Le rovine di Cuma, in
Campania, con l’antica grotta della Profetessa.
La città di Cuma – le cui rovine si ammirano oggi nel territorio di
Pozzuoli, nella zona dei Campi Flegrei, non lontano da Napoli – fu una delle
prime in assoluto fondate dai coloni greci nell’ottavo secolo avanti Cristo,
proprio negli stessi anni in cui più a nord nasceva in una sorta di disputa
fratricida, la leggenda di Roma sul colle Palatino.
I coloni della Magna Grecia che per la prima volta arrivarono fin qui,
scelsero il nome di Cuma - Κύμη
(Kýmē) – proprio perché questo terreno roccioso, in realtà di lava
solidificata nel corso dei secoli, ricordava un’onda.
Il rialzo della
roccia apparve a questi avventurosi colonizzatori il luogo ideale per costruire
una città fortificata, dotata di acropoli che, in breve tempo giunse ad
espandere il suo territorio a buona parte dell’attuale Campania. Un regno
indipendente che durò poco, prima dell’invasione subita da parte dei Campani
prima, e dei Romani poi, che concessero però alla nobile città il rango di civita sine suffragio, che garantiva
cioè tutti i diritti di cittadinanza romana, con l’esclusione del voto.
I resti che si
ammirano oggi di Cuma, si riferiscono però quasi interamente all’epoca di
Augusto, durante la quale furono restaurati gli edifici più antichi. Ciò che fu
invece salvaguardato, per il rispetto che il luogo incuteva era la Grotta, che
una persistente leggenda, durata per secoli, indicava come la dimora del più
celebre oracolo del mondo, la Sibilla
Cumana, la sacerdotessa in grado di predire il futuro.
Chi era dunque
Sibilla ? E perché questo luogo continua ad esercitare lo stesso fascino
misterioso descritto da Virgilio, che della Sibilla fa un personaggio centrale,
la traghettatrice che conduce Enea nel regno dell’Oltretomba (lo stesso ruolo
che svolgerà Virgilio medesimo nella Comoedia
dantesca) ?
Virgilio,
nell’Eneide, nel sesto libro, fornisce questa immagine della Grotta della
Sibilla: profonda grotta, immane di larga
apertura/di roccia, da un nero lago difesa, e dai boschi tenebrosi.
Una Grotta, specifica ancor meglio Virgilio, abitata da vapori
sulfurei, in cui la profetessa appare
come una virgo violentemente
posseduta dal dio Apollo, che dolorosamente deve scacciare dal proprio petto,
in un passaggio simbolico che richiama tutte quelle figure di sacerdotesse
dell’antichità, il cui culto fu probabilmente importato dall’Oriente e passando
attraverso la Pizia di Delfi, finì per essere assorbito dalla cultura della
Magna Grecia prima, e romana poi.
L’habitat descritto da Virgilio,
riguardante la Sibilla, era quello che già si tramandava oralmente e radicato
dunque nella tradizione. Per intraprendere il viaggio negli inferi il
visitatore – in questo caso Enea – doveva procurarsi un ramo d’oro (secondo
diverse versioni doveva trattarsi di vischio) e condursi all’entrata del Lago
di Averno, formatosi nell’antichità nel cavo di un vulcano e ricolmo di acque
sulfuree le quali erano anche all’origine del suo nome, perché si riteneva
scacciassero gli uccelli (l’etimologia di ‘Averno’, nel senso di ‘Inferno’
sembra derivi, oltre che dal colore scurissimo delle sue acque e dalla fitta
vegetazione intorno, dal greco, Aornon,
cioè ‘senza uccelli’).
Questo luogo, dunque, il Lago di Averno, che ancora oggi è possibile
ammirare per fortuna libero dalle esalazioni che sono scomparse o attenuate,
eppure pesantemente minacciato dallo sproporzionato sviluppo edilizio della
zona, era la porta degli inferi, e la
Grotta, quell’antro dove era possibile portarsi al cospetto della Sibilla.