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26/10/23

"Killers of the Flower Moon" di Martin Scorsese, un film che mostra da dove nasce il male

 


Mi ha fatto piacere vedere Scorsese allontanarsi - momentaneamente? - dall'epica della violenza mostrata e pura, che è marchio distintivo del suo cinema, ma prima ancora della sua vita (la biografia lo ha segnato, come ha raccontato più volte, crescendo da bambino in mezzo alla violenza, alla minaccia, alla sopraffazione, ai ricatti piccoli e grandi della mafia).
Stavolta, Scorsese la mette da parte: c'è, ma non indugia a mostrarla. Il film si concentra invece, sulle origini di questa violenza. La ferocia, sembra dirci Scorsese, può nascere e nasce dalle parole, che possono avere una forza dirompente. Killers of the Flower Moon è infatti un film di parole: i dialoghi, a volte estenuanti, occupano il 75% del film, ma non è un gioco solipsistico come avviene a volte nella fiction contemporanea americana.
Le parole, in Killers, sono la ragnatela su cui si costruiscono i rapporti, le relazioni, e che danno vita ai fatti. E siccome le parole sono malate, anche le relazioni, anche i rapporti e anche i fatti sono malati.
La parola che redime non c'è. C'è solo il silenzio della donna indiana (Mollie - Lily Gladstone). Che sembra assistere del tutto impotente al manifestarsi del male, accettando ciò che le è stato riservato dagli uomini, senza voler aprire gli occhi fino alla fine. La vittima di un sacrificio che non ha deciso Dio, né il Dio dei bianchi (Cristo) né tantomeno il Dio dei nativi. Ma che hanno deciso gli uomini, che grondano di parole false, malate, come "famiglia" e "soldi", i due passe-partout che giustificano ogni abominio.

Il giovane Ernest Buckhart (Di Caprio) tornato scosso dalla guerra, fondamentalmente non sa nulla di sé: è tabula rasa. Non sa nulla non solo di ciò che vuole dalla vita, ma anche dei suoi sentimenti, delle sue emozioni. Crede di innamorarsi, o si innamora veramente, poco importa. Quel che conta è che il suo essere tabula rasa, lo porta ad essere perfetto strumento nelle mani del mostruoso zio William Hale (De Niro), che lo manipola a suo piacimento, instillandogli in lui ogni sorta di nefandezza, che finirà puntualmente per compiere, obbedendo fino alla fine. William Hale è il prototipo di ogni populista e perciò straordinariamente attuale: nasconde sotto una rassicurante bonomia ogni malvagità: si finge ed è - oggettivamente - "amico di tutti", in primis degli indiani, di cui si proclama garante, gode di rispettabilità, tutti lo ascoltano (anche se qualcuno diffida), tutti credono alle sue spregiudicate bugie con le quali rovescia continuamente il male con l'apparente bene, con l'utilità, il senso pratico, la giustizia.

Scorsese a 80 anni è insomma sempre più lucido, ma il suo spirito si ammorbidisce, i suoi occhi si inumidiscono sul nome della donna indiana, di Mollie, sulla sorte ben triste che le è toccata insieme al suo popolo: di essere depredata di tutto, della terra, degli avi, degli dei, della vita.
Si ammorbidisce ma non fa sconti e il suo cinema è puro piacere dell'intelligenza e degli occhi. E' Coppola che dice: "Scorsese è il più grande regista vivente." Ha ragione (anche se Coppola stesso lo segue dappresso). Non gli riesce di sbagliare un film, nemmeno se ci prova. Qualcuno dirà che va sul sicuro: ma lui dai De Niro e dai Di Caprio tira fuori ogni volta qualcosa di SUO.
Lily Gladstone vincerà l'Oscar come migliore attrice protagonista, anche se la miglior prova tra i tre, non è la sua. E' Di Caprio, sostanzialmente, a portare sulle sue spalle quasi tutto il peso del film, in un'altra prova monumentale.
E' una sorta di miracolo, questo ragazzetto che sembrava uno dei tanti, belloccio e imberbe, e che film dopo film, rivela capacità espressive veramente mostruose.
Si merita ogni complimento.

Fabrizio Falconi - 2023


02/01/22

Intervista al regista del momento, Adam Mc Kay: "Perché ho voluto fare "Don't Look Up!"

 



Don't Look Up  è sicuramente uno dei film dell'anno (scorso, ma anche il presente), visto l'enorme successo che ha riscosso al cinema (nei paesi dove è stato proiettato in sala) e sullo streaming globale di Netflix, merito anche di un cast veramente stellare.

Un film che ha diviso il pubblico tra commenti molto estremizzati - tanti lo hanno adorato e trovato bello e importante, quanto altri l'hanno stroncato nelle loro bacheche socials. 

Anche la critica "ufficiale" ha fornito recensioni di toni molto diverse.

In molti si sono chiesti quale sia, in fondo, il vero obiettivo del film e quali le intenzioni del regista e autore, Adam Mc Kay (premio Oscar per La grande scommessa, nel 2015).

E' particolarmente interessante perciò quel che Mc Kay spiega in una recente intervista: 

“Sapevo di voler fare qualcosa per la crisi climatica e stavo cercando di trovare un modo per affrontarla”, parte di ciò che fai quando fai film è provare a fare film che ti piacerebbe vedere personalmente, quindi mi sono semplicemente chiesto: ‘Puoi fare qualcosa per la crisi climatica e ridere ancora un poco?’ Fortunatamente, mi è venuta questa idea che sembrava la perfetta miscela delle due. Non c’è dubbio, dopo Vice, avevo voglia di ridere”.

Ma Don’t Look Up appare molto lontano dallo stereotipo del film comico e sembra invece piuttosto una pellicola che ha a cuore una forte denuncia sociale: la descrizione di una società regredita a meccanismi adolescenziali o infantili, che rinnega la realtà, o meglio, è del tutto incapace di interpretarla e perfino di vederla. 

Adam McKay spiega come il copione si sia evoluto durante la lavorazione: “Nel bel mezzo della realizzazione di questo film, abbiamo dovuto chiudere causa COVID, e non ho preso in mano la sceneggiatura per tipo quattro o cinque mesi, e quando l’ho finalmente presa in mano e l’ho letta, mi sembrava quasi un copione diverso. Riguardava interamente il modo in cui le nostre linee di comunicazione sono state sfruttate, rotte, distorte e manipolate. Mi ha entusiasmato in un modo che non mi aspettavo, che non si trattasse solo del clima, non solo del COVID, non solo dell’inquinamento, della disparità di reddito, della violenza, qualunque cosa tu voglia pensare – riguarda il fatto che noi non siamo più davvero in grado di parlarci in modo pulito e chiaro”.

Il regista spiega anche che il punto di vista è americano, nasce cioè dell'osservazione di quello che è successo negli Stati Uniti negli ultimi anni, ma può benissimo essere allargato alla realtà del mondo occidentale: “Lo vediamo da un po’ di tempo qui negli Stati Uniti e anche in una certa misura in tutto il mondo, che c’è questa sensazione di persone che non vogliono sentire cattive notizie”, continua il regista. “Le notizie devono essere piacevoli o stimolanti. Gran parte della nostra cultura è diventata un argomento di vendita, quindi l’idea, “Non guardare in alto, evita la verità che sta arrivando”, ho pensato che fosse in qualche modo appropriata. E allude alle comete, e mi è piaciuto che appaia nel film verso la fine”.