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15/01/24

"Koba il Terribile" di Martin Amis e la rimozione collettiva del massacro di 20 milioni di uomini

 


Koba il Terribile è un altro meraviglioso libro di Martin Amis, pubblicato per la prima volta nel 2003. Un libro terribile da leggere, come Terribile è l'appellativo che Amis attribuisce a Josif Stalin, mutuandolo da quello con cui è passato alla storia il "Terribile" zar Ivan IV.
In 286 pagine Amis ricostruisce la carriera purtroppo irresistibile di uno dei più grandi sanguinari della storia, responsabile del genocidio di almeno venti milioni di persone: carriera irresistibile di un uomo rozzo, incolto, volgare e di personalità completamente border line (si direbbe oggi) capace di instaurare dal 1937 al 1953 una (non perfetta come quella nazista, ma altrettanto efficace) fabbrica del terrore, inducendo con la carestia imposta, alla miseria più assoluta un intero popolo, in particolare la secolare stirpe dei contadini russi, costretti a morire di fame o a mangiarsi tra di loro per sopravvivere.
Il massacro dei milioni di contadini russi si è accompagnato alle fucilazioni di massa, alle deportazioni nei gulag siberiani, alle torture sistematiche non solo dei dissidenti, ma anche di tutti quelli che per i motivi più diversi potevano anche lontanamente essere sospettati (la delazione era anch'essa di massa) di poter essere d'ostacolo al programma stalinista.
Leggere questo documentatissimo libro oggi è importante, perché a Stalin riuscì anche il miracolo, nonostante (o grazie a) i genocidi e alle deportazioni, di riuscire a rimanere una sorta di semidio per una buona parte dei russi, sovietici e non (la memoria di Stalin è ancora oggi, in patria, a partire da Putin, difesa e vezzeggiata).
Fa bene leggerlo perché, con il suo tono dolente e lucido, Amis parla a tutti, anche e soprattutto alle generazioni che in Inghilterra come in Italia, sono cresciute rimuovendo sistematicamente e sostanzialmente, l'immagine di Stalin e dei suoi aberranti crimini.
Generazioni, le nostre, che sapevano tutto di Treblinka e Dachau ma niente (e non volevano saperne niente) di Solovetskij e Belomorsko.
Generazioni che infatuate di John Reed e dell'Ottobre, si erano specializzate nell'arte dei distinguo, e praticavano l'oblio a riguardo del terrore sovietico, preferendo credere alla favola della controinformazione inventata dagli americani.
Fu forse il fatto che senza il sacrificio immane del POPOLO russo (non di Stalin e dei suoi inetti generali) nessuno probabilmente sarebbe riuscito a piegare e fermare l'avanzata nazista e la catastrofe mondiale, che generò anche una particolare condiscendenza, fatta in sostanza di silenzio, su quello che dal 1937 in poi successe in Russia, fino alla morte di Stalin.
Oggi la storia non ha buchi. E' particolarmente toccante l'ultimo capitolo del libro, quello nel quale con diverse lettere, Amis si rivolge al padre (il grande scrittore Kingsley Amis) e all'amico del cuore, Christopher Hitchens (grande scrittore e saggista), chiedendo loro come abbiano potuto - anche loro, così intelligenti, così colti e sensibili - giustificare Koba il Terribile e il suo "terrificante terrore". Uno strabismo imbarazzante (e colpevole), perché anche allora, chi avesse veramente voluto, avrebbe potuto guardare in faccia la semplice realtà.
Si preferì non farlo, anche in Occidente, con il risultato che la Russia è ancora oggi, nei metodi e nella concezione del potere assoluto, non così distante da quella dell'impunito Koba (che morì tranquillamente nel suo letto, probabilmente nemmeno consapevole dell'eredità di sangue, dolore e terrore lasciata in dono all'umanità).

Fabrizio Falconi - 2024

03/03/22

Guerra in Ucraina - Perché invece di censurare Dostoevskij, andrebbe letto per far rinascere la Russia

 


Sconcertato come tutti dalla folle decisione di una università italiana di annullare il corso di uno scrittore italiano tra i massimi conoscitori di Dostoevskij, decisione per fortuna subito ritrattata e frutto evidentemente di un colpo di sole, o di una scellerata concezione del politically correct, ho ritrovato questa pregevole intervista di qualche anno fa (2012) realizzata da Alessandro Zaccuri a Tat’jana Kasatkina, filologa e critica letteraria che presso l’Accademia delle scienze di Mosca ha presieduto la commissione per lo studio dell’autore di Delitto e castigo. Le sue parole, rilette oggi, suonano profetiche e spiegano perché Dostoevskij può e deve essere proprio il punto di ripartenza della Russia, arrivata a un punto di non ritorno nel suo processo di putinizzazione

«Dostoevskij – diceva la Kasatkina – è lo scrittore russo della sua epoca più vicino ai lettori di oggi, giovani compresi. Più di Tolstoj, grandissimo romanziere, certo, che però finisce per allontanarsi da noi per la sua preoccupazione di impartire precetti morali. Si presenta come un maestro, vuole insegnarci la bontà, ma davanti a questa pretesa l’essere umano si sottrae, perché intuisce l’accusa nascosta in un simile atteggiamento: “Così non va bene, pare che sostenga Tolstoj, non sei come dovresti essere, non sei abbastanza buono”. Dostoevskij, al contrario, lancia un richiamo al qual l’essere umano non può non rispondere. “Sii, dice a ciascuno di noi, diventa te stesso”. È una sfida completamente diversa, che implica il rischio, l’avventura, un totale abbandono all’inatteso».

Anche il pericolo di perdersi? Il concetto dostoevskijano di «sottosuolo» non è del tutto rassicurante, obietta Zaccuri.

«Perché viene frainteso», risponde al Kasatkina, «nei Ricordi del sottosuolo Dostoevskij rappresenta l’uomo del suo tempo, al quale non è stata neppure data la possibilità di credere in Dio. Una condizione terribile, con il mondo ripiegato su se stesso, chiuso a ogni occasione di incontro con l’Assoluto. È il momento in cui l’umanità crede di salvarsi con le sue sole forze, facendo affidamento sulla propria intelligenza. Il cosiddetto “uomo del sottosuolo” non rappresenta il nostro lato di tenebra, ma il disaccordo radicale nei confronti di questa limitazione. Sente di essere più grande di ciò che gli viene imposto, è come se dovesse sottoporsi a un intervento chirurgico che lo mutili per adeguarlo alle richieste della mentalità corrente. Ma lui sa che nella sua persona non c’è nulla di superfluo e quindi non può smettere di picchiare conto la “parete di pietra” eretta dalle leggi di natura, a causa della quale sarebbe condannato a un’esistenza solo orizzontale

Del resto, già prima di scrivere Ricordi del sottosuolo, in alcune pagine poi espunte da Memoria da una casa morta Dostoevskij aveva affermato con chiarezza che la vera pena non sta nella sofferenza e neppure nella reclusione: l’uomo soffre veramente solo quando sa di non essere più libero».

«Ho scoperto L’idiota a undici anni: allora (all'epoca della Unione Sovietica, ndr) non potevamo conoscere il Vangelo, ma potevamo conoscere il principe Myskin. È stata la mia e la nostra salvezza. Dostoevskij ci ha fatto capire che eravamo costretti a vivere sotto un cielo artificiale. Meglio, sotto una stuoia che era stata stesa al posto del cielo. Intendiamoci, anche oggi c’è qualcuno che si adatta a stare sotto una specie di ombrello che lo separa da Dio. Ma per la maggior parte di noi quella era la morte. Dostoevskij è stato più di uno scrittore: è stata la persona che ci ha aiutato a liberarci di quella stuoia, in modo da ritrovare il cielo. Andando oltre la parete di pietra, insomma».

Vale anche per la Russia di oggi?

«Dopo le scorse elezioni è accaduto qualcosa di sorprendente per la sua naturalezza. A Mosca sono scese in piazza non meno di trentamila persone (cinquantamila, secondo alcuni), non con l’intento di creare disordini, ma per guardare finalmente il potere negli occhi. “Non capiamo come sia possibile continuare a mentire così”, questa è la sostanza della ribellione, che coincide con la richiesta di essere trattati non come sudditi, bensì come esseri umani. Le proposte che hanno preso a circolare sul web non sono rivolte alle autorità, ma ai singoli cittadini, alle persone nella loro straordinaria e irripetibile singolarità. Il compito è lo stesso indicato da Dostoevskij: “Sii”, e cioè “diventa uomo in tutta la tua pienezza, lì dove ti trovi, in ciò che fai ogni giorno”. La vera rivoluzione russa sta in questo cambiamento interiore, che prescinde dai passi che il governo vorrà o non vorrà compiere».

12/01/17

"Confessioni di un alfiere decaduto" di Andrei Makine. (Recensione).



Scritto nel 1990 e pubblicato due anni dopo per la prima volta in Francia con il titolo  Confession d'un porte-drapeau déchu da Belfond, questo è il secondo romanzo di Andrei Makine, nato in Siberia a Krasnoyarsk nel 1957 e esiliato con una richiesta di asilo politico in Francia, a Parigi, dal 1987. 

Makine, come è noto, scrive in francese, lingua che conosce e studia dall'età di 4 anni, quando una vecchia signora cominciò a prendersi cura di lui e a impartirgli lezioni private di quella lingua, che poi studiò a Mosca e cominciò ad insegnare a Novgorod, prima di trasferirsi in Francia. 

Durante i suoi primi anni a Parigi, Makine visse la stagione del diseredato, dello sradicato.  In un mondo e in una terra non suoi, agevolato dalla perfetta conoscenza della lingua, cominciò a scrivere furiosamente, soprattutto dei suoi ricordi e del suo mondo russi, cominciando ad essere pubblicato, fino a vincere in pochi anni (1995) il prestigioso Premio Goncourt e ad ottenere la cittadinanza francese l'anno seguente (che fino a quel momento gli era stata negata). Attualmente è anche membro dell'Accademia di Francia (dal 2016). 

Chi conosce Makine, sa quanto può essere sofisticata e ricca la sua lingua.  I suoi romanzi sono sempre prima di tutto un viaggio: un viaggio nella memoria, nelle suggestioni di una lingua, e sostanzialmente nel tempo. 

Anche qui, in Confessioni di un alfiere decaduto, ritorna - in forma di lunga lettera aperta all'amico di infanzia Arkadj, che ormai vive negli Stati Uniti e si è perfettamente occidentalizzato - il mondo perduto della giovinezza, il mondo dei panorami scintillanti, dei cieli di Russia, ma anche delle fanfare e delle bandiere, delle adunate di ragazzi su enormi piazzali in attesa del notabile sovietico di turno.  

Ma è nella descrizione delle cose minute della natura, dei suoi vibratili aspetti che Makine riesce a tessere un ordito di squisita bellezza, raccontando in poco più di 100 pagine la vita di quella piccola corte, formata da tre sole case, in mezzo alla campagna russa, sorta intorno ad una misteriosa Crepa - che si scoprirà essere la cicatrice di antichi e terribili fatti di guerra.   

E' proprio la guerra, protagonista di questa storia. La guerra combattuta per la difesa della Russia contro l'avanzata dei nazisti, la difesa di Leningrado, l'abiezione che ne seguì, nei ricordi e nei racconti dei genitori del protagonista e di quelli di Arkadj.  I padri dei due bambini hanno combattuto insieme. Uno è rimasto paralitico. L'altro - Jasà, il padre di Arkadj . ne è divenuto il custode, il compagno di infinite partite a domino nel cortile della corte. 

Anche le madri nascondono segreti, come ogni abitante di quel luogo desolato.  Anche i nuovi uomini, plasmati dalla retorica sovietica - sedotti da essa, e respinti - sono chiamati alla guerra, una guerra che stavolta si è spostata sui confini dell'Afghanistan. 

Quel tempo perduto, che ha legato i due bambini, non esiste più. La loro formazione li ha portati su sponde lontane, e forse nemmeno si incontreranno più. 

Ma quel cortile, quelle facce, quei sospiri, quelle vigliaccherie e attese, quelle forme di vita così pulsanti e vere, quei sogni sbocciati troppo presto e morti troppo tardi, porteranno segni indelebili nelle vite di uomini - come suggerisce il titolo - definitivamente decaduti (disarcionati da un sogno o da una illusione che, come una guerra persa, li ha respinti lontani).