Avevo appena iniziato l’università e cercavo qualcosa da fare. Mi capitò anche una prova per un’agenzia pubblicitaria di Milano: ipotizzai un piccolo copione per un “carosello” (allora, parlo di cinquant’anni fa, era la pubblicità televisiva per eccellenza). Presentai così la mia ideuzza che consisteva in una scena vuota e in essa due personaggi, come quelli di “Aspettando Godot” di Beckett, che si riferivano a un prodotto indefinito ma molto appetibile fuori dalla scena. La mia esperienza finì lì e ricordo che il responsabile dell’agenzia pronunciò, prima di liberarsi di me, solo queste lapidarie parole: «Troppo poco zucchero nel caffè».
L’episodio evidentemente mi colpì, e adesso riemerge nella mia mente a forza di leggere e ascoltare la parola “edulcorare”, ripetuta per giorni dai media in riferimento ai modi con cui si è andato formando il cosiddetto “governo del cambiamento”, quello appunto che sta cominciando a governarci. Ma è solo un aggancio possibile perché un po’ ovunque, nel gioco politico, la tendenza ad aggiungere cucchiaini di zucchero per attenuare l’amaro delle situazioni è molto diffusa. Per non parlare delle relazioni private nelle quali quasi tutti noi riversiamo normalmente dosi di dolcificanti per evitare di viverle come insopportabili.
Se ci mettiamo a osservare episodi, significati e conseguenze che intrecciano questa “società melliflua” nella quale - a quanto sembra - ci siamo accomodati con scarsa reattività, anzi volentieri, potremmo incontrare per esempio l’“incidente del curriculum” che è toccato all’attuale presidente del Consiglio, nel momento in cui apparve semisconosciuto sulla ribalta governativa. Il fatto che avesse edulcorato il curriculum, ingigantendo un poco la sua carriera di studioso dalle numerose esperienze internazionali, produsse una relativa sorpresa, ma è difficile negarne il carattere di sintomo, non solo nel senso di un cattivo vezzo accademico, non solo perché alla fine manifestamente inutile, bensì proprio perché è indice di un comportamento generalizzato.
Con aria maliziosa un collega che insegna sociologia mi ha raccontato che adesso nei curriculum si trova anche il contrario, come dichiarazioni di insuccessi e mancanze accademiche. Complimenti - ho pensato - ma vorrei poi vedere quale risultato possa ottenere un simile curriculum. Potremmo riconoscere qui un’inedita onestà. Dopo un attimo, tuttavia, rifletteremmo silenziosamente che si tratta di un gesto autolesionistico, una specie di autogol.
Allargando lo sguardo a quello che sta accadendo nei modi di stare a tavola, per dir così, dei nostri attuali governanti, si potrebbe subito obiettare che i gesti che sembrano prevalere non hanno nulla di dolce. I toni del discorso “populistico” non sembrano conoscere la moderazione: sono toni alti e pochi stanno reclamando che vengano abbassati, mentre molti li apprezzano proprio per il loro vigore, e ancor più viene condiviso il fatto che ai toni alti corrispondano finalmente gesti decisi rivolti a scuotere il sonno delle istituzioni europee, come nel caso della chiusura dei porti alle navi delle Ong che raccolgono i migranti. Ecco finalmente una politica autorevole che per funzionare richiede un po’ di autoritarismo!
Allora, dove starebbe la pratica dell’edulcorare? Non c’è nessuna contraddizione: intanto, gli atteggiamenti forti vengono introdotti non solo alzando la voce ma contemporaneamente con una serie di ammiccamenti, come se si trattasse di ovvietà molto desiderate (pensiamo alle annunciate strette sulla sicurezza), del tutto normali dunque e con lo scopo di migliorare le nostre esistenze grazie a un sovrappiù di tranquillità. “State sereni, italiani” è la musica di accompagnamento che ci pare di ascoltare.
Segue, partendo da qui, qualcosa di più significativo e meno banalmente retorico. Viene allo scoperto ciò che l’edulcorazione nasconde, proprio come lo zucchero copre l’amaro. Il messaggio ha da essere positivo e perciò tende a scansare ogni elemento di tristezza, di drammaticità e di angoscia. Se fa leva spesso sulla paura, non è certo per invitare a guardarci dentro bensì per esorcizzarla un attimo dopo averla evocata. Perciò ci si riferisce solo a quelle realtà che potranno essere ammansite e si evita ciò che produce problemi inquietanti. Ci si volta dall’altra parte, quando si rischierebbe che gli occhi vedano ciò che la propaganda non riuscirebbe a contenere nella sua rete.
E quando, come nel caso dell’affaire romano venuto alla luce con le recenti inchieste giudiziarie sulla corruzione, il nuovo ceto politico giallo-verde avverte il rischio di restare impaniato, è facile osservare che le reazioni di difesa sono del tipo: “Cose marginali di poca importanza”, “Un equivoco che si chiarirà entro qualche giorno”. Traducendo queste reazioni nel discorso che sto facendo, ecco un altro esempio di tecnica dolcificante adoperata quando il sapere di amaro tende a offendere troppo il palato.
Sarebbe però un errore restringere la questione ai comportamenti che si danno a vedere nell’attuale contingenza di governo, nell’idea presente di “governamentalità”. Infatti, bisogna valutare in che misura questi atteggiamenti siano lo specchio di una società intera (un attimo fa l’ho definita una “società melliflua”), quella stessa che il voto di marzo, rinforzato dagli ultimi sondaggi, ha manifestato chiaramente. Concordo che i cosiddetti “ultimi” sono rimasti in silenzio o sono stati silenziati, perché il popolo che ha avuto voce è il popolo dei “penultimi”, sostanzialmente disinteressato alla povertà e alla disperazione e soprattutto attento alla difesa dei propri piccoli privilegi.
La “società melliflua”, erede di una borghesia diventata piccolissima e totalizzante, non vuole saperne di amarezze. Per rimuoverle sembra disponibile ad accettare una falsificazione quotidiana che selezioni ciò che è gradevole, e viene presentato come tale, da ciò che è sgradevole e che dovrebbe restare nell’ombra. Abbiamo, a mio parere, una prova evidente di quanto ho appena detto se spiamo dentro le case e nelle vite individuali. Qualcuna fa eccezione? L’amaro è lì e lo sappiamo bene, però facciamo di tutto per tenerci su, per essere presentabili senza identificarci con un eterno lamento.
I lamenti preferiamo riservarli agli sfigati, noi invece cerchiamo di sorridere e di riscuotere il sorriso degli altri, scegliamo di frequentare quelli che contano o che comunque ci potrebbero promettere il guadagno di un piccolo gradino sociale.
Pier Aldo Rovatti, da L'Espresso 19 giugno 2018
Pier Aldo Rovatti, da L'Espresso 19 giugno 2018
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