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05/11/25

LA VITA NON PUO' ESSERE RISOLTA PERCHE' NON E' UNA EQUAZIONE MATEMATICA (CON BUONA PACE DELL'AI O AI)


Avverto sempre una puntura di disturbo quando sento dire che quel tipo è risolto. Che quella tipa ha una vita risolta. Che una questione che riguarda le relazioni umane sia stata risolta. Per esempio, mettiamo, una guerra risolta con una pace , firmata la quale i due contendenti continuano ad ammazzarsi ogni giorno.

La verità è che l'essere umano - e quindi la sua vita - non è una equazione matematica.

E ammesso anche che la vita umana rappresenta un problema o una serie di problemi (di tipo non matematico, ma che cercano soluzioni), l'esperienza insegna a ogni essere umano che, come diceva Wittgenstein, la soluzione del problema della vita si intravede allo scomparire di esso.

Tutta la vita odierna è però una continua a sfida - e sempre di più - a ricercare soluzioni ai vari problemi che la vita sottopone. Come se si trattasse di far quadrare i conti, mettere a posto i numeri, un po' più o un po' meno, bilanciare l'algoritmo come fanno i sistemi integrati che comandano globalmente la rete.

Eppure le grandi tradizioni filosofiche - in occidente come in oriente - hanno messo in guardia gli uomini dal voler trattare le loro vite come se fossero sequenze di soluzioni a problemi, dichiarando che questa è la via più garantita per procurarsi l'infelicità.

Ogni soluzione umana è infatti precaria e provvisoria e l'illusione di porvi rimedio aggiungendo o togliendo pseudo-ingredienti non porta alla felicità.

Spesso, anzi avviene il contrario. Perché, come afferma Carl Gustav Jung , la nevrosi è proprio il tentativo di soluzione individuale (non riuscito) d'un problema generale. Come risultato finale di un confronto conflittuale tra le pulsioni intrinseche dell'individuo e l'ambiente e il tempo in cui vive.

Il vero problema è che agli uomini e alle donne piace molto l'idea di sentirsi e dichiararsi risolti: qualcuno che ha trovato la soluzione all'enigma della vita perché è più furbo o più intelligente di qualcun altro.

Mi viene in mente quel bellissimo film, di Thomas Vinterberg, vincitore del premio Oscar, Un altro giro ( Durk , 2020) nel quale il protagonista, Martin (un grande Mads Mikkelsen) insegnante alle prese con problemi personali (lavoro, moglie figli) decide, insieme a tre amici maschi e colleghi, di mettere in pratica la teoria di uno psichiatra norvegese, il quale sostiene che l'uomo sia nato con un deficit da alcol pari allo 0,05% che lo renderebbe meno attivo sia nelle relazioni sociai che in quelle psico-fisiche. Martin, depresso a causa della sua condizione, prende sul serio la teoria dello psicologo e comincia a bere piccole quantità di alcol al lavoro. Così fanno anche i suoi amici.

E all'inizio la soluzione sembra funzionare. Quella quantità d'alcool, quell'essere sempre inebriato, durante la giornata, in quello stato felice della pre-ubriacatura, sembra avere eliminato di colpo pesantezze e problemi: la vita migliora, la vita si risolve.

Naturalmente l'espediente funziona soltanto all'inizio. Perché più va avanti più la cosa (senza spoilerare) assume contorni drammatici e poi tragici.

Insomma, bere alcool programmato durante la giornata, o drogarsi con l'intento di tenere sotto controllo la cosa, o dedicarsi al riempimento bilanciato dell'agenda della vita come se fosse una lista della spesa, raramente funziona e quasi mai porta al raggiungimento della felicità, né tanto meno alla soluzione dei problemi finali.

La ricerca ossessiva della soluzione può diventare anzi la fonte di orrori e ignominie (così, en passant , mi viene in mente che Hitler chiamava l'olocausto programmato degli ebrei, che per lui era il problema, la Soluzione finale).

Tutto questo per dire che oggi bisognerebbe ancor di più diffidare dei presidenti che si propongono come solutori di problemi - che riguardano vite umane pubbliche e private, dei soloni (Solone era per l'appunto quel sapiente vissuto 600 anni prima di Cristo che spese tutta la vita a cercare di regolamentazione la società ateniese), degli imbonitori, dei sepolcri imbiancati, dei manuali e dei menu, degli integratori e dei demiurghi, delle intelligenze artificiose e artificiali, delle banche dati e degli algoritmi.

L'equazione della vita umana non esiste, e se anche esistesse essa non è risolvibile. Lo sperimentiamo ogni giorno, anche quando scendendo di casa al mattino con le nostre belle scarpe nuove pestiamo senza volerlo una merda sul marciapiede.

La rinuncia al trovare a tutti i costi soluzioni, può anzi essere molto liberatoria.

Infatti, non si tratta di abbandonarsi all'assurdo e nulla è perduto. Se soltanto fossimo capaci di rovesciare il problema e pensare a cosa viene prima.

Come disse una volta Swami Satchidananda Non cercare la soluzione, trova l'equilibrio esso porterà la soluzione.

Fabrizio Falconi

FABRIZIOFALCONI.SUBSTACK.COM



24/02/25

E' possibile cambiare il nostro carattere, la nostra personalità ? La risposta di Carl Gustav Jung



Ci chiediamo spesso, durante la nostra vita, se è possibile cambiare (i difetti della) nostra personalità, del nostro carattere. Se possiamo migliorarci insomma, o comunque cambiare, nella direzione che intravediamo come soluzione per noi, ma che ci è difficile raggiungere. E la stessa cosa ci chiediamo a proposito di qualcun altro, che magari ci è a cuore, che è vicino a noi, ma che non riesce a compiere un cammino evolutivo come noi vorremmo, e come crediamo sia meglio anche per lui. La risposta che dà a questo quesito Carl Gustav Jung è piuttosto radicale e illuminante.


Nessuno sviluppa la propria personalità perché qualcuno gli ha detto che sarebbe utile farlo.

Senza necessità nulla si cambia, meno che mai la personalità umana.
Essa è tremendamente conservatrice, per non dire inerte.
Solo la necessità più acuta può stanarla.
Allo stesso modo anche lo sviluppo della personalità non obbedisce ad alcun desiderio, ad alcun ordine né ad alcuna comprensione profonda, ma solo alla necessità.
Ha bisogno della costrizione motivante di interni o esterni destini.
Carl Gustav Jung

01/08/24

Jung e gli UFO (la risposta fulminante a C. Lindbergh)


Questo è un aneddoto reale, che è molto utile - anche metodologicamente - per molte questioni dell'oggi.

Un giorno del 1959 C.G.Jung ricevette la visita di Charles Lindbergh. 

Jung aveva appena pubblicato "Un mito moderno: le cose che si vedono le cielo", il celebre trattato sugli UFO. Il grande trasvolatore voleva incontrare Jung proprio per convincerlo che gli UFO non avevano alcuna consistenza materiale. 

"Il comandante dell'aviazione militare Carl Spaatz mi ha detto che se gli UFO esistessero davvero, sicuramente ne avremmo sentito parlare entrambi." 

Jung rimase in silenzio, poi rispose: "Ci sono tantissime cose che accadono intorno a questo pianeta e di cui lei e il generale Spaatz non sapete nulla."

22/01/23

La forza di un racconto: "Open" di Andre Agassi

 


Ci è voluto "Open" il libro autobiografico di Andre Agassi, che ho letto soltanto ora, per sentirmi per una volta del tutto d'accordo con una affermazione di Baricco.

Il quale scrive a proposito di questo libro: "Se parti, non scendi più fino all'ultima pagina."

Ha pienamente ragione. "Open" è più avvincente di un romanzo, specie di una gran parte di quelli che oggi vengono sfornati.

Il merito è della vicenda personale di Agassi, certo, della sua vita piena di cose curiose e memorabili da raccontare, ma soprattutto delle capacità di scrittore di J.R. Moehringer (di famiglia italiana, nonostante il suo cognome), che ha materialmente scritto il libro, "montando" letterariamente ore e ore di registrazione.

Moerhinger del resto, dopo aver vinto il Pulitzer per il giornalismo, ha scritto un romanzo, Il Bar delle Grandi Speranze, che ha vinto molti premi importanti e che è stato ottimamente portato sullo schermo da George Clooney con il titolo di The Tender Bar (2021), protagonista Ben Affleck.

La forza di Open - che può essere tranquillamente letto anche da chi non capisce un'acca di tennis - è nella descrizione di un "processo di individuazione", come direbbe Jung. Quel percorso, cioè, attraverso il quale ciascuno conosce (dovrebbe cercare di conoscere) se stesso, che è poi lo scopo per cui si sta al mondo.

Agassi a cinque anni si ritrova con una racchetta da tennis in mano, ferocemente in mano a un padre pazzo, esule armeno trapiantato nel deserto di Las Vegas. Il padre pazzo ha deciso per lui il suo destino. Sarà, costi quel che costi, un tennista. Ma non uno qualsiasi, un campione.

La "vocazione" di Agassi non è la "sua" vocazione dunque, ma la vocazione che qualcun altro gli ha messo indosso e che lui, per molti motivi che sono l'ossatura del libro, non può fare a meno di non indossare.

Ciò gli provoca un costante sentimento di scissione: amore-odio per il tennis, amore-odio per (quel)la vita, che durerà fino al giorno in cui - dopo aver conquistato ben otto titoli slam - deciderà di smettere.

E' quindi una vicenda che parla a tutti. Perché tutti, più o meno, nella incertezza del nostro destino, ci siamo trovati a dover scegliere tra quello che gli altri o un altro pensavano fosse il giusto per noi e quello che noi, confusamente o no, sentivamo invece che fosse "più" giusto.

La confessione di Agassi è bella, dolorosa e sa di autentico (è questa la bravura di Moeringher). Quando un libro autobiografico di 500 pagine, scritto tutto in prima persona, senza pause, e al tempo presente, ti tiene inchiodato - anche se tu sai già tutto di cosa accadrà perché quel tennista lo hai visto decine e centinaia di volte in televisione per tutti gli anni '90 e anche dopo) - vuol dire che il libro è più che ottimo.

La trasformazione del "Kid di Las Vegas", ranocchio che si veste con orrende tute fucsia e ha al posto dei capelli un parrucchino biondo leopardato (un boro, lo si sarebbe definito a Roma), in un principe della racchetta, gentleman, marito romantico e benefattore con una evolutissima scuola di formazione per bambini disagiati, è oggettivamente ben scritta e soprattutto credibile.

Agassi, dopo aver tanto sofferto, si è anche trovato. Ed è questa la cosa più bella. Ha avuto la capacità di aiutarsi e di farsi aiutare. Ha capito che non sapeva chi era perché non gli era stato permesso né di conoscere le cose del mondo, né di conseguenza, se stesso.

E' una bella parabola di vita, un inno al sacrificio (parola che oggi suscita allergia), un racconto vero, come devono essere i racconti. 

Fabrizio Falconi - 2023