31/08/18

Crollo a Roma: Cosa c'è nella Chiesa di San Giuseppe de' Falegnami nel Foro Romano.



Terribili le notizie e le immagini del crollo del soffitto della seicentesca chiesa di San Giuseppe de' Falegnami, al Foro Romano.  Ma qual è la storia della Chiesa ? E quali sono i tesori in essa contenuti ?

Innanzitutto è fondamentale la posizione della Chiesa, che si trova proprio nel cuore del Foro Romano, a sinistra dopo il clivus Argentarius, l'antica strada di Roma che correva a mezza costa sulle pendici del Campidoglio, alle spalle del Foro di Cesare e di cui si è conservato un tratto originale in basolato. La Chiesa sorge proprio sul posto dove scendevano un tempo dal Campidoglio le scale Gemoniae, tra il Tempio della Concordia e il Carcere Mamertino, dove la tradizione vuole che siano stati rinchiusi gli apostoli Pietro e Paolo.

La Chiesa è stata eretta nel 1602 probabilmente da Giovan Battista Montano per la Confraternita dei Falegnami ed essa, come è successo nella storia di Roma ha inglobato l'edificio preesistente, cioè il Carcere Mamertino, che si trova al livello inferiore della Chiesa e che essendone divenuto parte, porta oggi il nome di Cappella di San Pietro. 

Dunque il tesoro più prezioso contenuto nella Chiesa è proprio il Carcere Mamertino, che sembra non abbia riportato danni, e che consta di due ambienti sovrapposti: il superiore il vero e proprio carcer Mamertinus (nome di origine medievale) e quello Tullianum risalente al 390 d.C. . I due ambienti, riuniti, hanno per molti secoli costituito la sede degli uffici della prigione di stato di Roma e di luogo di esecuzioni capitali. 

Dopo il XVI secolo, in base alla leggenda medievale che vi sarebbe stato rinchiuso anche San Pietro (e con l'acqua sgorgata miracolosamente avrebbe battezzato i suoi carcerieri) l'edificio si chiamò San Pietro in Carcere. 

La Chiesa attuale dunque, risale al Seicento:  nel 1540 la Congregazione dei Falegnami aveva preso in affitto la preesistente chiesa di San Pietro in Carcere e nel 1597 fece iniziare i lavori della nuova chiesa, dedicata al loro patrono, San Giuseppe, a Giacomo della Porta. 

I lavori furono proseguiti nel 1602 sotto la direzione di Giovan Battista Montano che progettò la facciata ed alla sua morte (1621) dall'allievo Giovan Battista Soria

La chiesa fu completata nel 1663 da Antonio Del Grande e restaurata nel 1886, con la costruzione di un nuovo abside. 

La facciata si trova rialzata rispetto al piano di calpestio a causa dei lavori eseguiti negli anni trenta del Novecento, che abbassarono la piazza antistante per permettere un accesso diretto al carcere sottostante. 

L'interno è a navata unica con due cappelle per lato; la decorazione è frutto di lavori eseguiti nel XIX secolo. 

Tra le opere più notevoli da ricordare, una Natività di Carlo Maratta (1651), che pare per fortuna essersi salvata dai danni del crollo.



Sulla cantoria in controfacciata si trova l'organo a canne costruito dalla ditta Migliorini nel XX secolo. 

Annessi alla chiesa vi sono un oratorio, con un bel soffitto ligneo, e la cappella del Crocifisso, che risale al Cinquecento, e che è posta tra il pavimento della chiesa e la volta del sottostante Carcere Mamertino.

Fabrizio Falconi

30/08/18

"Con un poco di zucchero" - Un bellissimo intervento di Pier Aldo Rovatti: Siamo sempre più una "società melliflua". Per buttare giù l'amaro della realtà.



Avevo appena iniziato l’università e cercavo qualcosa da fare. Mi capitò anche una prova per un’agenzia pubblicitaria di Milano: ipotizzai un piccolo copione per un “carosello” (allora, parlo di cinquant’anni fa, era la pubblicità televisiva per eccellenza). Presentai così la mia ideuzza che consisteva in una scena vuota e in essa due personaggi, come quelli di “Aspettando Godot” di Beckett, che si riferivano a un prodotto indefinito ma molto appetibile fuori dalla scena. La mia esperienza finì lì e ricordo che il responsabile dell’agenzia pronunciò, prima di liberarsi di me, solo queste lapidarie parole: «Troppo poco zucchero nel caffè».


L’episodio evidentemente mi colpì, e adesso riemerge nella mia mente a forza di leggere e ascoltare la parola “edulcorare”, ripetuta per giorni dai media in riferimento ai modi con cui si è andato formando il cosiddetto “governo del cambiamento”, quello appunto che sta cominciando a governarci. Ma è solo un aggancio possibile perché un po’ ovunque, nel gioco politico, la tendenza ad aggiungere cucchiaini di zucchero per attenuare l’amaro delle situazioni è molto diffusa. Per non parlare delle relazioni private nelle quali quasi tutti noi riversiamo normalmente dosi di dolcificanti per evitare di viverle come insopportabili.



Se ci mettiamo a osservare episodi, significati e conseguenze che intrecciano questa “società melliflua” nella quale - a quanto sembra - ci siamo accomodati con scarsa reattività, anzi volentieri, potremmo incontrare per esempio l’“incidente del curriculum” che è toccato all’attuale presidente del Consiglio, nel momento in cui apparve semisconosciuto sulla ribalta governativa. Il fatto che avesse edulcorato il curriculum, ingigantendo un poco la sua carriera di studioso dalle numerose esperienze internazionali, produsse una relativa sorpresa, ma è difficile negarne il carattere di sintomo, non solo nel senso di un cattivo vezzo accademico, non solo perché alla fine manifestamente inutile, bensì proprio perché è indice di un comportamento generalizzato.



Con aria maliziosa un collega che insegna sociologia mi ha raccontato che adesso nei curriculum si trova anche il contrario, come dichiarazioni di insuccessi e mancanze accademiche. Complimenti - ho pensato - ma vorrei poi vedere quale risultato possa ottenere un simile curriculum. Potremmo riconoscere qui un’inedita onestà. Dopo un attimo, tuttavia, rifletteremmo silenziosamente che si tratta di un gesto autolesionistico, una specie di autogol.
Allargando lo sguardo a quello che sta accadendo nei modi di stare a tavola, per dir così, dei nostri attuali governanti, si potrebbe subito obiettare che i gesti che sembrano prevalere non hanno nulla di dolce. I toni del discorso “populistico” non sembrano conoscere la moderazione: sono toni alti e pochi stanno reclamando che vengano abbassati, mentre molti li apprezzano proprio per il loro vigore, e ancor più viene condiviso il fatto che ai toni alti corrispondano finalmente gesti decisi rivolti a scuotere il sonno delle istituzioni europee, come nel caso della chiusura dei porti alle navi delle Ong che raccolgono i migranti. Ecco finalmente una politica autorevole che per funzionare richiede un po’ di autoritarismo!



Allora, dove starebbe la pratica dell’edulcorare? Non c’è nessuna contraddizione: intanto, gli atteggiamenti forti vengono introdotti non solo alzando la voce ma contemporaneamente con una serie di ammiccamenti, come se si trattasse di ovvietà molto desiderate (pensiamo alle annunciate strette sulla sicurezza), del tutto normali dunque e con lo scopo di migliorare le nostre esistenze grazie a un sovrappiù di tranquillità. “State sereni, italiani” è la musica di accompagnamento che ci pare di ascoltare.



Segue, partendo da qui, qualcosa di più significativo e meno banalmente retorico. Viene allo scoperto ciò che l’edulcorazione nasconde, proprio come lo zucchero copre l’amaro. Il messaggio ha da essere positivo e perciò tende a scansare ogni elemento di tristezza, di drammaticità e di angoscia. Se fa leva spesso sulla paura, non è certo per invitare a guardarci dentro bensì per esorcizzarla un attimo dopo averla evocata. Perciò ci si riferisce solo a quelle realtà che potranno essere ammansite e si evita ciò che produce problemi inquietanti. Ci si volta dall’altra parte, quando si rischierebbe che gli occhi vedano ciò che la propaganda non riuscirebbe a contenere nella sua rete.



E quando, come nel caso dell’affaire romano venuto alla luce con le recenti inchieste giudiziarie sulla corruzione, il nuovo ceto politico giallo-verde avverte il rischio di restare impaniato, è facile osservare che le reazioni di difesa sono del tipo: “Cose marginali di poca importanza”, “Un equivoco che si chiarirà entro qualche giorno”. Traducendo queste reazioni nel discorso che sto facendo, ecco un altro esempio di tecnica dolcificante adoperata quando il sapere di amaro tende a offendere troppo il palato.



Sarebbe però un errore restringere la questione ai comportamenti che si danno a vedere nell’attuale contingenza di governo, nell’idea presente di “governamentalità”. Infatti, bisogna valutare in che misura questi atteggiamenti siano lo specchio di una società intera (un attimo fa l’ho definita una “società melliflua”), quella stessa che il voto di marzo, rinforzato dagli ultimi sondaggi, ha manifestato chiaramente. Concordo che i cosiddetti “ultimi” sono rimasti in silenzio o sono stati silenziati, perché il popolo che ha avuto voce è il popolo dei “penultimi”, sostanzialmente disinteressato alla povertà e alla disperazione e soprattutto attento alla difesa dei propri piccoli privilegi.



La “società melliflua”, erede di una borghesia diventata piccolissima e totalizzante, non vuole saperne di amarezze. Per rimuoverle sembra disponibile ad accettare una falsificazione quotidiana che selezioni ciò che è gradevole, e viene presentato come tale, da ciò che è sgradevole e che dovrebbe restare nell’ombra. Abbiamo, a mio parere, una prova evidente di quanto ho appena detto se spiamo dentro le case e nelle vite individuali. Qualcuna fa eccezione? L’amaro è lì e lo sappiamo bene, però facciamo di tutto per tenerci su, per essere presentabili senza identificarci con un eterno lamento.



I lamenti preferiamo riservarli agli sfigati, noi invece cerchiamo di sorridere e di riscuotere il sorriso degli altri, scegliamo di frequentare quelli che contano o che comunque ci potrebbero promettere il guadagno di un piccolo gradino sociale.

Pier Aldo Rovatti, da L'Espresso 19 giugno 2018

29/08/18

Libro del Giorno: "L'uomo che non doveva vivere", di Geoffrey Household.



Nato a Bristol nel 1900 e laureatosi ad Oxford, Geoffrey Household racchiude nella sua lunga biografia (è morto nel 1988), tutti gli elementi del vero outsider della letteratura. 

Lasciata l'Inghilterra nel 1922 lavorò all'estero, prima in Romania come impiegato di banca, poi in Spagna nel commercio delle banane, e infine negli Stati Uniti dove - durante la crisi del '29 - si mantenne scrivendo piccole commedie per bambini e voci commissionate per l'Enciclopedia. 

Tornato in patria nel 1933, si impiegò in una fabbrica per inchiostri che lo mandò in giro per il mondo, fino al Medio Oriente e in Sudamerica.  In questo periodo cominciò a dedicarsi regolarmente alla scrittura, e con la pubblicazione del suo terzo romanzo, L'uomo che non doveva vivere, conobbe un enorme successo internazionale che continuò nella seconda parte del Novecento, dopo la riduzione cinematografica che ne fece ad Hollywood Fritz Lang (nel 1941) e televisiva con Peter O' Toole nei panni del protagonista nel 1976. 

Nonostante i quaranta romanzi scritti in seguito, il successo di Household rimase legato a questo romanzo, che in molti considerano l'antesignano del genere thriller. 

Pubblicato in Italia da Polillo, L'uomo che non deve morire si legge ancora oggi tutto d'un fiato - d'altronde non ha scansioni in capitoli o parti - e si presenta come un incubo a occhi aperti.  Il protagonista senza nome di questa vicenda è un uomo in fuga, per motivi che non appaiono chiari: è infatti catturato mentre sta puntando il suo fucile a cannocchiale contro la casa-fortezza di un dittatore di una nazione straniera (la Polonia, si chiarirà in seguito). Non ha sparato e forse non meditava nemmeno un attentato, ma i suoi inseguitori ne sono convinti. Sopravvissuto miracolosamente alla eliminazione fisica, comincia la lunga fuga dell'uomo, che riesce a ritornare nel suo paese, soltanto per scoprire che sono probabilmente proprio i servizi segreti del suo paese a volerlo eliminare. 

Il racconto è la descrizione minuziosa di una fuga apparentemente senza meta, in cui l'uomo riesce ogni volta a far perdere le sue tracce per miracolo, fino a scomparire letteralmente dentro una fossa scavata in aperta campagna.  Anche nella sua tana sotterranea, però, viene trovato e dopo aver rischiato la fine da sepolto vivo, riesce ad evadere rocambolescamente anche da qui. 

Come chiarisce il titolo originale del romanzo, Rogue Male, ciò che interessa ad Household è questa condizione di braccato, questa emarginazione o autoemarginazione radicale del fuggitivo che cerca scampo da se stesso, dai potenziali amici e dai molti nemici senza volto che lo perseguitano come dentro un incubo senza fine. 

Ciò nonostante, l'uomo resta al centro del suo destino, l'uomo trova la sua riabilitazione, che comincia dalla terra, dal fango, dalla mutilazione, dalla perdita di tutto. 

Non è quindi tanto il nemico, che ha importanza, ma la forza della vita, la continuazione - forse - di una memoria, di un riscatto, che rappresenta l'unica - eroica, dolorosa, sacrificale - ragione per continuare a vivere. 

Fabrizio Falconi


17/08/18

Le rovine di Tarkovskij e Stalker.





Le rovine di Tarkosvskij e Stalker
di Fabrizio Falconi


A Piranesi e al suo mondo fantastico di rovine fatiscenti e territori ombrosi da esplorare, si sono ispirati in tanti, negli ambiti più diversi. 
Emmanuel Carrère, in un saggio di parecchi anni fa (9) citava Piranesi, proprio paragonando la sua imagerie a quella di un regista indimenticato, uno dei grandi del novecento, proveniente dagli estremi territori della Russia, Andrej Tarkovskij.
E lo faceva a proposito di uno dei film più visionari e misteriosi del regista di Zavraz’e (un minuscolo villaggio sulle rive del Volga), Stalker.
In quel film, Tarkovskij prendeva le mosse (come aveva già fatto per il precendete Solaris) da un racconto lungo di fantascienza, Piknik na obocine (Picnic sul ciglio della strada), scritto dai fratelli Arkadij e Boris Natanovic Strugackij nel 1971.
Stalker (girato tra grandi difficoltà produttive, lunghe pause e riprese tra il 1977 e il 1979)  racconta del viaggio di tre uomini – uno scrittore alcolizzato,  uno scienziato, e la loro guida, cioè lo stalker (termine che deriva dall’inglese to stalk, avanzare furtivamente), attraverso la Zona, un territorio misterioso e molto pericoloso che attrae e spaventa, nel cui cuore esiste una misteriosa stanza dove vengono realizzati i desideri.
Nessuno sa cosa sia la Zona, esattamente.  Lo stesso Tarkovskij perdeva la sua proverbiale pazienza quando qualche giornalista, durante i festival ai quali Stalker partecipò, chiedeva di spiegare cosa fosse esattamente. La Zona, come ogni simbolo disseminato nei film di Tarkovskij è ad uso e consumo dello spettatore.  E’ lo spettatore a decidere cosa sia la Zona. Il film non lo spiega. C’è l’eventualità che sia il lascito di una civiltà extraterrestre, oppure il risultato di una serie di esperimenti militari. Fatto sta che l’accesso al territorio è severamente precluso. E che solo gli intrepidi stalker osano violarlo.  Il paesaggio che si delinea oltrepassato il filo spinato è oscuro e minaccioso: come scrive Carrère, tutto il viaggio dei tre uomini (accompagnato da dispute di carattere filosofico tra lo scrittore e lo scienziato) è costantemente spiazzato dalla collocazione sul paesaggio di “rovine del futuro”  che fanno pensare proprio al genio di Piranesi.
Mi hanno sovente domandato cos’è la Zona, ha scritto Tarkovskij nel suo celebre Scolpire il tempo (10), che cosa simboleggia, ed hanno avanzato le interpretazioni più impensabili. Io cado in uno stato di rabbia e disperazione quando sento domande del genere. La Zona, come ogni altra cosa nei miei film, non simboleggia nulla: la Zona è la Zona, la Zona è la vita: attraversandola l’uomo o si spezza, o resiste. Se l’uomo resisterà dipende dal suo sentimento della propria dignità, dalla sua capacità di distinguere il fondamentale dal passeggero.
In queste poche righe Tarkovskij dice già molto, suscitando molte nuove domande.
La Zona che è la protagonista del suo film, è un cumulo di rovine; moderne rovine: edifici abbandonati, strade spettrali, anfratti incolti e paludosi: la luce è sempre invernale o notturna, il cammino dei tre uomini è accidentato, irto di difficoltà, e senza nessun vero piacere. 
Rivedendo il film oggi ritorna alla mente il motto di Piranesi: sporcare per trovare.
I tre uomini devono sporcarsi, e parecchio per trovare quello che cercano e che in fondo non sanno nemmeno loro cosa sia.  E’ la sete di conoscenza, in fondo, la curiosità, il desiderio di risposta alle domande che risposte non hanno, a guidarli in questi caseggiati dai vetri sfondati, a questi pavimenti sfondati o pieni di cumuli di terra, a questi canali pieni d’acqua putrida.
Se la Zona è la vita, come dice Tarkovskij, attraversare questo territorio vuol dire sporcarsi le mani e i piedi, come accade a chi vive.  Solo chi rifiuta la vita, rimane pulito e diafano, ma la terra non germoglia in lui, ed è come essere già morti. Sporcarsi insomma è la prerogativa dei vivi.
Attraversare il luogo della catastrofe alla ricerca di risposte. E soprattutto con l’obiettivo di esaudire il proprio desiderio.
Solo che, Tarkovskij, lo sa, spesso gli uomini non sanno nemmeno cosa vogliono veramente.  E così mette in bocca allo Stalker il racconto tragico di un collega, un altro Stalker, un certo Porcospino che, riuscito a penetrare fino alla stanza dei desideri, e chiesto che potesse tornare in vita il fratello, ha finito per diventare ricco una volta uscito dalla Zona, e però, infelice più di prima si è poi suicidato.
Cosa succede ai due viaggiatori, allo scrittore e allo scienziato ?
Giunti sulla soglia della stanza, nessuno dei due ha il coraggio di entrare.  Lo scienziato vorrebbe addirittura distruggere per sempre quel luogo angosciante, estraendo dalla sua bisaccia un ordigno nucleare;  ma anche lo scrittore si rifiuta di entrare, asserendo che i desideri sono, alla fine, quasi sempre ignobili.
Il ritorno dei tre uomini appare dunque come una sconfitta.  L’attraversamento del mare di rovine, sembra non aver prodotto nulla in loro, di non aver procurato nessun cambiamento.
Ma non è così.
Dopo essersi separati nello stesso bar – in rovina – dove si sono incontrati la prima volta, è lo Stalker che seguiamo nel suo ritorno a casa.
Qui egli dà sfogo alla disperazione: ha visto due degli uomini più celebrati, arrendersi di fronte alla porta della fatidica stanza; in definitiva rinunciare alla conoscenza, sopraffatti dai rispettivi pregiudizi.
E’ la constatazione della perdita della fede: il tema che più di ogni altro sta a cuore a Tarkovskij.  E’ proprio la mancanza di fede a negare ai due viaggiatori la possibilità del cambiamento.  Ed è proprio lo Stalker l’unico di loro che sarà, misteriosamente, ricompensato. La moglie cerca di consolarlo. Ma alla loro figlia, che è protagonista dell’ultimo lentissimo piano sequenza del film, e che non ha l’uso delle gambe, succede qualcosa: la vediamo recitare a mezza voce una poesia, poi poggiando il viso sul tavolo fissare gli oggetti posati sopra – un bicchiere ed una bottiglia – che si muovono sotto il suo sguardo.  La bambina ha dunque ricevuto in dono misteriosi poteri ?  Se non riuscirà a camminare riuscirà però a spostare gli oggetti con il pensiero ? Non lo sappiamo.  Ma ascoltiamo, in sottofondo, le inconfondibili note dell’Inno alla Gioia di Beethoven (sembrano provenire da lontanissimo) che chiudono il film.
Lo Stalker,  che ha attraversato la Zona, sembra, secondo quanto ci dice Tarkovskij aver resistito. Non si è spezzato. In qualche modo, la sua fede (la fede nella vita più che la fede religiosa) è sopravvissuta anche ai dubbi e alle diffidenze dei due uomini sapienti che ha accompagnato con sé; ha saputo distinguere il fondamentale dal passeggero.




E forse per questo la Zona ha esaudito il suo desiderio (un desiderio altruistico, rivolto alla figlia).
Le rovine dunque, sembrerebbe suggerire Tarkovskij, hanno anche quest’altra incredibile proprietà: non solo quella di far rinascere, ma anche di salvare.
Un tema che stava personalmente a cuore al regista, avendo egli sperimentato la durezza dell’essere un artista libero e creativo negli anni dell’Unione Sovietica.
Gli anni della realizzazione di Stalker sono particolarmente difficili per Tarkovskij.  La notorietà improvvisa che gli ha portato l’aver vinto il Leone d’Oro di Venezia ad appena trent’anni (ex aequo con Valerio Zurlini per Cronaca Familiare) con L’infanzia di Ivan nel 1962, gli ha creato in patria parecchi problemi.  Andrej Rublev, il film seguente arriva al Festival di Cannes del 1966 in ritardo e avventurosamente, dopo aver sopportato molti tagli.  Ciò nonostante la critica internazionale reputa Tarkovskij già un maestro e gli consegna il Premio Speciale della Giuria al Festival di Cannes del 1972 per Solaris.  Ma il crescente apprezzamento internazionale, e il rifiuto di prestarsi in qualsiasi modo alla propaganda interna gli attira forti critiche e un clima sempre più irrespirabile.  Il regime, pur senza sconfessarlo pubblicamente, sa come mettere i bastoni tra le ruote, sa come rendere la vita difficile al regista, anche semplicemente negando permessi burocratici, procrastinando gli appuntamenti con i funzionari, ostentando il silenzio degli uffici amministrativi, negando i fondi e i luoghi per le locations.
Ma Tarkovskij non può che seguire la sua piena libertà creativa, comunque.
Realizza tra mille difficoltà e ostacoli sempre più gravosi prima Lo Specchio (1974)  che raggiunge il culmine del biasimo nazionalistico per la sua scelta di narrare una storia puramente autobiografica, e poi Stalker, che sarà l’ultimo film girato da Tarkovskij in Russia, prima della fuga in Italia.
Negli anni in cui realizza Stalker, il regista vive una stagione di umiliazioni in patria.  La distribuzione dei suoi film è relegata alla terza categoria (opera di èlite) e quindi fuori dai grandi circuiti. Per girare Stalker deve ottenere l’autorizzazione direttamente dal Presidium del Soviet Supremo. Ciò nonostante il film viene presentato fuori competizione al festival di Rotterdam e di conseguenza inibito a partecipare al concorso per la Palma d’Oro al Festival di Cannes.
Tarkovskij è un artista sempre più ingombrante e scomodo. E’ solo un anticipo di quello che avverrà qualche anno dopo quando, a seguito della scelta di Tarkovskij di non tornare in patria, il regime si vendicherà impedendo alla moglie Larissa, insieme ai figli Andrej e Arsenij, di raggiungere il marito: riunione che si concretizzerà soltanto sul letto di morte di Tarkovskij, pochi giorni prima della sua morte avvenuta a Parigi la notte del 28 dicembre 1986.
Nei lunghi mesi di riprese di Stalker, Tarkovskij annota nei suoi diari (11) lo sconforto e la disperazione per il lavoro andato a monte, per tutte le incredibili difficoltà insorte, in gran parte procurate dai grigi burocrati con cui ha a che fare costantemente. Scrive:
Sono successe molte cose. Una specie di catastrofica distruzione, di tale portata che, senza la minima ambiguità, ciò che ne rimane è solo e comunque l’impressione di una tappa superata e di un nuovo traguardo da raggiungere e ciò suscita almeno un po’ di speranza. (…)  Tutto quello che abbiamo girato a Tallin è da buttare. Tutto è fermo per almeno un mese. Alla vigilia dell’inizio della lavorazione di Stalker. Ma se così dev’essere, tutto sarà nuovo.  (…) Bisogna ricominciare tutto da zero.  Ne avremo la forza ? (12)
Le rovine di cui la trama di Stalker è disseminata sembrano dunque coinvolgere anche il film stesso. Tarkovskij descrive la catastrofica distruzione che lo costringe a ripartire da zero. O comunque su quelle fatiscenti rovine che sono state l’inizio del suo film (andato a male per causa soprattutto di un operatore incompetente e per lo sviluppo dei negativi Kodak condotto maldestramente dai laboratori della Mosfilm.
Preso dal nuovo inizio, Tarkovskij non scrive più nulla nel diario per i successivi quattro mesi.  Riprende la penna in mano solo a dicembre di quell’anno e il giorno 28  (28 dicembre, lo stesso giorno della sua morte qualche anno più tardi) scrive un solo passo di una citazione tratta da Lao-Tze, che ha inserito alla fine nella sceneggiatura del film, e ha messo in bocca allo Stalker,  in una delle scene più importanti:
La debolezza è sublime, la forza spregevole. Quando un uomo nasce, è debole ed elastico. Quando muore è forte e rigido.
Quando un albero cresce, è flessibile e tenero; quando diviene secco e duro, esso muore. La durezza e la forza sono le compagne della morte. La flessibilità e la debolezza esprimono la freschezza della vita. Perciò chi è indurito, non vincerà. (13)
Sembra un vero manifesto dell’opera di Tarkovskij.
Lo Stalker recita questo monologo proprio in opposizione alle presunte (rigide) certezze dello scrittore e dello scienziato.
La fragilità e la debolezza sono i paradigmi in cui crede Tarkovskij, e ciò che permette alla fragile e debole poesia dello Stalker di essere ascoltata ed esaudita.
E cosa esiste di più fragile e debole delle rovine ?
Si capisce così per quale motivo Tarkovskij abbia scelto soltanto un teatro di rovine come sfondo per il suo film. Rovine che torneranno ancora – nella magnificenza autunnale della Toscana dell’Abbazia di San Galgano -  a  popolare molte scene del film successivo, Nostalghia.
La vita stessa del regista, durante le riprese del film sembra andare in pezzi. Sempre più angosciato per il suo futuro lavorativo, per la sorte dei familiari e per quelle del film che non riesce a compiersi, Tarkovskij subisce un infarto.
Sono inchiodato a letto ormai da 9 giorni, scrive il 15 aprile del 1978 (14), i medici dicono che forse oggi mi sarà concesso di stare a letto seduto.  Era proprio una cosa che non avrei mai pensato mi potesse succedere: avere un infarto a 46 anni. E al contempo sarebbe stato molto strano se non fosse successo. Che Dio li perdoni.
Il regista si riprende in fretta. Due settimane dopo annota che l’infarto si sta cicatrizzando.
Ma è solo il primo segnale di una salute precaria, che risente delle difficoltà psicologiche, sempre più gravi per Tarkovskij, diviso dalla patria, dalla famiglia e in qualche misura da se stesso.
Il viaggio in Italia, allora che inizia nel luglio 1979, è per lui una vera rinascita. Il regista, accompagnato dal fedele amico Tonino Guerra inizia una peregrinazione in lungo e in largo per la penisola alla ricerca di luoghi idonei per girare il suo vagheggiato progetto di un film italiano, ospite nelle case degli intellettuali, attratti dal carisma di quel russo mistico che non parla una parola né di italiano né di russo.
Per Tarkovskij è anche una occasione di sperimentare nuove vie. Un tratto lo accomuna agli altri due maestri, Bergman e Fellini ed è il fascino per il magico, l'inconsueto, il soprannaturale, l'inspiegabile.
Nella sua curiosa voracità intellettuale, Tarkovskij che ha già avvicinato in patria i temi più lontani come la parapsicologia e gli avvistamenti UFO,  si imbatte anche nella Meditazione Trascendentale.
In quel mese del 1979 è infatti ospite insieme a Guerra di Michelangelo Antonioni,  nella sua splendida villa in Sardegna, sulla Costa Paradiso.
Tarkovskij descrive nei diari la bellezza della villa ("Tamarindi, alberi nani, ammassi rocciosi, c'è dell'acqua tutto intorno...Una spiaggia straordinaria"); descrive i suoi ospiti (Michelangelo è molto gentile, sua moglie Enrica è piena di attenzioni, una padrona di casa perfetta); manifesta i suoi dubbi  (A sentire Tonino, questa casa costa circa 2 miliardi di lire, un milione e settecentomila dollari. La casa. Michelangelo ha troppo "buon gusto"). 
Il 31 luglio, tre giorni dopo il suo arrivo, annota: Oggi ho compiuto il mio primo esercizio di Meditazione Trascendentale, sotto la guida di Enrica.  Domani faremo l'esercizio individualmente.  Gli esercizi, o le tecniche da imparare sono quattro. Alla fine della prima lezione, l'allievo deve offrire al suo maestro (in segno di riconoscenza) un mazzo di fiori, due frutti e un pezzo quadrato di stoffa bianca (un tovagliolo oppure un fazzoletto). Domani dovrò andare a fare un po' di compere con Michelangelo. 
Prima meditazione: Mantra. 
E il giorno dopo, 1 agosto:
Meditazione al mattino. Più profonda, ma avevo la tendenza ad addormentarmi. E'un peccato che il primo giorno di digiuno coincida con il mio giorno di meditazione. Non ho avvertito le "pulsazioni blu". 
In serata la mia meditazione ha funzionato bene. Enrica ha tenuto lezione a me e a Lora (ndr la moglie russa di Tonino Guerra), Ho visto di nuovo dei lampi blu. (15)

Fa una certa impressione immaginare Tarkovskij, Antonioni, Guerra, in quella magica estate del 1979. 
Appena sei anni dopo, nel dicembre 1985, appena terminate le riprese del suo ultimo film, Sacrificio (Offret), sorta di testamento spirituale con la storia di un uomo che assiste al crollo di ogni cosa in cui crede in seguito all'improvviso scoppio di una guerra nucleare, Tarkovskij a Parigi si sottopone ad una radiografia e scopre di avere “un’ombra” nel polmone sinistro. Dieci giorni dopo gli viene diagnosticato un tumore incurabile.
I diari registrano la reazione umana di Tarkovskij, la disperazione, che si rivolge quasi subito ad altro, agli altri, a coloro che ama. La malattia ottiene almeno questo effetto: l’interessamento personale del presidente francese Francois Mitterrand fa sì che Mikhail Gorbaciov, divenuto Segretario Generale del Partito Comunista Sovietico da qualche mese, prenda a cuore la vicenda dei famigliari del regista concedendo finalmente a madre e figlio di uscire dalla Russia e ricongiungersi al padre.
Sono arrivati, Andrjusa e Anna Semenovna ! scrive a grandi lettere Tarkovskij nel suo diario, il 19 gennaio del 1986 e questa pagina è accompagnata dalla prima foto che ritrae insieme padre e figlio, di nuovo insieme dopo cinque anni. Andrjusa è un adolescente,  Tarkovskij è un uomo malato, nel suo letto, gli occhiali sulla federa,  un libro (la Bibbia?) accanto al cuscino.   Gli ultimi mesi trascorrono a Parigi, tra  momentanei miglioramenti, progetti per nuovi film e fitte notazioni sul diario.
Eppure anche l’attraversamento di questa rovina, regala a Tarkovskij, squarci di luce inaspettata.       L’11 aprile, quando la malattia si è fatta più dura, con fortissimi dolori al petto e alla schiena, e i conati di vomito causati dalla chemioterapia, scrive:  Un’immensa speranza è penetrata oggi nell’anima mia: non so come definirla, semplicemente come felicità.   La speranza che la felicità sia possibile.  Fin da stamattina le finestre della mia stanza d’ospedale sono inondate di sole. (16)
Un mese dopo, Sacrificio viene presentato al Festival di Cannes.  La giuria, all’ultima votazione gli preferisce, per la Palma d’Oro, Mission di Roland Joffé. A Sacrificio viene assegnato, tra le polemiche (17), il Gran Premio Speciale della Giuria.  Il figlio,  Andrei, va a ritirare il premio  sulla Croisette  al posto del padre.
       Nelle settimane successive, che gli restano da vivere,  Tarkovskij continua a riflettere e a scrivere, febbrilmente, su un vagheggiato film sui Vangeli.  Torna sul tema del sacrificio: l’amore è sempre un donarsi agli altri, scrive. E nonostante il termine sacrificio, sacrificale,  comporti un significato quasi negativo ed esteriormente distruttivo (se preso nella accezione del linguaggio parlato) riferito alla persona che si sacrifica, in effetti l’essenza di quest’atto è sempre amore, cioè un fatto positivo, creativo, divino. (18)      Sul tema del sacrificio, dell’incontro tra il sacrificio umano – quello di Giuda Iscariota, ma anche quello di ogni uomo, e dello stesso Tarkovskij, ormai giunto al termine della sua vita  - e quello divino di Cristo, si giocano le ultime riflessioni del grande regista, che sembra consegnare la sua anima, “faccia a faccia con la propria vita”, come scrive il 4 novembre, un mese prima di morire.
 Sono anche le considerazioni che concludono il suo libro più famoso, quello nel quale Tarkovskij ha riassunto il suo pensiero teorico, sul cinema, sulla creazione, sull’arte (19) . Nelle ultime pagine di Scolpire il Tempo, scrive:  Il nostro mondo è scisso in due parti: il bene e il male, la spiritualità e il pragmatismo.  Il nostro mondo umano è costruito, è modellato sulla base delle leggi materiali poiché l’uomo ha costruito la propria società sul modello della morta materia. Perciò egli non crede nello Spirito e rifiuta Dio. C’è una speranza che l’uomo sopravviva, nonostante tutti i segni del silenzio apocalittico preannunciato dall’evidenza dei fatti ?  La risposta a questo interrogativo, forse, è  contenuta nell’antica leggenda sulla resistenza dell’albero inaridito, privato dei succhi vitali, che ho preso come base del film più importante nella mia biografia artistica (20).  Un monaco, passo dopo passo, secchio dopo secchio portava l’acqua sulla montagna e innaffiava l’albero inaridito, credendo senz’ombra di dubbio nella necessità di quel che faceva, senza abbandonare neppure per un istante la fiducia nella forza miracolosa della sua fede nel Creatore e perciò assistette al Miracolo: una mattina i rami dell’albero si rianimarono e si coprirono di foglioline. Ma questo è forse un miracolo ?  E’ soltanto la verità.   (21)
I rami dell’albero si rianimano e si coprono di foglie. Rinasce ciò che è inaridito. Guarisce per sempre ciò che è malato: il sogno di Tarkovskij è sempre lo stesso. E’ il sogno dello Stalker.  Le rovine generano. Solo il chicco di grano che muore, germoglia. Non importa se si muore. L’arte rivela la vita, e la conserva. Anche oltre la morte.



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Note

9.  Emanuel Carrère, Troisième plongée dans l’océan, troisième retour à la maison, in “Positif”, n.247, ottobre 1981.
10. La citazione è riportata da T. Masoni – P. Vecchi, Andrej Tarkovskij, Il Castoro Cinema, Milano 2001. p. 84.
11. I diari di Andrej Tarkovskij, con il titolo scelto dall’autore, Martirologio, sono stati pubblicati per la prima volta in Italia dalle Edizioni della Meridiana di Firenze, nel 2002, curati dal figlio del regista, Andrej A. Tarkovskij e la traduzione dal russo di Norman Mozzato. I diari coprono un intervallo di tempo che va dal 1970 all’anno della morte, il 1986.
12. Op.cit. 26 agosto 1977, p. 218.
13. Op.cit. 28 dicembre 1977, p. 219.  La citazione in realtà viene riportata così da A.Tarkovskij: Lao-Tze, epigrafe al Giullare Pamfalon di Leskov.   Probabilmente è leggendo Leskov che Tarkovskij si imbatte in questa frase di Lao-Tze.Che comunque è traduzione piuttosto fedele dell’originale, confrontabile su Tao Te Ching LXXVI (trad. it. di Anna Devoto, Adelphi, Milano 1973, p.164).
14. Op. cit. 15 aprile 1978, p. 224.
15. Op. cit. 29 luglio – 1 agosto 1979 p. 267.
16. Op. cit. 11 aprile 1986, p.663
17. Sarà lo stesso presidente francese Francois Mitterrand a definire uno “scandalo” la mancata assegnazione del massimo riconoscimento al film di Tarkovskij.
18. Op. cit. p.682.
19. Scolpire il Tempo di Andrej Tarkovskij è pubblicato in Italia da Ubulibri, 2002, a cura di Vittorio Nadai.
20. Il film a cui si riferisce è l’ultimo, Sacrificio.
21. Scolpire il Tempo, Op.cit. p. 211.


16/08/18

La Mostra del Cinema premia alla carriera la grande Vanessa Redgrave e proietta il suo nuovo film, dal "Carteggio Aspern" di Henry James.





In occasione del Leone d'oro allacarriera della Mostra di Venezia 2018 a Vanessa Redgrave, giovedi' 30 agosto in Sala Casino', alle 11.30, si terra' una proiezione speciale a inviti del film The Aspern Papers diJulien Landais, con Vanessa Redgrave, Jonathan Rhys Meyers e Joely Richardson. 

Julien Landais ha diretto The Aspern Papers da una sceneggiatura da lui scritta con Jean Pavans e Hannah Bhuiya, basata sull'adattamento di Pavans del racconto lungo di Henry James, Il carteggio Aspern. 

Interpretano il film anche Poppy Delevingne, Jon Kortajarena e Lois Robbins, insieme a Morgane Polanski, Barbara Meier, Alice Aufraye e Nicolas Hau. 

La 75/a Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica si svolgera' dal 29 agosto all'8 settembre al Lido di Venezia, diretta da Alberto Barbera e organizzata dalla Biennale presieduta da Paolo Baratta. 

The Aspern Papers e' una storia di ossessione, grandezza perduta e sogni di avventure byroniane. Ambientata a Venezia nel tardo 19/o secolo, vede al centro Morton Vint (Jonathan Rhys Meyers), un ambizioso critico affascinato dal poeta romantico Jeffrey Aspern (Jon Kortajarena) e dalla vita breve e selvaggiamente romantica di questo mitico personaggio

Dopo aver viaggiato dall'America a Venezia, vorrebbe mettere le mani sulle lettere che Aspern scrisse alla sua bellissima amante e musa, Juliana Bordereau (Vanessa Redgrave). 

Ora la severa guardiana dei loro segreti, Juliana, vive in un palazzo veneziano con sua nipote Tina (Joely Richardson), che lei sembra controllare e che Morton tenta di manipolare. Ma quando l'ambizioso avventuriero si prende gioco dell'affetto di Tina, lei comincia a capire il suo piano. 

15/08/18

Lina Wertmuller compie 90 anni. E' stata la prima donna candidata all'Oscar per la Regia.



Ieri, 14 agosto, Lina Wertmuller ha spento 90 candeline.

Nata a Roma il 14 agosto del 1928 e' stata la prima donna candidata all'Oscar per la regia di "Pasqualino settebellezze" del 1977, (saranno quattro le candidature in totale).

La "donna con gli occhiali bianchi", autrice di alcuni dei piu' grandi successi della televisione italiana come "Gian Burrasca",  fa il suo esordio al cinema nel 1963 con "I basilischi".

A 17 anni, dopo essersi iscritta ad una scuola di teatro e aver fatto la burattinaia, grazie all'influenza di Flora Carabella (con cui nasce un'amicizia durata una vita) conosce Federico Fellini, con cui lavora come aiuto regista ne "La dolce vita".

Nel 1956 e' tra gli autori di "Canzonissima" mentre nel 1963 quando le viene affidata la versione televisiva di "Gian Burrasca" ha l'intuizione di affidare il ruolo principale a Rita Pavone.

Nel 1972 dirige Giancarlo Giannini e Mariangela Melato in "Mimi' metallurgico ferito nell'onore", successo ripetuto con la coppia di eccezionali attori in "Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare d'agosto" fino al successo mondiale di "Pasqualino Settebellezze". 

 Nel 1992 e' campione d'incassi con "Io speriamo che me la cavo", film con Paolo Villaggio. Grazie a Sophia Loren, con cui ha collaborato in film come "Sabato domenica e lunedi'" (da De Filippo) nel 1990 a "Peperoni ripieni e pesci in faccia" (2004), ha scoperto una sensibilita' napoletana che l'ha portata a ricevere la cittadinanza onoraria nel 2015.

fonte askanews

14/08/18

Nuovo studio scientifico: Sulla Sindone sangue vero e di una persona torturata.






Il sangue presente sulla Sindone di Torino e' vero e di una persona torturata. Inoltre il sangue e' rosso e non marrone, come dovrebbe essere un sangue antico, perche' il telo sarebbe stato esposto alla luce ultravioletta, come quella del Sole, che ne ha alterato il colore. 

Lo indica la ricerca italiana pubblicata sulla rivista Applied Optics e coordinata da Paolo Di Lazzaro, dell'Enea e vicedirettore del Centro Internazionale di Sindonologia. 

Vi hanno preso parte anche Daniele Murra dell'Enea, Paola Iacomussi dell'Istituto nazionale di ricerca metrologica (Inri), Mauro Missori del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr) e il medico Antonio Di Lascio. 

La ricerca arriva a meno di un mese da un altro studio secondo il quale almeno la meta' delle macchie di sangue della Sindone sarebbe falsa e mentre Torino si prepara alla mini ostensione del lenzuolo - che la tradizione cristiana ritiene sia il sudario che ha avvolto Gesu' Cristo - prevista il 10 agosto e riservata a 2.000 giovani. 

 Grazie all'analisi della Sindone, fatta dai ricercatori durante l'Ostensione del 2015 con una tecnica ottica che serve a individuare la composizione dei materiali, e' stato visto che nel sangue del telo e' presente la metaemoglobina, un prodotto della degradazione dell'emoglobina fortemente ossidata e invecchiata, a "conferma che si tratta di sangue antico, come avevano dimostrato anche altre ricerche negli anni '80 che avevano individuato composti tipici del sangue come il siero e grandi quantita' di bilirubina", ha detto all'ANSA Di Lazzaro. 

Il sangue e' ricco di bilirubina, ha aggiunto "in due casi: nel caso di una persona malata di ittero e in quello di una persona percossa duramente, perche' nel sangue di quest'ultima si rompono i globuli rossi e il fegato rilascia bilirubina". Tenendo conto di questo, ha proseguito Di Lazzaro "il nostro obiettivo era, inoltre, capire perche' il sangue presente sul telo e' rosso e non marrone, come dovrebbe essere un sangue antico e ossidato"

A questo scopo, i ricercatori hanno messo a punto un esperimento durato 4 anni che ha usato un sangue compatibile con quello presente sulla Sindone: "abbiamo usato il sangue di una persona malata di ittero, perche' contiene grandi dosi di bilirubina". 

Dopo aver impregnato un telo di lino con questo sangue, i ricercatori hanno quindi irraggiato il telo con luce ultravioletta, compatibile con la luce del Sole, e hanno visto che "l'interazione tra raggi ultravioletti e bilirubina altera il colore delle macchie".

12/08/18

Poesia della Domenica: "Piccolo cabotaggio (i salvati e i sommersi)" di Fabrizio Falconi.




Piccolo cabotaggio
(i sommersi e i salvati)

Sottovento preparano i salvagenti
riparano la schiera dei fiocchi
colorati, smontano la vela, mettono
le dita nel mare e non sanno
più in che direzione voltarsi.
Arriva la costa, procedono
al minimo del motore, cercano
di sopravvivere, si proteggono
gli occhi dal riflesso della chiglia
rossa nell'acqua, zampillano
pesci d'alba e sono muti nella
loro piccola navigazione: ogni giorno
è mare in più, ogni giorno
quella parvenza chiamata vita
resiste.


Fabrizio Falconi
inedita - riproduzione riservata 2018

11/08/18

A San Paolo, in Brasile, la presentazione delle "Lettere a Bruna" scritte da Ungaretti.





Per me che ho scritto anni fa un romanzo, dedicato a questa vicenda: Per dirmi che sei fuoco, pubblicato da Gaffi, questa notizia è bellissima:


L'Istituto Italiano di Cultura di San Paolo in Brasile presenta il prossimo sabato, 18 agosto il volume "Lettere a Bruna", pubblicato da Mondadori, in una tavola rotonda con la partecipazione di Francesca Angiolillo, Anna Carboncini, Bruna Bianco e Francesca Cricelli Maeci. 

La vicenda è nota agli appassionati della grande poesia di Ungaretti: per via di una serie di conferenze, Giuseppe Ungaretti durante l'estate del 1966 è in Brasile, un luogo dove ha vissuto e a cui e' particolarmente legato. 

Al termine di un incontro pubblico gli si avvicina Bruna Bianco, una giovane fotografa, che gli da' alcune delle sue poesie su cui vorrebbe un giudizio, e lui - che sta per rientrare in Italia - rimane folgorato.


Tra i due, nonostante la grande differenza d'età, ha inizio una corrispondenza, già mentre Ungaretti e' a bordo della nave che lo riporta in Italia. 

Dopo alcuni telegrammi, la prima lettera di Ungaretti a Bruna e' datata 15-19 settembre. È una lettera lunga. Molte altre ne seguiranno, fino all`aprile del 1969. 

Bruna Bianco e' la "stella" che brilla in Dialogo (1966-1968, unica raccolta ungarettiana a due voci). 

Sei comparsa al portone 
In un vestito rosso 
Per dirmi che sei fuoco 
Che consuma e riaccende


Comincia in questo modo una relazione tra la giovane italiana e Ungaretti che, a causa della distanza, si svolgerà soprattutto attraverso le lettere. 

Quasi 400, conservate con cura dalla destinataria,raccontano la cronaca quotidiana di un amore impetuoso e prepotente, che riaccende nel poeta il desiderio di scrivere e da' inizio ad un nuovo slancio creativo. 

Bruna Bianco, parteciperà all'incontro a San Paolo del Brasile e sarà particolarmente emozionante ascoltare i suoi ricordi.

Sab 18 Ago 2018 
Orario: Alle 19:00 
Organizzato da : Biblioteca Mário de Andrade
Rua da Consolação 94.
Ingresso Libero 


10/08/18

Libro del Giorno: "La figlia del Capitano" di Aleksandr Puškin.


Ritorna in libreria nella versione ET - Einaudi Classici (impreziosita da una bellissima copertina che riporta la Ragazza Moscovita di A.P. Rjabuschkin, olio su cartone del 1903, conservata a San Pietroburgo al Museo di Stato Russo), il capolavoro di Aleksandr Puškin, pubblicato nel 1836, un anno prima della sua prematura morte avvenuta in duello. 

Come scrive Leone Ginzburg nella prefazione, La Figlia del Capitano è un romanzo completamente imperniato sul delicato problema del comportamento morale, pur assumendo - o forse proprio per questo - i toni di una fiaba russa. 

Petr Andreevic Grinev, il giovane alfiere protagonista, giudicato troppo ribelle dal severo padre, viene spedito a prestare il servizio militare all'avamposto di Belogorsk, nella sperduta steppa russa, rinunciando così al sogno di trasferirsi nella scintillante San Pietroburgo. 

Giunto qui insieme al fido tutore Savel'ic, attraverso un lungo viaggio in carrozza in mezzo alla tormenta di neve, il giovane viene accolto come in una famiglia, dal comandante della fortezza, il capitano Mironov, da sua moglie Vasilisa e dalla figlia Mar'ia Ivànovna, detta Masa.

Sono però gli anni della sanguinosa sollevazione antinobiliare - 1773-1774 - che sconvolse tutta la Russia Orientale, capeggiata dal cosacco analfabeta Pugacev, che un avamposto dietro l'altro, distrugge tutto quello che incontra, insieme al suo esercito (rimpinguato dalla popolazione locale che coglie l'occasione per sollevarsi contro i possidenti che vessavano i liberi coltivatori), fino a giungere proprio alla fortezza di Belogosrk, che viene conquistata dai cosacchi senza alcuna fatica. 

Il terribile Pugacev, visto da vicino, da Petr, rivela aspetti sorprendenti: non solo l'efferato brigante, capace di ogni malvagità, ma anche il furbo paesano, vanitoso e malinconico, perfino generoso, quando riconosce in Petr il ragazzo incontrato qualche tempo prima durante la tormenta di neve in una stazione di posta, che gli ha offerto il suo pellicciotto prezioso per coprirsi. 

Attraverso duelli, scontri e prigionie, si dipana la contrastata vicenda d'amore tra Petr e la dolce Masa, che per coronare il loro sogno dovranno superare innumerevoli traversie, compreso l'arresto del giovane ufficiale e la commissione di una dura condanna da scontare, proprio con l'accusa di essersi reso complice del brigante Pugacev, prima che le guardie dello zar riuscissero finalmente a neutralizzarlo. 

Un racconto meraviglioso, sempre sospeso tra incantamento e realismo, che può essere considerato il precursore del grande romanzo russo che troverà in Turgenev, Dostoevskij e Tolstoj i suoi massimi esponenti. 

Una lunga riflessione, dolente e pura, sul dovere, sull'onore, sulla dignità e sulla decenza. 

Che si legge come una vera e propria introduzione ai grandi temi della modernità.