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26/12/16

Chi era Stefano - Il protomartire cristiano e la storia delle reliquie.




La celebrazione liturgica di s. Stefano è stata da sempre fissata al 26 dicembre, subito dopo il Natale, perché nei giorni seguenti alla manifestazione del Figlio di Dio, furono posti i comites Christi, cioè i più vicini nel suo percorso terreno e primi a renderne testimonianza con il martirio. 

Così al 26 dicembre c’è s. Stefano primo martire della cristianità, segue al 27 s. Giovanni Evangelista, il prediletto da Gesù, autore del Vangelo dell’amore, poi il 28 i ss. Innocenti, bambini uccisi da Erode con la speranza di eliminare anche il Bambino di Betlemme; secoli addietro anche la celebrazione di s. Pietro e s. Paolo apostoli, capitava nella settimana dopo il Natale, venendo poi trasferita al 29 giugno. 

Di s. Stefano, si ignora la provenienza, si suppone che fosse greco, in quel tempo Gerusalemme era un crocevia di tante popolazioni, con lingue, costumi e religioni diverse; il nome Stefano in greco ha il significato di “coronato”

Si è pensato anche che fosse un ebreo educato nella cultura ellenistica; certamente fu uno dei primi giudei a diventare cristiani e che prese a seguire gli Apostoli e visto la sua cultura, saggezza e fede genuina, divenne anche il primo dei diaconi di Gerusalemme

Gli Atti degli Apostoli, ai capitoli 6 e 7 narrano gli ultimi suoi giorni; qualche tempo dopo la Pentecoste, il numero dei discepoli andò sempre più aumentando e sorsero anche dei dissidi fra gli ebrei di lingua greca e quelli di lingua ebraica

I dodici Apostoli allora riunirono i discepoli e vennero eletti, Stefano uomo pieno di fede e Spirito Santo, Filippo, Procoro, Nicanore, Timone, Parmenas, Nicola di Antiochia; a tutti, gli Apostoli imposero le mani; la Chiesa ha visto in questo atto l’istituzione del ministero diaconale. 

La tradizione dice che Stefano compiva grandi prodigi tra il popolo, non limitandosi al lavoro amministrativo ma attivo anche nella predicazione, soprattutto fra gli ebrei della diaspora, che passavano per la città santa di Gerusalemme e che egli convertiva alla fede in Gesù crocifisso e risorto. 

Nel 33 o 34 ca., gli ebrei ellenistici vedendo il gran numero di convertiti, sobillarono il popolo e accusarono Stefano di “pronunziare espressioni blasfeme contro Mosè e contro Dio”. 

Gli anziani e gli scribi lo catturarono trascinandolo davanti al Sinedrio e con falsi testimoni fu accusato: “Costui non cessa di proferire parole contro questo luogo sacro e contro la legge. Lo abbiamo udito dichiarare che Gesù il Nazareno, distruggerà questo luogo e cambierà le usanze che Mosè ci ha tramandato”. E alla domanda del Sommo Sacerdote “Le cose stanno proprio così?”, il diacono Stefano pronunziò un lungo discorso, il più lungo degli ‘Atti degli Apostoli’, in cui ripercorse la Sacra Scrittura dove si testimoniava che il Signore aveva preparato per mezzo dei patriarchi e profeti, l’avvento del Giusto, ma gli Ebrei avevano risposto sempre con durezza di cuore. 

Fu il colmo, elevando grida altissime e turandosi gli orecchi, i presenti si scagliarono su di lui e a strattoni lo trascinarono fuori dalle mura della città e presero a lapidarlo con pietre, i loro mantelli furono deposti ai piedi di un giovane di nome Saulo (il futuro Apostolo delle Genti, s. Paolo), che assisteva all’esecuzione

In realtà non fu un’esecuzione, in quanto il Sinedrio non aveva la facoltà di emettere condanne a morte, ma non fu in grado nemmeno di emettere una sentenza in quanto Stefano fu trascinato fuori dal furore del popolo, quindi si trattò di un linciaggio incontrollato. 

Gli Atti degli Apostoli dicono che persone pie lo seppellirono, non lasciandolo in preda alle bestie selvagge, com’era consuetudine allora; mentre nella città di Gerusalemme si scatenò una violenta persecuzione contro i cristiani, comandata da Saulo

Dopo la morte di Stefano, la storia delle sue reliquie entrò nella leggenda; il 3 dicembre 415 un sacerdote di nome Luciano di Kefar-Gamba, ebbe in sogno l’apparizione di un venerabile vecchio in abiti liturgici, con una lunga barba bianca e con in mano una bacchetta d’oro con la quale lo toccò chiamandolo tre volte per nome. 

Gli svelò che lui e i suoi compagni erano dispiaciuti perché sepolti senza onore, che volevano essere sistemati in un luogo più decoroso e dato un culto alle loro reliquie e certamente Dio avrebbe salvato il mondo destinato alla distruzione per i troppi peccati commessi dagli uomini. 

Il prete Luciano domandò chi fosse e il vecchio rispose di essere il dotto Gamaliele che istruì s. Paolo, i compagni erano il protomartire s. Stefano che lui aveva seppellito nel suo giardino, san Nicodemo suo discepolo, seppellito accanto a s. Stefano e s. Abiba suo figlio seppellito vicino a Nicodemo; anche lui si trovava seppellito nel giardino vicino ai tre santi, come da suo desiderio testamentario. 

Infine indicò il luogo della sepoltura collettiva; con l’accordo del vescovo di Gerusalemme, si iniziò lo scavo con il ritrovamento delle reliquie. 

La notizia destò stupore nel mondo cristiano, ormai in piena affermazione, dopo la libertà di culto sancita dall’imperatore Costantino un secolo prima. 

Da qui iniziò la diffusione delle reliquie di s. Stefano per il mondo conosciuto di allora, una piccola parte fu lasciata al prete Luciano, che a sua volta le regalò a vari amici, il resto fu traslato il 26 dicembre 415 nella chiesa di Sion a Gerusalemme. 

Molti miracoli avvennero con il solo toccarle, addirittura con la polvere della sua tomba; poi la maggior parte delle reliquie furono razziate dai crociati nel XIII secolo, cosicché ne arrivarono effettivamente parecchie in Europa, sebbene non si sia riusciti a identificarle dai tanti falsi proliferati nel tempo, a Venezia, Costantinopoli, Napoli, Besançon, Ancona, Ravenna, ma soprattutto a Roma, dove si pensi, nel XVIII secolo si veneravano il cranio nella Basilica di S. Paolo fuori le Mura, un braccio a S. Ivo alla Sapienza, un secondo braccio a S. Luigi dei Francesi, un terzo braccio a Santa Cecilia; inoltre quasi un corpo intero nella basilica di S. Lorenzo fuori le Mura. 

La proliferazione delle reliquie, testimonia il grande culto tributato in tutta la cristianità al protomartire santo Stefano, già veneratissimo prima ancora del ritrovamento delle reliquie nel 415. 

Chiese, basiliche e cappelle in suo onore sorsero dappertutto, solo a Roma se ne contavano una trentina, delle quali la più celebre è quella di S. Stefano Rotondo al Celio, costruita nel V secolo da papa Simplicio

Ancora oggi in Italia vi sono ben 14 Comuni che portano il suo nome; nell’arte è stato sempre raffigurato indossando la ‘dalmatica’ la veste liturgica dei diaconi; suo attributo sono le pietre della lapidazione, per questo è invocato contro il mal di pietra, cioè i calcoli ed è il patrono dei tagliapietre e muratori.


La Basilica di Santo Stefano Rotondo al Celio, Roma

18/04/11

QUANDO PIETRO DOMANDO’: “DOMINE, QUO VADIS?” – UN LUOGO DIMENTICATO.




Gli americani ci hanno realizzato sopra addirittura un kolossal, uno dei maggiori incassi di sempre al botteghino, quel "Quo vadis ?", regia di Mervyn LeRoy, che nel 1951, ricostruì una Roma antica di cartapesta, commuovendo le platee con la storia dell’amore impossibile tra il patrizio romano Marco Vinicio-Robert Taylor e la bella cristiana Licia-Deborah Kerr.

In realtà il ‘drammone’ sentimentale era solo il pretesto per raccontare, in forma popolare e romanzata, l’alba del Cristianesimo a Roma, il periodo più buio e terribile della sua storia, quando le persecuzioni dei Romani causarono migliaia di vittime presso gli adepti della nuova religione ‘importata’ dalla lontana Palestina.

Il film, basato sull’opera letteraria dello scrittore polacco Henryk Sienkiewicz che per l’omonimo romanzo ricevette il premio Nobel nel 1905, terminava con un famoso passo riportato dalla tradizione storica, quello di San Pietro che lascia Roma, a causa della persecuzione, e lungo la Via Appia incontra Gesù Cristo morto e risorto molti anni prima, che alla domanda di Pietro: “ Domine, quo vadis ? “ , “ Signore dove vai?” , risponde: “ Venio iterum crucefigi, “ , e cioè “ Vengo a farmi crocifiggere di nuovo “.

E’ un severo ammonimento, non il primo a dir la verità, anche leggendo i Vangeli, che il Signore rivolge al suo apostolo preferito, quello sul quale ha stabilito che venga costruita la sua Chiesa. Da questo ammonimento Pietro deduce che non è il caso, per lui, di fuggire il martirio. Cambia direzione di marcia, fa ritorno nell’Urbe, e poco tempo dopo finisce i suoi giorni sul Colle Vaticano nello stesso brutale modo imposto al Messia, e cioè crocefisso, ma, per sua stessa richiesta - giudicandosi indegno di questa emulazione - con la testa in giù.

Tutto ciò noi sappiamo appunto, da una tradizione prima orale, poi scritta, millenaria, giunta fino a noi dalla prima, primissima comunità cristiana.
In realtà del martirio di Pietro, dal punto di vista delle conferme storiche, nulla si sa. Nulla viene detto negli Atti degli Apostoli, così come della morte di San Paolo, che la tradizione vuole sia avvenuta sulla Via Ostiense, dove oggi sorge la Basilica a lui intitolata, e dove riposano le sue spoglie.

Le notizie su ciò che accadde nel primo secolo ai cristiani, nella Roma di Nerone, arriva ai nostri giorni con fonti unicamente pagane, che però, da un punto di vista filologico, sono ancora più attendibili delle credenze o dei racconti religiosi.

Così sia Tacito, che Lattanzio, o Sulpicio Severo, concordano nel racconto del martirio dei due apostoli, simboli della cristianità, nei modi e nei luoghi che la tradizione continua a perpetuare.
E oggi gli studiosi sono in grado anche di speculare sulle date esatte del sacrificio di Paolo, come di quello di Pietro.

Quindi, nonostante l’assenza di un racconto neo-testamentario, ci sono pochi motivi per dubitare che qualcosa debba essere successo in quel punto dell’Appia antica che ancora oggi esiste, quel punto esatto nel quale antica regina viarum si biforca dando vita alla via Ardeatina.
E’ un piccolo luogo di culto, oggi quasi del tutto dimenticato, soprattutto dai romani, anche se per molto tempo fu venerato come uno dei più insigni santuari della città.
Vi si ferma qualche raro torpedone di turisti giapponesi incuriositi dall’aneddoto che qui si celebra.

E invece è, ancora oggi, un luogo denso di fascino e di interesse.
Riedificata nel 1620 la chiesetta del ‘Domine quo vadis’ si chiama in realtà ‘ Santa Maria in Palmis ‘ , e anche questo nome si riferisce all’episodio dell’incontro di San Pietro con il Signore. Al termine di questo prodigioso incontro, infatti, riferisce la tradizione, il vecchio bastone nodoso usato dall’apostolo ormai in là con gli anni per camminare – un bastone scolpito nel legno di ulivo – miracolosamente fiorì, come se fosse appena stato reciso. E si sa che ‘palmis’ è appunto il nome latino della pianta di ulivo.

Entrando nella chiesetta oggi, si resta colpiti dall’atmosfera fuori dal tempo che vi si respira. Una sola piccola navata, e un modesto affresco nell’abside. Poi, facendo attenzione ai particolari, si scopre sul pavimento una striscia lastricata larga un paio di metri, che va da una parete all’altra della chiesa, dove campeggiano due affreschi, uno raffigurante San Pietro, e l’altro Gesù Cristo, nell’atto di quel famoso incontro.

La striscia lastricata, come avverte una lapide sul muro è stata realizzata, in occasione del rinnovo seicentesco della chiesa con i selci prelevati direttamente dalla Via Appia, distante del resto pochi metri.

Ed ecco, al centro di questa striscia, conservata sotto una arrugginita grata di ferro, una antica pietra del tutto consunta dall’adorazione dei fedeli, con l’impronta di due piedi. Cosa significa questo ? Si tratta di una delle reliquie più preziose e più misconosciute esistenti a Roma, perché si tratterebbe, secondo la tradizione millenaria, appunto, dell’impronta lasciata nientemeno che dai piedi di Gesù Cristo. Apparizione immateriale, spirito, ma abbastanza concreta da lasciare una così evidente traccia di sé.

Documentandosi meglio, si apprende poi che questa pietra, lasciata nella chiesa del Domine quo vadis al culto dei fedeli, è in realtà la sostituzione della vera pietra miracolosa che, dalla notte dei tempi fu spostata per una esigenza di maggiore protezione.

Spostata dove ? Non molto lontano, in realtà: la pietra sulla quale avrebbe posato i piedi il Dio dei Cristiani è attualmente sempre lungo la Via Appia, conservata nella chiesa di San Sebastiano, nella prima cappella a destra, detta appunto, cappella delle reliquie.

E’ curioso come molti cittadini italiani, e romani, credenti e praticanti, siano attratti dalla Terra Santa, dalla comprensibile attrattiva di visitare i luoghi che ‘parlano’ della presenza di Gesù, ignorando magari che a pochi metri da casa loro esistono testimonianze così suggestive della presenza del Cristo nella Città Eterna.

Una cosa che ben sapeva Henryk Sienckiewicz, che pure veniva da molto lontano, dalla Polonia, ma conosceva a menadito la storia e l’inesauribile tesoro che si cela nei luoghi di culto e nel sottosuolo di Roma.

Nel corso delle sue numerose visite, lo scrittore polacco visitava spesso, con un’opera di Tacito in mano, e con molto scrupolo, il Foro Romano. Poco prima di iniziare a scrivere “ Quo vadis ? “ , nella primavera del 1893, soggiornò a lungo all’hotel in via Bocca di Leone. Gli faceva da guida nelle sue visite romane un amico, il pittore Henryk Siemiradzki, anch’egli appassionato cultore della Roma antica. Fu proprio lui a condurlo in un giorno di quella primavera attraverso i segreti dell’Appia Antica. Sinckiewicz rimase colpito da quella piccola chiesa, al bivio con la via Ardeatina. Entrarono, e - dobbiamo presupporre – i due polacchi subirono quello stesso fascino che ancora oggi è possibile respirare in questo piccolo edificio dalla storia così alta.

Fu proprio lì, raccontò parecchi anni più tardi, che Sinckiewicz ebbe l’ispirazione per scrivere un grande romanzo storico sulla persecuzione dei cristiani e sulla Roma di Nerone.
“ Quo vadis ? “ battè i record mondiali per numero di traduzioni (uscì anche in arabo, giapponese, persiano ), oltre a coronare il primo premio Nobel per la Polonia. Niente male per un libro scritto in tre anni di lavoro. Sinckiewicz terminò di scrivere a Nizza, nel febbraio del 1896 e le ultime parole del suo romanzo sono ancora oggi molto toccanti:
“ E così trapassò Nerone, come passa il vento e la tempesta, fuoco, guerra o gelo, e la basilica di San Pietro domina da allora dalle vette del Vaticano, sulla città e sul mondo. “

Anche se oggi i romani appaiono piuttosto distratti riguardo la loro storia – ma questa forse è stata una costante nei secoli, con rare eccezioni – segni del passaggio di questo illustre ‘cittadino ad honorem ‘ restano e numerosi ancora oggi: a lui è intitolata una piazza, proprio al limitare di quella Villa Borghese che amava moltissimo. Così come non poteva mancare un ricordo in quella chiesa, che egli ha reso famosa nel mondo. Subito all’entrata di Santa Maria in Palmis, infatti, sulla sinistra, un busto in bronzo riproduce la sua effige, a perenne memoria.

Non solo: in Via Bocca di Leone, una lapide murata nel 1966 ( nel cinquantesimo anniversario della morte ) ricorda lo scrittore con questa dicitura: “Henryk Sinckiewicz, scrittore e patriota polacco, epico narratore delle eroiche gesta della sua nazione, autore del romanzo Quo vadis, premio Nobel per la letteratura, dimorò in questo albergo nell’anno 1893, nel cinquantenario della sua morte, Italiani e Polacchi posero. “


Fabrizio Falconi