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31/07/20

Luoghi dell'Anima: Cabo Espichel, in Portogallo. Un posto e una storia bellissimi




        La storia della cristianità non è fatta solo di grandi templi, magnificenza, ori e porpora, ma anche – e soprattutto? – di luoghi umili, fuori dalle rotte, di pietre dimenticate, o mute, di storie minute sussurrate dal vento.
        Una di queste storie, una storia semplice, l’ho trovata molti anni fa, in Portogallo.
        Lisbona, all’epoca, era un cantiere sterminato, in vista dell’Esposizione Universale del 1998, che doveva cambiare la faccia a un paese rimasto ancorato alle struggenti malinconie della sua terra e della sua musica, anche dopo la fine della dittatura salazarista, la più lunga di tutto il Novecento in Europa.
        In quei giorni non c’era una sola parte di Lisbona immune dal frastuono delle ruspe. Una nuvola bianca di polvere, enorme, si levava al di sopra del Bairro Alto, della Baixa, dell’Alfama.
        Dalla terrazza dell’Elevador de Santa Justa, ardita costruzione del prediletto allievo di Eiffel, riuscivi a vedere i colpi inferti alla città, in ogni direzione, e il traffico impazzito, in coda sul Ponte 25 Aprile (l’unico mezzo per varcare l’estuario del Tago, prima della costruzione dell’immenso ponte Vasco de Gama, realizzato appunto per quella Esposizione Universale), sotto il sole cocente.
        Fu scelta obbligata lasciarsi alle spalle il prima possibile l’infernale caos, e fuggire verso sud, dove solerti depliants forniti dalla receptioniste dell’albergo di Lisbona, promettevano paesaggi deserti, spiagge selvagge, e invitanti degustazioni gastronomiche.
       Il Portogallo vive del suo mare.
       Nel bene o nel male, ne determina i destini. Il clima più piovoso d’Europa condiziona l’umore degli abitanti, lo spazio sconfinato che si spalanca dietro ogni curva di strada statale dirotta il pensiero su termini immateriali.
       Succede così anche quando si imbocca, in macchina, l’autostrada IP1, che arriva in poche ore fino alle coste dell’Algarve.
        Questa strada, appena oltrepassato l’enorme ponte sospeso sull’estuario del Tejo, com’è il nome del fiume in portoghese,  devìa leggermente verso destra, verso la costa atlantica, per poi dirigersi verso Setubàl.  A sud di Lisbona il litorale dapprima è sabbioso,  poi all’improvviso si ergono le rocce scoscese della Sierra de Arrabida, il promontorio che culmina nel Cabo Espichel,  secondo lembo più occidentale di tutto il continente europeo.
        Il primato in questo senso spetta infatti al Cabo da Roca (pochi chilometri a nord di Lisbona), quello che i romani chiamarono promontorium magnum,  leggendario punto di partenza   dei navigatori portoghesi, cantato da Camoes nelle Lusiadi.
            Onde a terra acaba/ e o mar comeca  Dove la terra finisce e il mare comincia.

            Ma se si immagina un Finisterre, il Cabo Espichel non ha eguali.  
            La strada si divide in due prima di Sesimbra, e punta dritto verso il margine del  promontorio.  Sembra non offrire alternative, giunti all’ennesima curva, di non poter far altro che terminare nel vuoto.
            Così è.



            La strada asfaltata si ferma qualche decina di metri prima di un antico, isolato complesso religiosa, diviene una lingua di sterrato che prosegue oltre e non si ferma fino all’ampia distesa di terra che un centimetro dopo precipita nell’oceano. Cabo Espichel è una specie di zoccolo di roccia, spianato, 180 metri a strapiombo sul mare.  Vi si arriva attratti dal magnete del grande Faro bianco, che svetta di lato, sulla scogliera. Poi, si entra, senza quasi accorgersi, in un lunghissimo recinto rettangolare. Sullo sfondo, la facciata della Chiesa di Nossa Senhora do Cabo, come viene comunemente chiamata dalla gente del posto, nonostante il nome esatto sia: Santuario de Nossa Senhora de Pedra Mua. Ai lati della Chiesa, in un perimetro perfettamente rettangolare, le due ante dell’Hospedarias, l’alloggio per i pellegrini, che cominciarono a visitare questo luogo, sempre più numerosi, a partire dal XII secolo.
            Prima di entrare in chiesa, oltrepassandola, si procede verso la scogliera, arrivando proprio sul punto più a strapiombo della costa.  I gabbiani, guinchos come li chiamano qui, disegnano rapide traiettorie nel vento forte. L’aria è tersa, l’orizzonte ampio, senza più ostacoli. Qui, come in tutto il Portogallo, è ancora viva la memoria dell'epopea del descumbrimiento, l'epoca delle navigazioni che portarono i malinconici e impavidi lusitani lungo le coste dell'Africa e nelle terre più remote del pianeta.  I vecchi della zona conoscono a memoria i racconti tramandati da intere generazioni,  di tempi dimenticati, quando i fari andavano ad olio di oliva, e qualche volta facevano cilecca: le navi nel mare, quand’era in tempesta, si illudevano, attratti come falene dalla luce di Espichel,  d’essere ormai in vista del porto di Lisbona, e finivano per schiantarsi contro la scogliera.
           Le sventure dei naviganti non finivano nemmeno con il naufragio, perché nascosti tra i rovi, sotto la pioggia, c’erano pirati ad  attendere i  superstiti, per ucciderli e saccheggiare il bottino.
            Approfittavano, gli assassini, di quegli unici sentieri che scendono ancora oggi stretti e serpeggianti sul fianco della scogliera, ma che è meglio conoscere bene prima di affrontarli, se non si vuol finire nel precipizio: dicono che questi sentieri siano stati tracciati centinaia di anni fa, dai pacifici pescatori che vivevano qui, prima ancora dei pirati,  e che benedivano ogni giorno questi fondali ricchi di pesci, soprattutto bacalao, e bodiao, e poi alghe, cucinate direttamente sul fuoco ed erano, sembra, gustosissime.
          Deve essere capitato ad uno di questi pescatori, un semplice umile pescatore tra tanti, in un mattino di luce, di scorgere all’improvviso, quella misteriosa visione, mentre risaliva dal suo scoglio. Fu un prodigio inspiegabile, la cui fama si diffuse come un lampo, in un’epoca in cui  il Portogallo era tornato ad essere cristiano. Nel 1064 Coimbra era stata riconquistata, strappata agli arabi,  dopo quasi quattro secoli. Diventava nuovamente capitale del Regno.
         Ed ecco che in questo villaggio sperduto, eremo estremo verso l’occidente, un pescatore scorge un segno:  Maria - Nossa Senhora per il popolo, per gli umili, le donne, i pescatori -  la madre di Gesù, appare a cavallo di una mula.
          Non esistono descrizioni ufficiali dell’evento: possiamo soltanto immaginarlo. Possiamo immaginare la diffidenza e lo spavento, gli sguardi sospetti, e la propagazione del racconto del pescatore. Che a quanto pare, non ebbe altri testimoni, oltre a lui. La convocazione da parte di qualche alto prelato, gli interrogatori, i tentativi di dissuasione, forse. L’ostinazione del pescatore.
          Il miracolo quotidiano del cristianesimo è anche questo:  che in un luogo così, la voce di un pescatore in un mattino assolato, diventi fede. Fede per tutti.
          Non sappiamo attraverso quali passaggi la tradizione orale si trasformò in convincimento e fede, e memoria di e per tutti.  Quel che sappiamo è che la leggenda, nel trascorrere delle generazioni, aggiungeva ogni volta nuovi particolari, come quello secondo cui la mula, la mula di Cabo Espichel, la mula di Maria, aveva lasciato perfino delle impronte, bene impresse in una pietra, sulla scogliera, pietra che naturalmente divenne oggetto di venerazione.
          E così, dopo  tre secoli, tre secoli durante i quali questa storia divenne il cemento di una intera popolazione,  nel 1410 si costruì il primo santuario, anzi più propriamente l’eremo, pensato espressamente per loro, i mareantes, la gente del mare, gli eterni protagonisti delle stagioni di Espichel. All’inizio doveva essere solo una piccola costruzione, minima come quella che adesso si ammira a circa 100 metri dalla Chiesa, e oggi è conosciuta come Ermida da Memória o anche  Capela da Memória, minuta cappella con cupola,  all’interno decorata con splendidi azulejos azzurri e bianchi. 
         E’ questo il luogo esatto in cui apparve la visione e in cui fu originariamente conservata l’immagine della Vergine, di origine misteriosa, che celebrava l’apparizione di Maria sulla Mula.
          Questa immagine era il lasciapassare per ogni impresa, per ogni avventura tra le onde, per ogni giornata di duro travaglio lontano da casa, consegnati mani e piedi al capriccio della sorte, e delle tempeste. Di tutto quel che l’uomo non può mai controllare, e lo aspetta nel buio della notte, nel vento improvviso, nella mareggiata che spezza la schiena,  e non perdona.  Dove oggi sorge la rozza croce di pietra, lì iniziava la lenta processione dei mareantes, verso l’immagine della Vergine.



I due lati porticati dell’Hospedarias , una volta occupati dagli alloggi per i pellegrini, oggi sono in abbandono, fatiscenti, chiusi.   Soltanto vicino alla Chiesa c’è una piccola bottega, che vende bevande fresche, e qualche vecchia cartolina. 
           Una vecchia contadina, che vende semplicemente le sue mercanzie dentro cassette di legno, ci guarda, spiega che ha imparato un po’ di italiano da un lontano parente, scappato al fascismo, e rimasto lì per cinque anni prima di riuscire a imbarcarsi per l’America.
           Lei si chiama Maria Dominga, ci dice, e quel nome le è stato imposto proprio in onore di Nossa Senhora. Per loro, per la gente di Espichel, Nossa Senhora è una persona, prima di tutto. Qualcuno a cui affidarsi, che capisce, che dà consigli. “Molte tragedie”, ci dice, parandosi gli occhi dal sole, con la mano rugosa dritta come un ventaglio, “sono state evitate da lei, è lei che ha detto a un uomo, prima della tempesta: non andare ! E lui non è partito. Si è salvato.”
            Davvero ?
            “Anche mio marito non è partito,” spiega seriamente con uno sguardo da bambina corrucciata in un volto di vecchia, “il giorno dopo c’era tempesta, una tempesta  grande, muito muito…. Grande   agita la mano, per far intendere che si tratta di qualcosa veramente memorabile.   “ E il mio marito fu livre de perigro , seguro.”
            E’ ancora vivo ?  No, risponde, non è più vivo, ma una malattia, sembrerebbe quasi voglia dire con quel ciondolare della testa, una giusta malattia – non l’ingiusta tempesta – lo ha portato via.
            Poi ci fa segno di seguirla. 
            Di nuovo attraversiamo il piazzale dietro la chiesa, sotto il sole.   Ci conduce, con andatura spedita, senza esitazioni, fino al punto di osservazione dove eravamo poco prima.
           Poi ci chiede di osservare una linea nella roccia della scogliera, verso sud, la dove le falesie sono altissime.   Effettivamente, guardando con attenzione, c’è una linea più scura, che attraversa diagonalmente la parete scoscesa, come la vena di una mano.
          “ La vedete ?  Quella fenda…si è formata quando…. È arrivato il grande tremor de terra ! ”
          So a cosa si riferisce, naturalmente.  So cosa intendono i portoghesi quando si parla di ‘grande tremor de terra’.   ‘Il’ terremoto,  quello vero, qui è stato uno soltanto, quello che nessuno – come idea - ha mai dimenticato, nessuno che viva qui.  Il terremoto del 1755.   Uno dei più spaventosi terremoti che abbiano mai scosso il suolo della terra, a memoria d’uomo.
          “ Quella fenda non esisteva, prima, “ disse la donna, “ a mio padre lo raccontò mio nonno, e a mio nonno, suo nonno..”
          Capimmo cosa sosteneva.  La crepa sulla scogliera, questo intendeva, si era formata quel giorno del 1755, e aveva rischiato di spaccare per sempre la montagna in due, portando in fondo all’Oceano il Cabo Espichel, con il suo santuario.  
           Oracao, pedido…”
           Erano state le preghiere, questo ci disse, a fermare la crepa nella montagna.  Il racconto dei nonni sosteneva che tutta la gente di Cabo Espichel, quando la terra aveva preso a tremare, come mai nella storia, e le onde si erano alzate fino a cento metri,  tutta la gente, si era chiusa dentro il Santuario a pregare.  E la sorte sembrava segnata, perché quella crepa sulla scogliera voleva soltanto dire che….
           Ma le preghiere a Nossa Senhora, furono ascoltate.
           Nossa Senhora non voleva questo. Voleva proteggere la gente di Cabo Espichel.
           La donna indicò ancora la riga scura sulla scogliera:
           “ Sì è fermata, da quel giorno ! Si è fermata lì. E non si è più mossa.  La fenda è ferma, da più di duecento anni ! “
         
           Quando tornammo a Lisbona, qualche giorno dopo, ripensai al grande terremoto del 1755, che in qualche modo i furori dei cantieri in corso evocavano con fumi e strepiti. La mattina del primo novembre di quell’anno, 1755, un sisma del nono grado della scala Richter rase al suolo questa città, causando quasi centomila morti.  Le scosse provocarono danni incalcolabili in tutto il Portogallo, perfino in zone lontanissime dalla  capitale, come la costa dell’Algarve, interessando 10 milioni di chilometri quadrati di territorio. Il terremoto fu avvertito in Olanda, nelle Antille, nelle Barbados, e i danni furono disastrosi perfino sulle coste del Marocco.  6 interminabili minuti di puro terrore. Il mare, a Lisbona – raccontarono i pochi superstiti – si ritirò del tutto, lasciando le barche in secca; dopo qualche minuto un’onda spaventosa si abbattè   su tutta la costa aggiungendo nuova devastazione, penetrando nell’entroterra, fino alle colline di Cintra.
           L’apocalisse, quel giorno, bussò alle porte di un paese sfortunato, lo lasciò in ginocchio, ancor più motivato nel suo ‘bisogno di sventure’.
           In tanta devastazione, Cabo Espichel, il fragile sperone di roccia, aveva resistito.  Il silenzio era salvo.  L’impronta prodigiosa della mula, era ancora al suo posto.  E la
semplice fede di  Maria Dominga si rinnovava ogni giorno nel simbolo della linea scura della fenda, che una misericordia non umana, aveva cristallizzato sul fianco della scogliera, per sempre.



Tratto da: Fabrizio Falconi, Dieci Luoghi dell'Anima, Cantagalli Editore, 2009 - Vedi il libro su Amazon clicca qui

06/09/17

Il ritorno dell'Anima.





Il ritorno dell’anima
viaggio iniziatico da Roma a Finisterre in compagnia dell’essenza.





1.

“Guidami, anima mia.”
“ Eccomi.”
“ Dunque, ci sei ?”
“ Io ci sono sempre, lo sai.  Anche quando pensi di avermi dimenticato o confinato, o peggio ancora, segregandomi, ritieni di potermi controllare. Sei sempre così ossessionato tu dal controllo. Pensi sempre che niente ti sfugga, la vita non ti ha insegnato che le cose migliori accadono quando abbandoni  la tua smania di considerare tutto, di controllare tutto ? Non ti sei accorto che è propizio lasciare andare ?”
“ Sì, lo so anima mia, ma non ci riesco.”
“ Ti aiuterò”.
“Solo con te, in effetti posso farcela. Il mondo mi appare confuso. Io stesso sono confuso. Non so più chi sono, anzi non l’ho mai saputo. Un momento mi sembra di desiderare una cosa, il momento seguente non la desidero più.  Desidero ciò che non voglio, voglio ciò che non desidero. Tutto mi appare privo di senso.”
“ Lo so. Ma vuoi lasciarti andare alla deriva come fanno tutti ? Vuoi solo lasciarti trasportare dalla corrente come un relitto ?”
“No. Non lo vorrei.  Non penso di essere venuto al mondo solo per questo.”
“Certo che no. Per questo devi sforzarti di essere, prima di tutto. Di avvicinarti al centro. Te ne sei troppo allontanato. Ti ha sovrastato il fragore inutile.  Dovresti fare silenzio.”
“Silenzio per cosa, anima mia ?”
“Il silenzio è il presupposto di ogni cosa.  In mezzo al fragore non puoi pensare di poter percepire un sussurro. Dirai che non esiste. Ma il sussurro c’è. Sei tu che non puoi ascoltarlo perché c’è troppo rumore.”
“Un sussurro ?”
“Sì. Tutte le cose nuove nascono con un sussurro.”
“Insegnami, anima mia.”
“Non ho nulla da insegnarti. Posso solo camminare insieme a te.”
“E’ quel che vorrei fare. Con te mi sento meno solo. Ho scoperto che sognare mi serve a poco.”
“Certo, se si sogna da soli. Ma noi sogneremo in due. Ed è per questo che il sogno diventerà reale.”
“Sono pronto, anima mia. Dove andremo?”
“Andremo dentro una storia di luoghi. Perciò cammineremo. E camminando, parleremo.  Sarà un bel dialogo, vedrai. Scopriremo molte cose insieme. Alcune le troveremo, altre le ri-troveremo.  E vedrai, ritrovare sarà ancora meglio che trovare.” 
“Eccomi anima mia, sono già innamorato di te.”
“Ascolta, anche l’amore nasce con un sussurro.  Non dire più niente, seguimi.”
“Da dove cominceremo ?”
“Cominceremo dalla morte.”
“La morte, anima mia ?”
“Sì.”
“Ne ho paura.”
“Ma è necessario, la morte è la fine di tutto, noi pensiamo, data la nostra mortalità. Tutto finisce. Ma la morte è inizio. E noi cominceremo dalla morte e finiremo con la morte.  Vedrai, sarà un viaggio tutt’altro che mortifero.”
“Dalla morte alla morte?”
“Sì, ma sono due tipi diversi di morte, l’inizio e la fine.  Cominceremo da Roma e finiremo il nostro viaggio in un luogo chiamato Finisterre. Saremo stanchi, la terra sarà finita, e noi potremo riposare.”
“Potremo anche amarci allora, anima mia ?”
“Lo faremo anche prima, vedrai.”
“Conducimi dunque. Perché Roma?”
“Perché da qui inizia la nostra storia. Tutti i luoghi che visiteremo sono magici.  Hanno il segno dell’umano, di chi li ha costruiti, ma rimandano continuamente a qualcosa di altro e di oltre. Per questo sono magici. Perché chi li ha costruiti e chi li ha concepiti è stato soltanto il tramite di un discorso che proveniva da molto lontano.”
“Roma è una città molto grande. Rischio di perdermi.”
“Vieni. C’è un luogo molto particolare, che in pochi conoscono.  Dobbiamo risalire indietro nel tempo, alla metà del 1600 quando c’era, in questa città, una famiglia molto importante. Venivano dalla Toscana e avevano un brutto nome addosso, il nome di un insetto molto fastidioso: il tafano. Un insetto che punge e succhia il sangue.  Forse questo era già il loro destino visto che la Storia oggi li ricorda come quelli che saccheggiarono i tesori di Roma.”
“Nefasti come Tafani ? Cosa abbiamo da imparare da loro ?”
“No, ogni cosa, lo sai non è bianca o nera. Ogni cosa contiene tutte le sfumature dei colori possibili. Ogni cuore umano dispone di tutto. I Barberini, così presero a chiamarsi per cancellare quell’onta di un cognome non proprio nobile,  cambiarono anche il loro simbolo araldico e scelsero le api.  Ce ne sono molte scolpite sui muri di Roma anche oggi, che li ricordano.”
“Sì, ma cosa hanno da insegnarci ?”
“Tutto. Le api sono insetti immensamente utili e produttivi.  Così furono anche i Barberini. Nel 1623 un’ape Barberiniana divenne anche Papa con il nome di Urbano VIII.”
“E cosa fece ?”
“Molte insigni opere, che ancora abbelliscono la città. Ma quella che interessa ora a noi qui è una piccola Chiesa che oggi si trova alla fine di Via Veneto, chiamata Santa Maria dell’Immacolata, che però viene chiamata Chiesa dei Cappuccini.”
“In onore dei Frati ? Ho sempre nutrito interesse per questi strani camminanti, anima mia.  So che hanno cercato il bene e spesso l’hanno sparso per il mondo, partendo dall’umile, dal basso, dal più piccolo.”
“Sì. Seguivano le orme di uno dei più grandi illuminati, San Francesco d’Assisi, che lo ricorderai bene, era anche lui bianco e nero, visto che spese parte della sua vita tra i piaceri mondani, le feste, la fatuità, prima di accorgersi quanto tutto questo non gli bastasse.”
“E perché questa Chiesa, dunque?”
“Ti ho detto che mi interessava la morte. Questo edificio, voluto dai  Barberini per proteggere e dare una casa ai Cappuccini, qualche decennio dopo la sua costruzione divenne una specie di grandioso e spaventoso monumento alla morte. Vi sono contenute le ossa di più di quattromila frati – di uomini che vissero su questa terra – accumulate nei secoli, provenienti da altri conventi e qualcuno, non sappiamo bene chi, si divertì (non credo sia il termine giusto, ma forse sì…) ad allestire cinque cappelle, nella cripta della Chiesa, utilizzando i più disparati frammenti degli scheletri di quegli uomini (ossa del bacino, vertebre, scapole, clavicole, costole, omeri, femori) per realizzare composizioni di tutti i tipi: fiori, rosoni, bilance, clessidre, simboli legati al tempo, figure geometriche, perfino.. lampadari.”
“Qualcosa di macabro.”
“Sì, c’è chi ha visto solo il macabro di questo luogo. Visitatori illustri come il Marchese De Sade o Nathaniel Hawthorne (che vi ambientò il suo romanzo più gotico, Il Fauno di Marmo), rimasero soggiogati dall’elemento sulfureo. Ma se cammini al mio fianco e vedi questa nuda terra che fa da pavimento alle cripte (i francescani la portarono direttamente dalla Terra Santa, di cui erano e sono custodi), potrai ascoltare le voci. Senti niente ? Lo senti ? Come una specie di richiamo.”
“Aspetta… sì.. mi sembra di sentire un sottofondo lontano, come un coro..”
“Sì.”
“Chi sono?”
“Parlano ciascuno con la propria voce, ma insieme compongono una armonia quasi impercettibile. Sono i morti.”
“Cosa dicono?”
“Sono tristi per aver dovuto interrompere il cammino, ma se ascolti bene il loro canto, sono anche molto felici perché vivono ora in una nuova sostanza.”
“E’ il vecchio sogno di noi umani.  Che esista una dimensione dopo la morte. Dunque è così ?”
“Silenzio… non correre. Non è il tempo delle risposte. E’ soltanto il tempo delle domande.  Ed è così importante che le nostre domande siano quelle giuste. E’ così difficile comprenderlo. Dipende soltanto da quello.  Quante domande sbagliate, insulse, inutili ci ripetiamo oggi…”
“E qual è la domanda giusta?”
“La domanda giusta è quella che ci suggeriscono loro. Prova ad ascoltare…”
“…Ascolto… E’ come se indicassero qualcosa… Non capisco bene.. Dicono di cercare, di camminare.”
“ E’ la stessa cosa, camminare e cercare sono la stessa cosa.”
“E’ vero, anima mia, ora che ci penso.”
“Chi non cerca, è fermo. Non ha bisogno di andare da nessuna parte.”
“Dunque, dobbiamo metterci in cammino ?”
“Sì, è necessario.  E guarda, c’è anche qualcuno che ci indica la direzione..”
“Intendi quello scheletro ?”
“Sì… Vedi, sono due piccoli scheletri. Probabilmente di bambini. Quello di sinistra mostra con la destra, chiaramente, un’asta o una freccia che indica una direzione e da quello strumento pende una lamina dove è scritto:                        LEGI
                                  TIME
                                  DENO
                                  TAT.”
“Si.. vedo. Cosa significa ?”
“E’ abbastanza misterioso.  Legitime denotat.  Significa qualcosa come: Distingue ciò che è legittimo,  oppure Indica a dovere. Ma non sappiamo a chi o a cosa si riferisca. E’ l’enigma che ci accompagnerà nel nostro cammino. Forse il suo contenuto sarà più chiaro, alla fine del viaggio. Ma deve essere legato alla direzione. E la direzione è chiara, come vedi: indica l’Occidente.”
“E’ lì che dovremo andare anima mia ?”
“Sì, è la direzione giusta: è dove il sole va a morire.  E forse noi dovremo scoprire cosa c’è in quella terra dove anche il sole va a morire. Vuoi andare ?”
“Non temo nulla, se tu sei con me.”
“Andiamo allora.”



Fabrizio Falconi  ©