Visualizzazione post con etichetta stranieri. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta stranieri. Mostra tutti i post

19/02/20

Come la paura dei nuovi virus alimenta la paura per il diverso

Immagine ingrandita del Coronavirus


La paura/fobia dei nuovi virus è da sempre strettamente collegata alla diffidenza/paura dello straniero. 

È un vecchio rito umano quello di "ungere" i diversi per preservarsi

Nei tempi dell'Aids (che comunque è ancora vivo; nei paesi dell'Europa dell'Est e dell'Asia centrale si stima che vi siano, nel 2010, 1,5 milioni di persone sieropositive e che nello stesso anno 160.000 siano stati i nuovi casi di infezione e 90.000 i decessi a causa dell'AIDS) era rassicurante sentirsi al sicuro perché eterosessuali e esenti da droghe.

E in qualche modo era conseguente immaginare una sorta di punizione divina- come è sempre stato - per i diversi.

Il meccanismo è simile per gli stranieri.

La città è al sicuro dentro le sue mura e perciò salva. È quello che proclama Trump con i suoi muri e le famiglie messicane separate a forza alle frontiere. È quello che alimenta psicologicamente i sovranismi esplosi in tutto il mondo dopo l'11 settembre.

Se stranieri e diversi restano fuori, tutto andrà bene. O comunque meglio. La storia dell'umanità però, come scrisse Jared Diamond, non l'hanno fatta solo le armi e l'acciaio, ma anche le malattie.

La circolazione delle malattie tra stirpi diverse ha enormemente rafforzato la razza umana. Mentre comunità chiuse, "protette", racchiuse, si sono rapidamente indebolite e alla fine estinte.

Un mondo di muri e di recinti dove tutti si sentono altri da altri, migliori, diversi, separati, "al sicuro", o peggio ancora predestinati, è un mondo che assomiglia molto all'inferno.

Fabrizio Falconi

31/03/09

Jabès - L'Ospitalità che crea il nostro essere Persone.


Quando morì Edmund Jabès, il 2 gennaio del 1991, si disse subito: uno dei massimi poeti contemporanei. Ma non solo, perché Jabès, l’esule egiziano trapiantato a Parigi, lasciando un corpus di riflessioni e testi filosofici, ha anche esplorato – sempre in modo poetico – alcuni temi capitali della contemporaneità. Uno di questi è il tema dell’accoglienza, dell’essere straniero, dell’ospitalità che sembra, mai come in questi tempi, cruciale per le sorti del mondo.

Cruciale anche per noi cristiani, che dovremmo fare dell'ospitalità all'altro, al clandestino, al rifugiato, all'esiliato, al derelitto, al sofferente, al fuggitivo, al povero, all'emarginato, la nostra bandiera di vita. Purtroppo invece nella nostra bella Italia cristiana succede esattamente il contrario, come illustrato, assai amaramente dal pezzo pubblicato oggi in prima pagina sul Corriere della Sera da Gian Antonio Stella e che potete leggere cliccando qui.

All’ospitalità Jabès dedicò un libro ( in Italia: Il libro dell’Ospitalità – Edmund Jabès, Raffaello Cortina Editore, 1991 ).

E l’ospitalità di cui parla Jabès, la ricchezza maggiore per un individuo, per una persona: è quella che permette a due estranei di incontrarsi e di (ri)conoscersi. Con l’incontro, lo svelamento reciproco:

Posso rivelare il mio nome soltanto a colui che non mi conosce.
Colui che conosce il mio nome, lo rivela a me.

E’ dunque solo l’altro, colui attraverso il quale io posso imparare il mio nome. E’ grazie alla sua accoglienza/ospitalità che io posso identificarmi. Ed è l’attesa di/per qualcuno che genera la sua presenza, le concede significato:

Tu esisti perché io ti attendo.

Anche attendere non è quindi un’operazione passiva, ma creativa. La parola ospite, infatti ha in lingua italiana, una doppia valenza, attiva e passiva: colui che ospita, e colui che è ospitato

L’ospitalità, dice Jabès, è crocevia di cammini. Ma noi sappiamo aspettare l'atteso ? Sappiamo riconoscerlo ? Sappiamo ospitarlo ?
.