettivamente, i corrispettivi delle 64 triplette genetiche e dei 22 aminoacidi che, sul piano biologico, governano la costruzione delle proteine, le molecole base della vita

In particolare, dalla loro interazione emerge l’esistenza di strutture definite Codici del Cambiamento o iCode che, in qualità di centri funzionali della coscienza, serbano le chiavi delle dinamiche interiori che sottendono a ogni essere umano. 

Il rivoluzionario lavoro di Bozzelli, dunque, offre un’audace prospettiva sul contenuto dell’I Ching e del Tarot, contenuto che, paragonabile a una tecnologia innovativa espressa da archetipi che si trasformano in Parole Chiave, cioè vibrazioni, consente di compiere una mirabile trasmutazione evolutiva lungo il personale cammino dell’esistenza. 

CARLO BOZZELLI, dopo gli studi di medicina veterinaria e la specializzazione in microbiologia, ha approfondito l’indagine, iniziata sin da giovane, della secolare Tradizione dei Tarocchi. Attraverso una ricerca scientifica e filologica condotta tramite la comparazione dei mazzi del passato e lo studio del millenario simbolismo sacro, sta riscoprendo l’antichissima saggezza custodita nelle Icone oggi note come Tarocchi. In qualità di mastro cartaio, ha restaurato e integrato l’originale gioco dell’incisore marsigliese Nicolas Conver, da molti esperti considerato il più importante modello di riferimento. È ideatore e docente dell’Accademia dei Tarocchi e fondatore dell’Associazione Tarologi Italiani. Autore dei libri Il codice dei Tarocchi (ed. Anima, 2012) e I Tarocchi: il vangelo segreto (Ed. Mediterranee, 2014), tiene conferenze e seminari in Italia e all’estero, pubblicando articoli e testi su riviste e portali on line. 

FRANCESCO D’AYALA è giornalista professionista. Scrittore. Lavora al Giornale radio della Rai. Da inviato si occupa di moltissimi temi quali la cultura, i libri, l’arte, l’archeologia ed i problemi inerenti al patrimonio culturale. 

Presentazione del Libro alla 
relatore: Carlo Bozzelli introduce: Francesco d'Ayala 

14/05/19

La Meravigliosa Coppa di Licurgo e i suoi segreti



Il meraviglioso calice che vedete nella foto possiede una intrigante caratteristica: quando è illuminato da una fonte diretta, esso appare di color verde-giada, mentre se la fonte di luce è posta dietro l’oggetto, esso apparirà di colore rosso sangue.

 Si tratta di un calice di vetro, conosciuto come ‘La Coppa di Licurgo’, acquistato nel 1950 dal British Museum, l’enigmatica proprietà del calice ha sconcertato gli scienziati per decenni.

Una prima risposta arrivò solo nel 1990, quando un team di ricercatori inglesi, esaminando alcuni frammenti del calice al microscopio, scoprì che gli artigiani romani furono pionieri nell’utilizzo di nanotecnologie.

 La tecnica consisteva nell’impregnare il vetro con una miscela di particelle di argento e oro, fino a farle raggiungere le dimensioni di 50 nanometri di diametro, meno di un millesimo delle dimensioni di un granello di sale.

 La precisione del lavoro e la miscela esatta dei metalli preziosi suggerisce che gli artigiani Romani sapessero esattamente quello che stavano facendo e che non si tratta di un effetto accidentale.

“Si tratta di un’impresa straordinaria”, spiega Ian Freestone, archeologo presso l’ University College di Londra. La vetusta nanotecnologia funziona in questo modo: quando il calice viene colpito con la luce, gli elettroni delle particelle metalliche vibrano in maniera tale da alterarne il colore, a seconda della posizione dell’osservatore. Ma una ricerca, di cui dà notizia lo Smithsonian Magazine, rivela alcune novità davvero sorprendenti.

Logan Gang Liu, ingegnere presso l’Università dell’Illinois, si è dedicato per anni allo studio del manufatto, fino a capire che questa antica tecnologia romana può avere utilizzi nella medicina, favorendo la diagnosi di alcune malattie e l’individuazione di rischi biologici ai controlli di sicurezza. 

“I romani sapevano come fare e come utilizzare le nanoparticelle per creazioni artistiche”, spiega il ricercatore. “Noi abbiamo cercato di capire se fosse possibile utilizzarla per applicazioni scientifiche”.

 Dal momento che non era possibile utilizzare il prezioso manufatto, il team guidato da Liu ha condotto un esperimento nel quale sono stati creati una serie di recipienti in plastica intrisi di nanoparticelle d’oro e d’argento, realizzando degli equivalenti della Coppa di Licurgo.

Una volta riempito ciascun recipiente con i più diversi materiali, come acqua, olio, zucchero e sale, i ricercatori hanno osservato diversi cambiamenti di colore.

Il prototipo è risultato 100 volte più sensibile dei sensori utilizzati per rilevare i livelli salini in soluzione attualmente in commercio.

Secondo i ricercatori, un giorno questa tecnica potrà essere utilizzata per rilevare agenti patogeni in campioni di saliva o di urina, e per contrastare eventuali terroristi intenzionati a trasportare liquidi pericolosi a bordo degli aerei.

Non è la prima volta che la tecnologia romana sorprende i ricercatori moderni, superando il livello attuale di conoscenza.

Un esempio è dato dallo studio sulla composizione del calcestruzzo romano, rimasto sommerso nelle acque del Mediterraneo per 2 mila anni.

I ricercatori hanno scoperto che la sua composizione è decisamente superiore al calcestruzzo moderno, sia in termini di durata che di ecocompatibilità.

Le conoscenze acquisite dai ricercatori vengono oggi utilizzate per migliorare il cemento che oggi utilizziamo. Non è ironico che gli scienziati si rivolgano alle tecniche utilizzate dai nostri antenati ‘primitivi’ per lo sviluppo di nuove tecnologie?

Fonte: http://www.ilnavigatorecurioso.it

13/05/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 20. Il cielo sopra Berlino (Der Himmel über Berlin) di Wim Wenders (1987)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 20. Il cielo sopra Berlino (Der Himmel über Berlin) di Wim Wenders (1987)


Nella sua piena maturità artistica, e dopo aver già collezionato almeno 5 film fondamentali per la storia del cinema europeo, e non soltanto europeo,  Wim Wenders realizzò Der Himmel über Berlin avvalendosi nuovamente della stretta collaborazione di Peter Handke, il quale scrisse monologhi e dialoghi del film in progress, mentre il film veniva girato (esistono numerosi aneddoti in proposito).

Quel che ne risultò fu una poetica favola metropolitana, dai valori universali.

La storia del film è quella dell'amore di Damiel per un'acrobata circense.  Dalla fine della seconda guerra mondiale, si immagina, Damiel e Cassiel sono gli angeli vigilanti della città di Berlino, sorvegliando e accudendo i pensieri più intimi della gente.

Nelle pause di lavoro, gli angeli s’incontrano alla biblioteca di Stato, dove Omero, il più anziano di tutti, racconta il passato della città e delle sventure che l’hanno afflitta durante la seconda guerra mondiale. 

Gli angeli, con sottile riferimento teologico, possono essere visti soltanto dai bambini, mentre gli adulti non hanno di loro la benché minima percezione. Viceversa, gli angeli vedono il mondo ma senza poterne cogliere gli aspetti più mondani (la loro vista infatti è in bianco e nero). 

Damiel segue, idealmente innamorato, soprattutto Marion, anche lei sorta di angelo, perché lavora come trapezista di un circo che sta per chiudere per mancanza di spettatori. 

Le domande di Marion intercettano le ansie e i dubbi della contemporaneità: il passaggio inesorabile del tempo, l'annullamento dello spazio perpetrato dalla civiltà moderna ha invertito questo rapporto, ed è così che la dimensione del viaggio è stata annullata. Il problema dell'anima e della identità, e quello del male, che grava sempre sull'uomo. 

A Berlino inoltre si girano le riprese di un film giallo ambientato durante la seconda guerra mondiale che ha come protagonista Peter Falk, il “tenente Colombo” di una serie televisiva di sceneggiati polizieschi di grande successo. 

Anche lui, si scoprirà, un angelo decaduto dalla propria condizione che è diventato un essere mortale.  Il quale, nelle sue vesti "umane"  convincerà Damiel a incarnarsi, per amore di Marion. 

Precipitato nella condizione umana, Damiel si ritrova accanto al muro che divide in due la città e vede improvvisamente i colori del mondo, provando tutte le sensazioni degli esseri mortali: quelle piacevoli e quelle spiacevoli. 

E' proprio in questa commistione tra umano e angelico, tra uomo e oltre-uomo che il film gioca le sue suggestioni filosofico-poetiche, da Dante ad Heidegger. 

Un film insomma, che si respira come una profonda riflessione sulla condizione umana, ma che vola alto sulle ali della poesia, nel meraviglioso bianco e nero di Henri Alekan.

L'opera di Wenders, tra i mille premi in tutto il mondo, conquistò la Palma d'Oro al Festival di Cannes del 1987.

IL CIELO SOPRA BERLINO 
(Der Himmel über Berlin) 
Germania, Francia, 1987, 
Regia Wim Wenders 
durata: 128 minuti
con Bruno Ganz, Solveig Dommartin, Peter Falk, Otto Sander, Curt Bois 

12/05/19

Poesia della Domenica - "Rammarico per le peonie" di Bai Juyi






Rammarico per le peonie


Sono addolorato per le peonie prima dei gradini, così rosse
alla sera ho scoperto che solo due son rimaste
Una volta che i venti della mattina avranno soffiato,
di certo non sopravviveranno,
la notte le guardo alla luce delle lampada,
per custodire quel rosso che sta svanendo.


10/05/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 19. "Toro scatenato" (Raging Bull) di Martin Scorsese (1980)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 19. "Toro scatenato" (Raging Bull) di Martin Scorsese (1980)

Come può una vita intera confluire in un film ?  Sicuramente, per molti versi, Toro scatenato (Raging Bull) realizzato da Martin Scorsese nel 1980 non è soltanto uno dei suoi più grandi capolavori, ma anche il film che - basti leggere il libro-intervista scritto a quattro mani da Scorsese stesso con il giornalista Richard Schickel, Considerazioni su di me e tutto il resto rappresenta la summa delle esperienze vissute da Scorsese all'inizio della sua vita, nella gioventù e nella adolescenza, vissute in quella comunità newyorchese di italo-americani che è lo sfondo e il centro focale di questo magnifico film. 

Toro Scatenato è, come si sa, ispirato dall'autobiografia del pugile italoamericano Jake LaMotta, Raging Bull: My Story, adattata dal grande Paul Schrader, che aveva già sceneggiato per Scorsese Taxi Driver e da Mardik Martin e girato nel meraviglioso bianco e nero di Michael Chapman.

Robert De Niro, nella sua forse più grande interpretazione (che gli valse l'Oscar e innumerevoli altri premi in tutto il mondo) interpreta il ruolo del pugile peso medio, idiota (nel senso dostoevskijano) dal carattere brusco e paranoico, che, cresciuto nel Bronx, si allena tenacemente per raggiungere i vertici della boxe, per poi subire una vera caduta verticale in un degrado ed un cupio dissolvi inesorabile. 

De Niro poi, è più che il semplice interprete di questa storia, visto che fu proprio lui a proporre all'amico Scorsese di realizzare un film dal romanzo autobiografico di La Motta che aveva appena finito di leggere e per il quale voleva assolutamente vestire i panni del protagonista.

E' un film divenuto con gli anni, leggenda.  Anche per le vicende produttive che lo caratterizzarono: dalle esitazioni della United Artists e dei produttori esecutivi spaventati dalla eccessiva violenza, verbale e non, contenuta nel film; ai problemi di salute di Scorsese che non attraversava un buon periodo, sia per problemi d'asma, sia per l'uscita (poco prima dell'inizio delle riprese) dal "tunnel" della dipendenza da cocaina, sia per il fallimento, su ogni fronte (pubblico, critica e spese), del musical New York, New York; dal pazzesco trainer intrapreso da Robert De Niro per girare la seconda parte del film, che comportò, sotto la supervisione del campione di culturismo Franco Columbu, un aumento di peso di circa 30 chili (esempio lampante di un metodo di recitazione estremo, mirato alla riproduzione più  fedele possibile della realtà); all'incredibile montaggio di Thelma Schoonmaker (anche lei premiata con l'Oscar) che rivoluzionò il modo di riprendere le scene pugilistiche, e che fu completato nell'appartamento di Scorsese; all'attenzione maniacale che Scorsese, insieme alla montatrice, dedicarono ad ogni singola inquadratura, motivata dal fatto che il regista era seriamente convinto che dopo il flop di New York New York, questo sarebbe stato il suo ultimo lavoro da regista (quindi una sorta di testamento artistico).  

La trama del film, come dicevamo ispirata alla realtà della società degli immigrati di seconda generazione italo-americani di New York che Scorsese conosceva molto bene, si presenta come una sorta di moderno dramma schakespeariano, in cui la violenza è il linguaggio (la violenza del quartiere, la violenza che a Jake viene richiesta per diventare "qualcuno" e guadagnarsi la celebrità) e in cui la parte del leone è affidata agli intrighi e alle dinamiche familiari, soprattutto quelle tra Jake e il suo fratello-agente intepretato dal geniale Joe Pesci, un rapporto di amore-odio, rivalità, passione, gelosia, paranoia. 

La scalata di Jake verso la gloria sportiva è accompagnata da un progressivo inesorabile allontanamento dalla vita, dalle relazioni umane, e fondamentalmente dalla realtà, con la seconda parte del film che mostra la triste trasformazione di La Motta in una specie di fenomeno da baraccone, alle prese con surreali monologhi comici in locali di quinta categoria. 

Da questo punto di vista quindi il film è anche una variante del più classico dramma faustiano, nel quale vengono sacrificati alla gloria, al successo,  al denaro e ai riconoscimenti, l'autenticità del proprio essere, l'ingenuità del proprio essere e con esso tutto ciò che di autentico esiste nella propria vita.

Appena uscito, il film ricevette pareri contrastanti: alcuni critici ne denunciarono la violenza e la "difficoltà" del personaggio di LaMotta, altri invece ne lodarono il sapiente montaggio e la regia. 

La critica però si accorse subito del valore indiscutibile del film, reazioni che - insieme alle 8 candidature agli Oscar - compensarono almeno parzialmente Scorsese del modesto risultato ai botteghini americani, dominati dai successi stellari di Spielberg e di Lucas degli anni '80. 

A partire dalla fine degli '80 Toro scatenato cominciò ad essere considerato per quel che era: un classico. Nel 1990 il film è stato scelto per la conservazione nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti. Nel 1998 l'American Film Institute l'ha inserito al ventiquattresimo posto della classifica dei migliori cento film statunitensi di tutti i tempi mentre dieci anni dopo, nella lista aggiornata, è salito addirittura, e giustamente, al quarto posto. 

Un film che si vede e si rivede, ogni volta emozionandosi, empatizzando e piangendo con il povero diavolo Jake, con le sue vicissitudini molto, ma molto umane. 

Fabrizio Falconi

Toro Scatenato
Raging Bull 
di Martin Scorsese
Stati Uniti, 1980
Durata 129 min
Robert De Niro, Joe Pesci, Cathy Moriarty, Frank Vincent, Nicholas Colasanto