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05/12/25

INDECISI A TUTTO - L'amore al tempo dell'AI

 


Mi ronza nella testa che sia sempre più difficile amarsi.

Sembra che le patologie dell'amore (o meglio dei modi di amare) siano in crescita costante, nonostante (o forse a causa, cercheremo di indagare) delle opzioni dell'eros sempre più ampie o disponibili.

In realtà l'unica cosa che cresce costantemente è il numero di persone single (felici o meno di esserlo) e l'aumento di rapporti inconcludenti.

Sì ma, si dirà, perché mai un rapporto d'amore (erotico, passionale, persino platonico) dovrebbe essere “concludente”?

Beh, perché di solito i rapporti inconcludenti non generano felicità negli esseri umani. Piuttosto frustrazione, perché ce lo aveva già raccontato Platone, gli esseri umani così sono fatti e se ne vanno sempre in cerca, anche quando non lo dicono o non lo sanno, di un'altra metà che li completi. O almeno fornisca questa rassicurante sensazione.

L'attuale difficoltà di “completarsi” sembra a che fare con le ferite individuali non risolte. Il mondo sempre più “in cura”: psicologia di massa, psichiatria di massa, tecniche di autoconoscenza di massa, rivela sempre nuove “ferite” che cerchiamo di risolvere prima di proporci a qualcuno.

Come scriveva Krishnamurti : “Se non risolvete le vostre ferite, nel corso della vita vorrete ferire gli altri, sarete violenti, oppure vi ritrarrete dalla vita e dai rapporti con gli altri perché non vi feriscano più”.

Qualche volta succede anche che le ferite non risolte non determinano nessuna di queste due reazioni - essere violenti o ritrarsi dalla vita e dai rapporti con gli altri.

E' ciò che descrive - come un moderno esemplare trattato sull'amore - quel meraviglioso e doloroso film che è La persona peggiore del mondo Verdens verste menneske, Joaquim Trier, 2021 per il quale Renate Reinsve ha vinto il premio per la migliore attrice a Cannes).

Qui viene narrata in dodici stringenti capitoli, la vicenda di Julia, studentessa di medicina a Oslo.

Julia è brillante, molto bella, disinibita e intelligente. Circondata di uomini, ovviamente. A partire dal suo insegnante universitario. Il primo capitolo è velocissimo: basta poco a capire che Julia è in piena fase edonistica. Come è giusto che sia. Passa da una esperienza e da una relazione all'altra, senza farsi troppi problemi. E' moderatamente inquieta e sufficientemente narcisista per attrarre, sedurre e divertirsi.

La prima relazione vera (“impegnativa” si diceva una volta) è con Aksel, acclamato fumettista, politicamente sensibile, più grande di lei di una quindicina d'anni. Aksel è insomma ancora un “boomers”. Giulia no, Giulia è fluida. Ma proprio per questo, Aksel appare in questo momento della sua vita come una “occasione di senso”.

E' l'amore, insomma. E tutto andrebbe bene, se non fosse che tutti gli amici di Aksel sono sposati e hanno figli, mentre Julia non sembra affatto propensa a mettere su famiglia. In più Aksel, amorevole, evoluto, comprensivo, progressista, è anche “risolto”, riceve gratificazione dal suo ruolo intellettuale e dal suo lavoro. Julia no, Julia non sa ancora che fare nella/della sua vita. Sa di possedere - forse - anche un valente talento creativo, ma non sa per fare cosa (la malattia dell'epoca).

Scopriamo anche, in uno dei capitoli, che Julia è così anche perché ha anche lei la sua bella ferita familiare. In particolare il rapporto freddissimo e ir-risolto con il padre anaffettivo, che pensa solo a sè stesso.

Al contrario di ciò che afferma Krishnamurti però, Julia non ha reagito né facendo violenza agli altri (così almeno crede), né isolandosi dal mondo.

Nel frattempo comunque la sua irresolutezza non guarisce, nemmeno dentro il confortante rapporto con Aksel.

Un giorno, mentre Aksel è celebrato a una festa per il suo ultimo libro (guarda un po'), Julia incontra casualmente un ragazzone simpatico insieme al quale ritrova la “leggerezza” del cazzeggio (anche erotico), della seduzione. Non ci va a letto, ma è quasi peggio. Perché Eivind, che di mestiere fa il barista, si è incarnato dentro di lei la via di fuga possibile .

Una via di fuga dall'impegno con Aksel, dall'essere all'altezza, dall'essere responsabile e progettuale, dal sentirsi insomma “incasellata” come tutti.

In poco tempo la relazione con Aksel esplode. Julia lo lascia anche con una certa “crudeltà”: la crudeltà inevitabile di chi mette fine a un rapporto e chiudendo le porte all'innamoramento e poi all'amore dell'altro.

La relazione con Eivind (che nel frattempo lascia la sua compagna per Julia) è un ritorno all'innocenza, alla irresponsabilità, alla giocosità, alla leggerezza. Insomma, Eivind non ha certo lo spessore culturale, filosofico di Aksel, ma nemmeno la sua “pesantezza” e soprattutto le sue richieste e le sue aspettative sul loro futuro di coppia.

In tutto questo, Julia ha messo un bel punto anche ai suoi (molto vaghi) progetti di vita. E tra i molti talenti che potrebbero provare a realizzare, non ne nessuno segue, e finisce a fare la commessa in una libreria.

Il redde rationem della vicenda avviene per la scoperta casuale di Julia, della malattia di Aksel. Non si frequentavano più. Viene a saperlo da un amico di Aksel che passa in libreria. Julia è sconvolta, perché la malattia è molto grave e incurabile.

Inizia un lacerante percorso di addio alla vita di Aksel, che Julia vuole accompagnare, anche forse per spegnere i sensi di colpa che prova nei confronti dell'ex.

Aksel non nutre nessun rancore: è evoluto, è progressista, è amorevole. Fa anzi di tutto per tranquillizzare Julia. Così le cose dovevano andare. Erano diversi. L'età, soprattutto. Per lui lei è stata il grande amore della sua vita. Per lei no, perché ha ancora troppa vita davanti.

Inutile dire che la tragedia di Aksel porta con sè come conseguenza anche la fine del rapporto con Eivind. Un rapporto bloccato che - soprattutto per l'inconcludenza di Julia - è ibernato nella fase adolescenziale e non è e non può diventare “progetto”.

Dunque cosa ne sarà di Julia?

Il film si conclude con un grande punto interrogativo. Di sicuro la morte (di Aksel) è stato uno spartiacque. Ma per colomba? Per diventare cosa? Per essere cosa?

La ferita non è “risolta”, la fuga dal mondo non ha funzionato e non è quel che Julia cerca (del resto la sua bellezza attrattiva la mette al riparo dall'essere “dimenticata” dai maschi), la violenza agli altri beh, lei di sicuro ha cercato di non farla. Non è certo “la persona peggiore del mondo”. Aksel ha sofferto certo. Ma ha sofferto come si soffre sempre in amore.

Trier è riuscito nell'impresa di mettere in scena un dramma paradigmatico (come faceva di mestiere il grande Ingmar Bergman) sui moti dell'animo umano dentro le sfere del tempo che trascorre per gli individui e per l'umanità.

L'inconcludenza può anche non essere un disvalore. Ma è quello che abbiamo oggi. Ha a che fare con la frammentazione dell'offerta che si presenta a ciascuna vita. Le prospettive appena 60 anni fa erano di una limitatezza sconvolgente a quello che oggi la vita può-o meglio potrebbe , come semplice opzione ; ho l'impressione che più del 90% di queste opzioni siano illusioni o semplici pretese - offrire.

Stare soli, si sa, se non è una vera scelta, è una condanna. Anche se le condanne sono di diversi, infiniti tipi e ciascuno può viverla in mille modi.

Di certo l'amore non è un algoritmo. Nemmeno quello erotico. E dubito che l'AI possa “risolvere” qualcosa sul piano dell'aiuto individuale in questo campo. Prova a chiedere a Chapt: "come posso trovare la mia anima gemella? Come posso completarmi in un rapporto?"

L'amore passa ancora per la via della sperimentazione e soprattutto dell'esperienza. Passa e può passare dal “sentirsi la persona peggiore del mondo” al dolore lancinante dell'amare essendo rifiutati. Ma è solo per vie impervie (e diremmo oggi “pericolose”) che esso può manifestarsi. Richiede di mettersi in gioco, richiede di rischiare, di muoversi, di uscire dalla zona di comfort.

Cose che oggi, che abbiamo tutto, appaiono sempre più difficili.

Fabrizio Falconi

Leggi su Substack: https://fabriziofalconi.substack.com/p/indecisi-a-tutto



05/11/25

LA VITA NON PUO' ESSERE RISOLTA PERCHE' NON E' UNA EQUAZIONE MATEMATICA (CON BUONA PACE DELL'AI O AI)


Avverto sempre una puntura di disturbo quando sento dire che quel tipo è risolto. Che quella tipa ha una vita risolta. Che una questione che riguarda le relazioni umane sia stata risolta. Per esempio, mettiamo, una guerra risolta con una pace , firmata la quale i due contendenti continuano ad ammazzarsi ogni giorno.

La verità è che l'essere umano - e quindi la sua vita - non è una equazione matematica.

E ammesso anche che la vita umana rappresenta un problema o una serie di problemi (di tipo non matematico, ma che cercano soluzioni), l'esperienza insegna a ogni essere umano che, come diceva Wittgenstein, la soluzione del problema della vita si intravede allo scomparire di esso.

Tutta la vita odierna è però una continua a sfida - e sempre di più - a ricercare soluzioni ai vari problemi che la vita sottopone. Come se si trattasse di far quadrare i conti, mettere a posto i numeri, un po' più o un po' meno, bilanciare l'algoritmo come fanno i sistemi integrati che comandano globalmente la rete.

Eppure le grandi tradizioni filosofiche - in occidente come in oriente - hanno messo in guardia gli uomini dal voler trattare le loro vite come se fossero sequenze di soluzioni a problemi, dichiarando che questa è la via più garantita per procurarsi l'infelicità.

Ogni soluzione umana è infatti precaria e provvisoria e l'illusione di porvi rimedio aggiungendo o togliendo pseudo-ingredienti non porta alla felicità.

Spesso, anzi avviene il contrario. Perché, come afferma Carl Gustav Jung , la nevrosi è proprio il tentativo di soluzione individuale (non riuscito) d'un problema generale. Come risultato finale di un confronto conflittuale tra le pulsioni intrinseche dell'individuo e l'ambiente e il tempo in cui vive.

Il vero problema è che agli uomini e alle donne piace molto l'idea di sentirsi e dichiararsi risolti: qualcuno che ha trovato la soluzione all'enigma della vita perché è più furbo o più intelligente di qualcun altro.

Mi viene in mente quel bellissimo film, di Thomas Vinterberg, vincitore del premio Oscar, Un altro giro ( Durk , 2020) nel quale il protagonista, Martin (un grande Mads Mikkelsen) insegnante alle prese con problemi personali (lavoro, moglie figli) decide, insieme a tre amici maschi e colleghi, di mettere in pratica la teoria di uno psichiatra norvegese, il quale sostiene che l'uomo sia nato con un deficit da alcol pari allo 0,05% che lo renderebbe meno attivo sia nelle relazioni sociai che in quelle psico-fisiche. Martin, depresso a causa della sua condizione, prende sul serio la teoria dello psicologo e comincia a bere piccole quantità di alcol al lavoro. Così fanno anche i suoi amici.

E all'inizio la soluzione sembra funzionare. Quella quantità d'alcool, quell'essere sempre inebriato, durante la giornata, in quello stato felice della pre-ubriacatura, sembra avere eliminato di colpo pesantezze e problemi: la vita migliora, la vita si risolve.

Naturalmente l'espediente funziona soltanto all'inizio. Perché più va avanti più la cosa (senza spoilerare) assume contorni drammatici e poi tragici.

Insomma, bere alcool programmato durante la giornata, o drogarsi con l'intento di tenere sotto controllo la cosa, o dedicarsi al riempimento bilanciato dell'agenda della vita come se fosse una lista della spesa, raramente funziona e quasi mai porta al raggiungimento della felicità, né tanto meno alla soluzione dei problemi finali.

La ricerca ossessiva della soluzione può diventare anzi la fonte di orrori e ignominie (così, en passant , mi viene in mente che Hitler chiamava l'olocausto programmato degli ebrei, che per lui era il problema, la Soluzione finale).

Tutto questo per dire che oggi bisognerebbe ancor di più diffidare dei presidenti che si propongono come solutori di problemi - che riguardano vite umane pubbliche e private, dei soloni (Solone era per l'appunto quel sapiente vissuto 600 anni prima di Cristo che spese tutta la vita a cercare di regolamentazione la società ateniese), degli imbonitori, dei sepolcri imbiancati, dei manuali e dei menu, degli integratori e dei demiurghi, delle intelligenze artificiose e artificiali, delle banche dati e degli algoritmi.

L'equazione della vita umana non esiste, e se anche esistesse essa non è risolvibile. Lo sperimentiamo ogni giorno, anche quando scendendo di casa al mattino con le nostre belle scarpe nuove pestiamo senza volerlo una merda sul marciapiede.

La rinuncia al trovare a tutti i costi soluzioni, può anzi essere molto liberatoria.

Infatti, non si tratta di abbandonarsi all'assurdo e nulla è perduto. Se soltanto fossimo capaci di rovesciare il problema e pensare a cosa viene prima.

Come disse una volta Swami Satchidananda Non cercare la soluzione, trova l'equilibrio esso porterà la soluzione.

Fabrizio Falconi

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