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02/01/24

"SALTBURN" IL FILM DI EMERALD FENNELL, GENIALE E DISTURBANTE


"Saltburn" è quello che una volta si definiva un film "disturbante".

Lo ha scritto e diretto la geniale londinese trentottenne Emerald Fennell, alla seconda prova dopo l'assai interessante "Una donna promettente", candidato all'Oscar 2021 come migliore sceneggiatura e al Golden Globe come miglior film drammatico.
La Fennell lanciata dalla serie di successo "Killing Eve", da lei ideata e scritta, è ormai diventata un po' la gallina dalle uova d'oro del nuovo cinema anglosassone.
E lo è per merito, perché i suoi lavori sono sempre originali, spiazzanti, qualitativamente alti, notevoli per scrittura e realizzazione.
Con "Saltburn" la Fennell non ha avuto paura di compiere un passo ulteriore, affrontando un copione tutto 'in negativo', una specie di discesa ad inferos, realizzata attraverso la particolarissima "formazione" di un apparente "absolute beginner" (di famiglia borghese) alla scoperta del mondo della alta nobiltà britannica.
Sostanzialmente alla Fannell interessava provare a realizzare un film "cattivo", un film cioè sul male, sulla corruzione, sulla trasgressione, sul rovesciamento delle parti sociali, sulla vendetta, l'ambiguità e sulla frustrazione, partendo da esempi illustri come "Il servo" di Joseph Losey (1963), capolavoro del cinema inglese, oppure lo stesso "Parasite" di Bong Joon Ho dominatore degli Oscar 2019.
Si può dire poco della trama, se non si vuole spoilerare e dunque rovinare il piacere dello spettatore nello scoprire le molte sorprese che si dipanano lungo la storia.
Basterà dire che Barry Keoghan (uno dei tanti bravissimi attori qui convocati) straordinario nell'impersonare il luciferino Oliver Quick (evidente richiamo ad Oliver Twist) approdato a Oxford come studente, cerca in ogni modo di diventare amico dell'irraggiungibile Felix, bellissimo e ricchissimo, appartenente alla aristocratica famiglia dei Catton.
Nella primaria illusione che Oliver sia soltanto un innocuo e tenero parvenu in cerca d'affetto, è nascosta invece la rivelazione di una terribile escalation di crudeltà, che al termine delle due ore, non conosce alcun riscatto morale.
"Saltburn" è una favola nera, che mette a nudo l'incapacità post-moderna di riconoscere e vivere i sentimenti - quindi direi, molto attuale - e il tentativo generalizzato di scambiarli con emozioni ed esperienze forti, in grado di annullare la richiesta che ogni sentimento ci chiede: quella della consapevolezza.
Oliver è una brillante personificazione del male, e il suo balletto finale, con nudo integrale, attraverso le sale del castello dei Catton, un colpo assoluto di genio (oltre che un virtuosismo registico).
Detto questo, la Fannell stavolta sembra esagerare: alcune trovate paiono fuori luogo, inutilmente trasgressive, immotivate. E anche la scrittura non ha un crescendo così irresistibile come quella del suo film precedente (che non ha mai cadute).
Barry Keoghan, dopo "Dunkirk" di Nolan, "Il sacrificio del servo sacro" di Lanthimos e "Gli spiriti dell'Isola" di Mc Donagh si conferma uno straordinario giovane attore, al quale questo personaggio si attaglia in modo perfetto (nato a Dublino nel quartiere di Summerhill, Barry è nato da una madre eroinomane, quindi dai 5 ai 12 anni fu affidato a tredici famiglie affidatarie diverse, assieme a suo fratello Eric, potendo vedere la madre soltanto nei fine settimana. Nel 2004 la madre morì a trentuno anni per un'overdose, lui e il fratello furono affidati alla nonna e alla zia.)
Accanto a lui, un ottimo cast che mette insieme giovani talenti del cinema anglosassone, tra cui l'australiano Jacob Elordi, nei panni di Felix, oltre a Rosamund Pike e la stessa Carey Mulligan nella parte di Pamela.
Esteticamente il film si fa apprezzare per la brillante regia che ripropone i colori e le atmosfere di "Patrick Melrose" (la serie) e per le musiche, sempre adeguate e originali.
Un film che va visto, e che anche se, mentre lo si vede, si fa di tutto per non prenderlo sul serio, alla fine lascia molta inquietudine e molte domande, il che - nel cinema di oggi - è un raro pregio.

Fabrizio Falconi - 2023

29/12/23

IL NASO SOMIGLIANTE, MA RIGIDO DI BRADLEY COOPER E' COME IL SUO FILM


Non mi ha coinvolto "Maestro" di Bradley Cooper, 2023, uscito in première mondiale sotto Natale (presumo per poter gareggiare per gli Oscar di quest'anno, e probabilmente farne man bassa).

E' un film di sforzo produttivo notevolissimo (c'è un esercito di produttori tra cui spiccano Martin Scorsese e Steven Spielberg) e tutti sappiamo - dalle molte interviste rilasciate per il lancio del film - che Bradley Cooper, anche regista, ha realizzato uno sforzo titanico, durato 5 anni, per rendere e rendersi il più somigliante possibile a Leonard Bernstein, curandone maniacalmente ogni aspetto: gestualità, voce, modo di fumare (la sigaretta è qui una sorta di protesi attaccata alla sua mano), tic, impeti durante la direzione d'orchestra, modo di sorridere, ecc..
E però, alla fine, è proprio questo il punto: è un film davvero TROPPO costruito, troppo perfetto, troppo studiato, preparato. E come è noto, dalla perfezione è raro che nasca qualcosa di realmente coinvolgente ("dai diamanti non nasce nulla, dal letame nascono i fior..." cantava Fabrizio De André).
Il simbolo di questa perfezione è il naso "alla Bernstein" che Cooper si è fatto installare sul volto. E' perfetto, è il naso "DI" Bernstein, ma è terribilmente rigido (essendo di lattice, presumibilmente): quindi quando parla, nei rari primi piani, ci si accorge del trucco, perché sembra di gesso e non fa una minima piega che segua le espressioni del volto.
Insomma, Cooper ha realizzato un ottimo e bel film, ma senza anima, come il suo naso. Perché anche la sua prestazione-monstre di attore a tutto campo, mentre dirige, fa parte di quel modo di recitare che appartiene più al tipo di recitazione da Museo delle Cere, che all'arte del Cinema.
Ricorda, fatte le debite proporzioni, il Craxi di Favino di qualche anno fa: anch'esso mostruosamente somigliante (migliaia di ore di trucco, come qui in "Maestro"), ma non una vera grande "prova d'attore", perché l'arte della recitazione non è imitazione, ma interpretazione: è inventare, rielaborare, fornire nuovi contributi per la comprensione di un essere umano o dei sentimenti umani, non pedissequa ricostruzione: quella è un'altra arte, è l'arte del documentario, del racconto biografico.
Ma il Biopic va sempre alla grande, ed è la strada più sicura, per raggiungere il massimo del plauso e dei riconoscimenti (primariamente, Oscar).
Detto questo, il pregio encomiabile del film è nella regia: qui Cooper ha cercato coraggiosamente strade originali, con l'utilizzo di molti (forse troppi) campi lunghi, molte inquadrature fisse, molti piani sequenza. Perfino nella scena madre del film, quella del litigio tra i coniugi che, potendo contare su due attori straordinari come Cooper e la Mulligan, si svolge INTERAMENTE in campo lungo, senza mai mostrare l'espressione in primo piano, del volto di uno di loro.
Tutto questo confeziona una veste di grande eleganza al film (comunque indeciso tra diversi stili, perché nella prima parte sembra orientarsi al musical, mentre nel prosieguo diventa racconto intimista), una eleganza però fredda, priva di vero coinvolgimento.
E' chiaro che a Cooper interessava soprattutto tessere l'elogio di una relazione amorosa - quella tra Bernstein e la moglie Felicia - difficile e anticonformista, basata sull'eroico senso di tolleranza di lei, che accetta di vivere con un uomo-artista diviso a metà, diviso cioè tra la moglie e i figli, e i suoi continui e sempre più importanti amori maschili.
In questo, Carey Mulligan si conferma forse la migliore attrice oggi in circolazione, e regala grazia e commozione al suo personaggio, anche se nei continui dialoghi quasi sempre circonvoluti, di cui è disseminato il film, quasi mai si riesce a cogliere il pieno senso di questo "patto" esistente tra i due e il vero, misterioso, legame che li unisce.
Ultima notazione: la musica NON è l'elemento più importante del film, e sembra rimanere piuttosto in sottofondo, con l'unica eccezione del lunghissimo piano sequenza della esecuzione in chiesa del finale della Sinfonia n. 2 di Mahler, che è anche la scena dove Cooper quasi si supera nel gioco di vero-simiglianza con il Maestro.

Fabrizio Falconi - 2023

21/11/23

Violenza di Genere: "Una donna promettente" (Promising Young Woman) - Un film che tutti gli uomini (maschi) dovrebbero vedere


Visto ieri sera, "Promising Young Woman" ("Una donna promettente", in italiano), è un film tosto e femminista, che è soprattutto un prodigio di sceneggiatura (ha vinto infatti nel 2021 tutti i premi per questa categoria, dall'Oscar al Bafta): una specie di bomba a orologeria, che impedisce di interrompere la visione del film finché non l'hai finito.
Opera della geniale Emerald Fennell, 38 anni, attrice, sceneggiatrice e regista britannica considerata una dei più notevoli talenti emergenti sulla scena internazionale.
La Fennel, che firma anche la regia - misurata sui toni della farsa/commedia che degenerano presto in dramma - con colori pastello e spesso inquadrature "sporche", imbastisce una vera e propria lezione antropologica sulla "vendetta".
Carey Mulligan (bravissima, come sempre, soltanto un po' fuori ruolo perché più grande di età del ruolo che le è assegnato) è Cassandra - detta Cassie - Thomas, che a 30 anni vive ancora i genitori e nonostante un passato brillante come studentessa di medicina, ha abbandonato gli studi e si è reclusa a fare la cameriera in una banale caffetteria.
La ex- "giovane donna promettente" - scopriamo, si dedica però di notte, fingendosi ubriaca nelle discoteche, alla umiliazione di maschi frustrati (scelti in modo apparentemente casuale) che sperano di approfittare di lei e della sua condizione di alcolista, per stuprarla.
Ben presto si scoprirà che c'è del metodo (eccome!) in questa follia e anche delle pesantissime motivazioni.
Nulla, nello svolgimento del film resta senza motivo e nulla va fuori posto, perché la Fennell ha le idee molto chiare e non è disposta a fare sconti in nome del box office o del politically correct, con una scena, verso la fine, costituita da un piano sequenza unico in lentissimo zoom, che da sola vale il prezzo del biglietto, e costringe lo spettatore ad assistere alla catastrofe morale che segue la frustrazione e l'incapacità di sentire in modo "umano".
Le produttrici del film sono la stessa Carey Mulligan e Margot Robbie alla quale la Fennell aveva inviato la sceneggiatura, nella speranza di poter essere sostenuta, per realizzarla.
Ne è venuto fuori un film tutto al femminile che vale più dei fiumi di inchiostro di ponderosi saggi e delle centinaia di inutili talk show sullo (scabroso) tema della violenza maschile.


Fabrizio Falconi - 2023

11/06/23

"Via dalla Pazza Folla" di Thomas Vinterberg, una convincente trasposizione da Thomas Hardy, con una splendida Carey Mulligan

Ancora una volta ho apprezzato la grande qualità e la versatilità del regista di "Festen", "Il sospetto", "Un altro giro" (vincitore lo scorso anno dell'Oscar come miglior film straniero).
Visibile a noleggio su Google Play e Amazon Prime Video a 3.99 euro, "Via dalla Pazza Folla" è un adattamento assai scrupoloso del romanzo di Hardy, e meno ingombrante di quello che fu realizzato da John Schlesinger nel 1967, con protagonisti mostri sacri come Julie Christie, Alan Bates, Terence Stamp, Peter Finch.
L'eterna storia di Bathsheba Everdene, bellissima e intelligente, forte, fragile e desiderosa di indipendenza, prima contadina e poi fittavola in una immaginaria contea inglese, contesa da tre uomini molto diversi - naturalmente lei si concede a quello meno raccomandabile - è uno dei classici studi di Hardy che rappresentano la sua concezione totalmente pessimista del mondo.
Il mondo nel quale la natura sa essere punitiva e ingiusta, ma gli esseri umani fanno di tutto per condannarsi all'infelicità.
Bathsheba è uno splendido ritratto femminile, cui Carey Mulligan concede corpo e anima, ed intensa espressività ad ogni sguardo o gesto (del resto la Mulligan è da tempo una delle migliori attrici sulla scena del cinema internazionale).
Il colosso Matthias Schoenaerts è un perfetto Gabriel Oak, il primo a dichiararsi, respinto, a Bathsheba all'inizio della storia, e colui che le resta fedele fino alla fine.
Michael Sheen è il ricco fittavolo William Boldwood, che incastrato da un poco innocente scherzo di Bathsheba ne finisce completamente soggiogato.
Tom Sturridge è invece il famoso sergente Troy del romanzo, scapestrato e fatuo, irresistibile, dannato.
Per sceneggiare un romanzo così complesso - 600 pagine - Vinterberg si è affidato a David Nicholls che ha operato scelte radicali e coraggiose: le prime 200 pagine del libro vengono infatti risolte nei primi 10 minuti del film, che si concentra, come è giusto, nella seconda metà della storia, dove accadono i fatti più rilevanti.
La bellissima fotografia, che ricostruisce meticolosamente gli esterni e gli interni della campagna inglese dell'Ottocento, è di Charlotte Bruus Christensen (danese come il regista), mentre le musiche sono dell'inglese Craig Armstrong, compositore molto amato anche nei circoli rock e jazz.
"Via dalla Pazza Folla" di Vinterberg è insomma un convincente (e pienamente soddisfacente per lo spettatore) adattamento di un grande classico della letteratura, che indaga con fredda e appassionata lucidità gli anfratti e le ombre delle personalità umane, la loro incompletezza, i loro desideri, la speranza di poter un giorno essere felici, perché finalmente consapevoli.

Fabrizio Falconi - 2023