Perché Oppenheimer di Christopher Nolan è un grandissimo film per il quale si può scomodare l'abusatissimo termine "capolavoro"?
06/09/23
Perché Oppenheimer è un grandissimo film, anzi, un "capolavoro"?
Perché Oppenheimer di Christopher Nolan è un grandissimo film per il quale si può scomodare l'abusatissimo termine "capolavoro"?
15/11/21
Il mistero della scomparsa di Ettore Majorana - C'è una traccia che porta a Roma ?
La scomparsa di Ettore Majorana è uno dei grandi enigmi irrisolti che ha appassionato a lungo giornalisti e storici. Il geniale fisico catanese infatti, come si sa, scomparve letteralmente nel nulla nel marzo del 1938, dopo aver preso un traghetto della Tirrenia da Napoli a Palermo. Nessuno sa con certezza se giunse mai a destinazione, nessuno sa se mise in opera una geniale messinscena, nessuno sa se si suicidò nelle acque del Tirreno (le ricerche in mare non diedero mai frutti), nessuno sa se – come ha sostenuto il prof. Antonino Zichichi - Majorana, sconvolto da quanto aveva scoperto sull’atomo e preconizzando i disastri che sarebbero provenuti dalle scoperte sull’energia nucleare, non decise di sparire rinchiudendosi in un convento.
In realtà, tra le diverse
piste, la Procura di Roma, che recentemente ha chiuso dopo decenni le indagini,
ha privilegiato quella sudamericana: della scomparsa cioè volontaria del fisico in Venezuela, sotto falsa identità, laddove
la sua presenza sarebbe stata accertata – nella città di Valencia – negli anni
compresi tra il 1955 e il 1959.
Ma l’ipotesi di una
sopravvivenza, sotto falso nome, di Majorana segue anche una pista romana, che
negli ultimi tempi si è arricchita di nuovi particolari.
Secondo un nuovo testimone,
infatti, il grande fisico avrebbe terminato i suoi giorni proprio a Roma, e
nemmeno troppo distante, anzi molto vicino a quell’Istituto di Fisica di via Panisperna
89/a dove insegnava Enrico Fermi e dove si formarono quei geniali ragazzi destinati
a scompaginare la storia della scienza e a far parlare di sé nel mondo intero.
Le ultime tracce di
Majorana, infatti, portano sugli scalini della Università Gregoriana, in piazza
della Pilotta, a pochi passi da Fontana di Trevi.
La testimonianza arriva da
un uomo che asserisce di aver parlato a lungo con quel barbone, incontrato un
giorno del marzo 1981 insieme a monsignor don Di Liegro, fondatore della
Caritas romana (il quale però, essendo scomparso, non può avvalorare la testimonianza).
Secondo il racconto dell’uomo,
il clochard dimostrò di conoscere la soluzione del Teorema di Fermat, un difficilissimo
enigma matematico rimasto irrisolto per quattro secoli, definitivamente sciolto
nel 2000.
Fu proprio monsignor Di
Liegro, racconta il testimone, a confermare l’identità dell’uomo, spiegandogli
che si trattava proprio del grande fisico, il quale, dopo una sosta in un
convento di Napoli, si era trasferito in un altro istituto religioso, nei
pressi di Roma, e da qui si era allontanato, proprio per tornare sui suoi passi, nella zona di Roma cioè dove aveva mosso i
suoi primi passi di brillantissimo fisico.
Di Liegro chiese al
testimone di mantenere il segreto «per almeno quindici anni dopo la mia morte».
E l’uomo decise di
rispettare le volontà del sacerdote.
Vero o falso che sia il
racconto, fa molta impressione ancora oggi immaginare Ettore Majorana nei panni
di un barbone trasandato, tra la folla indifferente, in quella piazza della
Pilotta dove ha sede una delle istituzioni accademiche romane più prestigiose e
in prossimità di quei luoghi dov’era nato il mito dei Ragazzi di via Panisperna.
02/08/21
Libro del Giorno: "Helgoland" di Carlo Rovelli
06/07/21
Libro del Giorno: "Quando abbiamo smesso di capire il mondo" di Benjamìn Labatut
Adelphi sceglie un'opera di Yves Klein del 1960 come felice copertina per un romanzo assai sui generis che è già diventato uno dei casi dell'anno, grazie al passa parola e alle positive (in alcuni casi entusiastiche) recensioni dei giornali.
L'opera di Klein richiama il suo famoso blu e si ricollega subito alla prima parte del libro intitolata appunta Blu di Prussia che racconta le vicende dell’alchimista che all’inizio del Settecento, infierendo sulle sue cavie, crea per caso il primo colore sintetico, lo chiama «blu di Prussia» e si lascia subito alle spalle quell’incidente di percorso, rimettendosi alla ricerca dell’elisir. La scoperta finisce molto tempo dopo nelle mani di un brillante chimico al servizio del Kaiser, Fritz Haber, quando a Ypres constata che i nemici non hanno difese contro il composto di cui ha riempito le bombole e quando intuisce che dal cianuro di idrogeno estratto dal blu di Prussia si può ottenere un pesticida portentoso, lo Zyklon, che verrà poi utilizzato dagli aguzzini nazisti per lo sterminio degli ebrei nei Lager.
La scelta di Adelphi è felice anche nel titolo: nella difficoltà di utilizzare quello originale (Un verdor terrible) si è scelto il titolo di uno dei capitoli, il più lungo, quello riferito alla figura del genio della fisica del Novecento, Heisenberg, il quale all'epoca ventitrenne, durante la tormentosa convalescenza per una forte allergia, sull'isola sperduta nel mare del Nord, di Helgoland, intuisce e scopre che bisogna smettere di capire il mondo come lo si è capito fino a quel momento e avventurarsi verso una forma di comprensione assolutamente nuova. Per quanto terrore possa, a tratti, ispirare: è la nascita della meccanica quantistica, che ha cambiato la storia del mondo e che resta ancora oggi una teoria profondamente misteriosa anche se verificata un numero infinito di volte (basti pensare che gran parte della nostra moderna tecnologia, tra cui telefoni cellulari o internet funziona grazie ad essa), senza mai essere smentita nemmeno una volta.
Benjamín Labatut, l'autore, è uno scrittore cileno nato a Rotterdam nel 1980. Ha trascorso la sua infanzia tra L'Aia, Buenos Aires e Lima, per poi trasferirsi a Santiago del Cile all'età di quattordici anni. E in questo paese vive attualmente in un remoto villaggio sulla Cordigliera. Il suo primo libro di racconti, La Antártica empieza aquí, ha vinto il Premio Caza de Letras nel 2009 e il Santiago Municipal Literature Award – nella sezione racconti – nel 2013. A questo libro sono seguiti Después de la luz e Quando abbiamo smesso di capire il mondo, che è stato nominato per l'International Booker Prize 2021.
Con il suo stile lucido e disturbante, Labatut costruisce un libro strano e diverso dagli altri. L'assunto è forse proprio quello di esplorare il lato demoniaco/distruttivo della scienza che si esprime nelle stesse vicende biografiche ossessivo/compulsive dei geni, che da Heisenberg a Schrodinger, sono i protagonisti del libro.
La scelta di romanzare, cioè di inventare particolari biografici e non mano a mano che il racconto va avanti, è spiazzante per il lettore. E lo costringe ad andare ogni volta a verificare se quello che scrive Labatut è del tutto vero o no.
Poiché l'avvertenza sulla libertà presa dall'autore nel raccontare queste storie è messa alla fine e non all'inizio del libro, qualche lettore potrà anche sentirsi coinvolto in un gioco scomodo. Forse però è proprio quello che Labatut voleva, visto che il tema centrale del libro è proprio il dubbio relativo alla esistenza di quello che noi chiamiamo "reale", sulla consistenza del quale è proprio la scienza moderna a farci dubitare.
Cosa è vero, cosa no? Chi e cosa sono queste menti geniali che hanno scoperchiato abissi?
La cosa certa è che grazie a Labatut si imparano molte cose su argomenti su cui abbiamo letto tanto, senza mai finire di meravigliarsi di quanto il mistero in cui siamo calati sia spaventosamente fitto e infinitamente complicato.
La mancanza di qualsiasi parvenza di oggettività in quello che noi pensiamo/vediamo/ realizziamo, rispetto al piano di "realtà" - ammesso che esista poi, una realtà - è sconvolgente, dato che le cose nella fisica quantistica sembrano esserci, esistere soltanto se e quando qualcuno le osserva (influenzandolo fra l'altro).
È la via che ha preferito Benjamín Labatut in questo singolarissimo e appassionante libro, ricostruendo alcune scene che hanno deciso la nascita della scienza moderna. Ma, soprattutto, offrendoci un meraviglioso intrico di racconti, e lasciando scegliere a noi quale filo tirare, e se seguirlo fino alle estreme conseguenze.
L'unica pecca per un libro così bello è la cura editoriale - assai strano per un editore come Adelphi - che scivola sul piano dei refusi e della impaginazione. Nella edizione cartacea c'è addirittura una intera riga completamente saltata a fondo pagina, più tanti altri piccoli errori piuttosto imbarazzanti.
20/11/19
Incredibile ! Secondo gli scienziati, "Angeli e Demoni", la famosa opera di Escher, svela come si deforma la materia
25/09/19
Ogni cosa è correlata, nell'Universo. Tutto fa parte del Tutto. Le incredibili proprietà dell'Entanglement Quantistico
03/01/19
"La Teoria del Tutto" una bellissima intervista di Laura Traldi al cosmologo Roberto Trotta. "Perché esistiamo?" è la domanda più difficile.
Senza Einstein, non avremmo il GPS. E niente WiFi, se Stephen Hawking non avesse scoperto i buchi neri. «La ricerca spaziale rivoluziona la vita di tutti i giorni», dice il cosmologo Roberto Trotta che abbiamo incontrato al Web Summit di Lisbona. «Ma potrà anche un giorno dare una risposta alla Grande Domanda: perché esistiamo?»
Come mai è così difficile per gli scienziati spiegare quello che sanno?
Mi illumini, la prego. Mi sono sempre chiesta che senso avesse calcolare la differenza di età tra un gemello nello spazio e l’altro sulla terra.
Senza Einstein niente GPS, dunque?
Mi faccia un altro esempio.
Che c’entra il wi-fi con i buchi neri?
In che modo?
Ci ha convinti. Ma perché è così importante per gli scienziati coinvolgere un pubblico allargato?
Se questa è una delle risposte possibili, quali sono le altre?
Quindi saremo in grado di spiegare il senso della vita?
E la risposta?
L’universo sarebbe cioè uno dei mille possibili ma anche l’unico in grado di farci vivere?
A questo punto mi gira la testa.
15/03/18
"I due più importanti incontri della mia vita: con Krishnamurti e con Albert Einstein". Una bellissima intervista a proposito del grande fisico David Bohm.
02/03/18
Libro del Giorno: "Atlante Occidentale" di Daniele Del Giudice, un grande romanzo da recuperare.
Atlante Occidentale, però, rimane un unicum nella produzione letteraria italiana degli ultimi decenni, qualcosa di completamente diverso rispetto alla medietà delle storie, delle ambientazioni e soprattutto dello stile abituale, soprattutto degli esordienti o post esordienti.
Del Giudice, dunque, nel pieno degli anni '80 dell'effimero italiano, dell'Italia da Bere, dell'edonismo e dei paninari, sfornò un'opera che obbediva sorprendentemente ai canoni delle Lezioni di Calvino: leggerezza (il romanzo si apre addirittura con una lunga scena di volo, durante la quale due aereoleggeri rischiano di scontrarsi), rapidità (soltanto 152 pagine), esattezza (una cura maniacale nella ricerca delle parole) visibilità (è il vero tema del libro, tutto giocato sulla differenza, sul contrasto tra visibile e invisibile), molteplicità (l'utilizzo di uno stile assolutamente originale che utilizza la narrazione al passato e al presente in un continuo alternarsi anche dentro lo stesso capoverso), coerenza (un'opera che si conclude e offre quel che ha da dire, senza perdersi in divagazioni o sviluppi incoerenti).
Una trama apparentemente poco accattivante per il pubblico (di allora come di quello di oggi) e altamente sofisticata: un fisico italiano - Pietro Brahe - impegnato a tempo pieno (notte e giorno) nei complessissimi lavori dell'acceleratore nucleare del CERN di Ginevra e un grande scrittore alla soglia del massimo riconoscimento - Ira Epstein - che ha deciso di non scrivere più ed è interessato alla realizzazione di un Atlante della Luce, l'atlante di una geografia diversa, dove si vede a grandezza naturale ed è legata non solo ai luoghi, ma alle persone.
Incrociatisi per caso sul campo di volo, Brahe e Epstein diventano conoscenti e poi amici sullo sfondo della asettica Svizzera di bianche villette e giardini e cielo bianco e azzurro estivo, e villaggi tranquilli e silenziosi, e lungolaghi eleganti e auto di lusso.
Il dialogo è soprattutto filosofico. Brahe è concentrato a trovare le cose che non si vedono: a trovare le tracce di sfuggentissime particelle subatomiche nel grande anello dell'acceleratore; Epstein è invece interessato a capire come si formano le cose che lui vede nella sua mente e che sono già vere, prima di divenire parole.
Lunghe dispute avvengono dunque su questo sfondo argomentativo, mentre si affiancano altri personaggi: l'assistente di Epstein, Gilda; il collega e sodale di Pietro, il tedesco Rudiger, il capoprogetto Mark.
E' un romanzo fatto di attesa e di tempi sospesi, dove nulla di reale sembra succedere veramente. Dove, come si rivela nelle ultime pagine, ciò che conta è l'esistenza di un sentimento che dà forma alle parole e che allo stesso tempo prende forma dalle parole stesse.
Il virtuosismo di Del Giudice, mai fine a se stesso, è tale, che nell'epilogo del libro, si può mettere in bocca ad Epstein una descrizione di fuochi d'artificio (a cui assistono i due protagonisti) lunga 7 pagine.
Dopo molti anni, il romanzo di Del Giudice conferma la sua grande novità, mantenendo intatto il suo fascino enigmatico (in fondo anche profetico viste le incredibili sorprese che l'acceleratore Large Hadron Collider ha portato negli ultimi tempi con la scoperta del Bosone di Higgs) e accresce il rammarico che l'opera di questo autore non abbia potuto dispiegarsi completamente.
Un romanzo sui generis, in controtendenza rispetto al gusto comune e non facile, ma strettamente rigoroso, in termini, lingua e contenuti.
Che segna la distanza temporale dall'oggi se non altro per la constatazione che un romanzo come questo, nella Italia di oggi, non troverebbe mai un editore disposto a pubblicarlo.
Daniele Del Giudice
Atlante occidentale
1985-2009
Einaudi Scrittori
pp. 178 € 11,00
Fabrizio Falconi
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