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12/12/24

1846: Il primo volo in Mongolfiera a Roma ! - Un estratto da "Storie incredibili su Roma che non vi hanno mai raccontato" di Fabrizio Falconi, in tutte le librerie


Nel 1846, Villa Borghese era ancora tutta di proprietà della nobile famiglia – di origini toscane – che a essa aveva dato il nome, dai primi dei Seicento. 

Con il tempo, però, e soprattutto negli ultimi decenni, la villa aveva subito notevoli trasformazioni, a opera soprattutto del principe Marcantonio IV Borghese (1730-1809) che, tra le altre cose, aveva ordinato ai suoi architetti la costruzione di un anfiteatro destinato a ospitare corse di cavalli, esibizioni e feste, e ispirato alla piazza del Campo di Siena, città da cui la famiglia Borghese, originariamente, proveniva. 

Nacque così piazza di Siena, subito divenuta il fulcro della villa, che nel frattempo i Borghese avevano deciso di aprire al pubblico, cioè al popolo di Roma, per il passeggio durante i giorni festivi e dove, in quelle occasioni, erano ospitati eventi e balli. Uno dei fatti memorabili che ebbero luogo a Roma, nell’Ottocento, fu il primo volo in mongolfiera, che si levò proprio da piazza di Siena. 

Il protagonista fu il francese François (o Francisque) Arban, nato a Lione nel 1815, pio niere dell’aviazione che aveva iniziato a dedicarsi alla mon golfiera nel 1832. Qualche anno più tardi, Arban venne a Roma, invitato dai Borghese. Ospite della villa, annunciò che avrebbe ten tato un’esibizione sui cieli della capitale. Dopo due mesi di permanenza romana e di preparazione, finalmente, alle tre e mezzo del pomeriggio del 14 aprile del 1846 Arban salì a bordo del suo pallone, davanti a una folla straboccante assiepata sulle tribune di piazza di Siena, che cominciò ad applaudirlo mentre compiva un primo giro a pochi metri d’altezza, ancora trattenuto da una corda di ancoraggio. 

Qualche minuto dopo, sciolto l’ormeggio, al suono della banda militare e spinto dal vento di sud-est, Arban prese quota con l’aerostato sorvolando l’intera Villa Borghese. Seguendo la direzione del vento, come raccontano i cro nachisti dell’epoca, l’aviatore «sorpassò più volte i giri del Tevere, dirigendosi rapidamente verso i monti Sabini, po tendo però sempre scorgere da quel punto, la Villa [Borghese], le fabbriche e la maestosa cupola della città da cui pochi minuti prima si dipartiva». 

Continuando l’avventura, Arban si trovò ben presto a quote altissime, al punto tale che cominciò ad avere problemi di respirazione, con il termometro che segnava un grado sopra lo zero. Rifocillatosi col vino che aveva a bordo e col cibo «di cui si era ugualmente munito», e verificata l’altezza ormai troppo elevata, aprì la valvola abbassando la mongolfiera di diverse centinaia di metri quando, dopo un’ora di viaggio, gli si aprì sotto gli occhi lo scenario del fiume Velino e poi della valle reatina, accorgendosi subito delle moltitudini di persone che lo indicavano e gli face vano cenno di avvicinarsi, abbassandosi ancora. 

La popolazione reatina era entusiasta, seguiva il percorso a piedi, a cavallo o con vetture, e finalmente, nei pressi del lago di Piediluco, convinse Arban ad atterrare, visto anche che si profilavano, minacciose, le montagne degli Appennini. 

Aveva viaggiato per cinquanta miglia (ottanta chilometri) quando gettò via gli ultimi sacchi di zavorra, lanciando a una trentina di persone che lo aspettavano le corde per l’ancoraggio. Particolare curioso, tra i primi che vennero ad aiutare Arban a scendere dall’aerostato ci fu un tipo che, dopo averlo abbracciato e baciato, chiese a bruciapelo al volatore, in italiano: «Mi dai tre numeri?». Ancora provato dall’impresa e ostacolato dal non sapere la lingua, Arban capì soltanto in un secondo momento che quello gli chiedeva con insistenza tre numeri per giocare al Lotto. 

Arban, insomma, era visto come una specie di mago, al quale non dovevano mancare nemmeno capacità divinatorie e – immaginiamo più che altro per togliersi il fastidio di torno – con il lapis scrisse alcuni numeri a casaccio che furono ricevuti dal “villico reatino” come un prezioso tesoro. Invitato a riposarsi dopo l’impresa nella casa di un notabile del luogo, alle tre del mattino seguente Arban prese la diligenza che doveva riportarlo a Roma, dove giunse alle tre del pomeriggio, subito accolto dal principe Borghese, grato per l’impresa che aveva appena compiuto. 

La popolarità di Arban dopo quel primo viaggio aumentò a dismisura, al punto che in diverse altre città italiane furono organizzate sue esibizioni a bordo della mongolfiera. La sua carriera di aviatore però si infranse presto in circostanze tragiche: tre anni dopo, preso il volo da Barcellona per un’esibizione, con l’intenzione di superare i Pirenei e arrivare fino a Lione, Arban non riuscì a portare a compimento l’impresa. La forza dei venti sospinse infatti l’aero stato verso il largo del mar Mediterraneo, dove scomparve nel nulla. I suoi resti e quelli del velivolo non furono mai più ritrovati, dando adito alle più diverse leggende, tra cui quella secondo cui la sua mongolfiera, arrivata addirittura fino in Africa, aveva consegnato l’aviatore agli indigeni che lo avevano fatto prigioniero e ucciso.

Estratto da: Fabrizio Falconi, Storie incredibili di Roma che non ti hanno mai raccontato, Newton Compton Editore, 2024