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17/10/22

Putin, Trump e tutti i megalomani potenti di oggi: La "Sindrome di Napoleone" spiegata da Tolstoj in "Guerra e Pace"


Pensando ai vari Putin, Trump, Lukashenko, Bolsonaro, ai tanti megalomani malati al potere oggi in diverse parti del mondo, ricorrono le parole che Lev Tolstoj usò per descrivere il tiranno di allora, Napoleone, definendo per primo, con parole profetiche, quella Sindrome (
la Sindrome di Napoleone), che catturò lui e dopo di lui, molti altri tiranni assoluti alla velleitaria conquista del mondo. 


Un uomo senza principi, senza abitudini, senza tradizioni, senza nome, che non è neppure un francese, per i più strani casi si fa avanti tra tutti i partiti che agitano la Francia, e senza aderire a nessuno di essi, è portato a un posto eminente

L’ignoranza dei colleghi, la debolezza e la nullità degli avversari, la sincerità nel mentire, la mediocrità brillante e sicura di sé di quest’uomo lo portano alla testa di un’armata

Una innumerevole quantità di cosiddetti casi lo accompagna dovunque. 

Al suo ritorno dall’Italia egli trova il governo in tale stato di disfacimento che gli uomini che vengono a far parte di questo governo vengono inevitabilmente stritolati o distrutti. 

Quell’ideale di gloria e grandezza che consiste non solo nel credere che nulla sia male per la propria persona, ma anche nell’inorgoglirsi di qualsiasi misfatto, attribuendogli un incomprensibile significato sovrannaturale si foggia liberamente in lui

Egli non ha nessun progetto: ha paura di tutto; ma i partiti si aggrappano a lui ed esigono la sua collaborazione. 

Lui solo, col suo ideale di grandezza e di gloria, con la sua folle adorazione di se stesso, con la sua audacia nel misfatto, con la sua sincerità nel mentire, lui solo può adempiere a ciò che si deve compiere.

E’ necessario per il posto che lo aspetta, e perciò quasi indipendentemente dalla sua volontà e malgrado la sua indecisione, la mancanza di un piano e tutti gli errori che commette, è trascinato nella congiura che ha per fine la conquista del potere, e la congiura è coronata da successo

Il caso, milioni di casi gli danno il potere e tutti gli uomini, come fossero d’intesa, cooperano al consolidamento di questo potere. 

Non c’è un’azione, non un misfatto, non il minimo inganno che egli commetta, che subito non si trasformi sulle bocche di coloro che lo circondano in una grande gesta. E non soltanto lui è grande, ma sono grandi i suoi avi, i suoi fratelli, i suoi figliastri, i suoi cognati. Tutto concorre a privarlo delle ultime forze della ragione e a preparare per lui una tremenda parte da rappresentare. E quando egli è pronto, sono pronte anche le forze. 

Lev Tolstoj – “Guerra e Pace”, da pag. 1326 (edizione italiana) in poi

10/10/22

Carrère: "Limonov sarebbe potuto diventare anche lui come Putin"

 

Eduard Limonov a Parigi nel 1987


Credo che in ore come queste, in cui sempre di più ci si interroga sullo spirito dell'anima russa, sulle contraddizioni e lacerazioni di quel popolo, sulla sua storia monumentale e incomprensibile, sulle ragioni del suo popolo, sui regimi che negli ultimi secoli si sono alternati al potere assoluto di quella sterminata nazione, dagli Zar a Putin, sia quanto mai utile ritornare al grande libro di Emmanuel Carrère, che sotto le sembianze della biografia di un personaggio perennemente sopra le righe come Eduard Limonov, costruisce un saggio aggiornato, significativo, penetrante, sullo spirito russo, arrivando - nella narrazione, fino al 2010, ad "era Putin" inoltrata. 

Ed è forse particolarmente utile rileggere una delle ultimissime pagine, nelle quali Carrère traccia un bilancio della vita di questo uomo senza pace, poeta, dissidente, politico, soldato, intellettuale, bohèmien, donnaiolo, dissoluto, continuamente mosso da un bisogno di notorietà, da un bisogno di differenziarsi dalla massa dei "normali", invidioso dei potenti e dei famosi, solidale con i reietti e i perdenti, del tutto incoerente nella sua estrema coerenza. 

Carrère disegna in questa pagina una bruciante somiglianza tra il suo eroe, "perdente" sempre e Vladimir Putin, mettendo in luce ciò che li accomuna. Rileggiamo:

A Putin penso parecchio, mentre si avvicina la fine di questo libro. E più ci penso, più ritengo che il dramma di Eduard (Limonov ndr),sia stato credere di essersi sbarazzato dei vari capitani Levitin che gli avevano avvelenato la giovinezza e vedersi invece parare davanti, tanti anni dopo e quando credeva di avere ormai la strana spianata, un super capitano Levitin: il tenente colonnello Vladimir Vladimirovic (Putin ndr.)

In occasione della campagna presidenziale del 2000 è stato pubblicato un libro di colloqui con Putin il cui titolo, in originale, è "In prima persona".  (...)

Dicono che Putin parli in politichese: non è vero. Putin fa quello che dice, dice quello che fa, e quando mente è così spudorato che non ci casca nessuno.  Se si esamina la sua vita, si ha l'inquietante sensazione di trovarsi di fronte a un doppio di Eduard.

Putin è nato in una famiglia dello stesso tipo di quella di Eduard, soltanto dieci anni dopo: padre sottoufficiale, madre donna delle pulizie, tutti accalcati dentro la stanza di una kommunalka. Ragazzino gracile e introverso, è cresciuto nel culto della patria, della grande guerra patriottica, del KGB, della fifa che esso incuteva a tutti quei senza palle di occidentali. 

Da adolescente è stato, per usare le sue stesse parole, un teppistello, e se non è diventato un delinquente, lo deve soltanto al judo, a cui si è dedicato con tanta intensità che i suoi compagni ricordano ancora le terribili urla provenienti dalla palestra dove si allenava, da solo, la domenica. 

E' entrato negli organi per romanticismo, perché essi annoveravano uomini eccezionali che difendevano la patria, e lui era orgoglioso di diventare uno di loro. 

Ha diffidato della perestrojka, non ha mai sopportato che masochisti o agenti della CIA facessero tante storie per i gulag e i crimini di Stalin, la fine dell'impero è stata per lui la più grande catastrofe del ventesimo secolo, e ancora adesso la pensa così. 

Nel caos dei primi anni '90 si è ritrovato dalla parte dei perdenti, dei beffati, ridotto a fare il tassista. Adesso che è al potere adora, come Eduard, farsi fotografare a petto nudo, i muscoli in evidenza, con addosso i pantaloni della tuta mimetica e un coltello da commando alla cintura.

Come Eduard è freddo e astuto, sa che l'uomo è un lupo per gli altri uomini, crede solo nel diritto del più forte, nell'assoluto relativismo dei valori e preferisce fare paura piuttosto che averla. 

Come Eduard disprezza i frignoni che considerano sacra la vita umana. L'equipaggio del Kursk può impiegare otto giorni a morire asfissiato sul fondo del mare di Barents, le forze speciali possono gasare centocinquanta ostaggi nel teatro della Dubrovka e trecentocinquanta bambini nella scuola di Beslan, ma Vladimir Vladimirovic dà al popolo notizie della sua cagnolina che ha partorito. La cucciolata sta bene: pappa di gusto, bisogna vedere le cose in maniera positiva. 

La differenza tra Putin e Eduard è che Putin ce l'ha fatta. Putin è il capo. 

(...)

Limonov, se si trovasse al posto di Putin, certamente direbbe e farebbe tutto quello che Putin dice e fa. Ma Limonov non è al posto di Putin, e non gli resta che occupare quello, così incongruo per lui, di oppositore virtuoso, difensore di valori in cui non crede (democrazia, diritti umani e stronzate del genere) al fianco di persone oneste che incarnano tutto quello che lui ha sempre disprezzato.  Non esattamente uno scacco matto, ma certo, in queste condizioni, non è semplice saper stare al proprio posto.


10 e lode. 



13/06/22

VLADIMIR SOROKIN: "Perché la Russia è così violenta? Perché qui il Cristianesimo non ha messo radici."*

 

Vladimir Sorokin

Vladimir Georgievič Sorokin è uno dei più importanti scrittori (ma anche drammaturgo, pittore e sceneggiatore) russi, tradotto in molti paesi del mondo. Autoesiliatosi da due mesi, dall'inizio della guerra in Ucraina, a Berlino, ecco come spiega, nel passaggio di una intervista rilasciata a Sette-Il Corriere della Sera, la Russia contemporanea e il perché di questa ondata di violento nazionalismo.
"Sono sempre stato assillato da una domanda:
Perché in Russia c'è così tanta violenza? Sono cresciuto nella Russia sovietica dove tutto, asilo, famiglia, strada, esercito, istituzioni, ne erano sature.
Ma anche la Russia zarista faceva affidamento sulla violenza: le punizioni corporali erano all'ordine del giorno nelle scuole e nelle famiglie, la censura era crudele, i dissidenti erano perseguitati, e così via.
Dai tempi del Terribile, nel XVI secolo, il potere è una piramide oscura, opaca, imprevedibile, una sorta di spietato invasore del proprio paese.
In cima alla piramide c'è il sovrano con un potere assoluto e l'oprichnina, che serve l'autorità, è viva ancora oggi.
Mi sembra che molti dei problemi della Russia odierna siano dovuti al fatto che il cristianesimo da noi non ha messo radici.
L'URSS anticristiana è crollata 30 anni fa ma anche se oggi ci sono molte chiese c'è poca fede.
Di fatto siamo rimasti dei pagani che partecipano con più devozione alla festa di Capodanno, come in epoca sovietica, piuttosto che ai riti di Pasqua e Natale.
A ciò si aggiunga che la Chiesa negli ultimi 20 anni si è completamente screditata sostenendo il Cremlino in tutto.
Il patriarca e i gerarchi non hanno mai contraddetto le autorità e ora sostengono pure questa guerra insensata e brutale contro l'Ucraina."

10/05/22

Che dolore (e delusione) le frasi di Nikita Mikhalkov su Putin


Il grande regista russo Nikita Mikhalkov in una vecchia foto

Fa male al cuore leggere le dichiarazioni recenti di Nikita Sergeevič Michalkov, uno dei più grandi registi del novecento, a proposito del presidente/dittatore Vladimir Putin. 

Viene da chiedersi come possa l'autore di film come "Schiava d'amore"(1975), "Oblomov"(1980) o "Il sole ingannatore" (1994), la stessa persona che si spende in un incondizionato peana per Putin, all'indomani della sanguinosa e terribile invasione dell'Ucraina.

Mikhalkov, che oggi ha 77 anni proviene da una famiglia di inconfondibili tradizioni artistiche: suo padre Sergej Vladimirovič Michalkov è uno scrittore e poeta, celebre in Russia per aver scritto il testo dell'inno nazionale del suo Paese in due diverse occasioni, mentre la madre, la poetessa Natal'ja Petrovna Končalovskaja, era la figlia del pittore Pëtr Petrovič Končalovskij e la nipote del pittore Vasilij Ivanovič Surikov; suo fratello maggiore è invece il regista Andrej Končalovskij, il quale in passato ha operato scelte molto diverse dal fratello, ai tempi dell'Unione Sovietica, andando a vivere e lavorare negli Stati Uniti. 

Del resto l'amicizia tra Mikhalkov e Putin non è nuova. Si ricorda l'aneddoto della presentazione di un libro firmato dal presidente. Al momento di regalare una copia al regista, Putin, sotto una foto che lo ritraeva nell’atto di saldare un conto al ristorante scrisse questa dedica: «Bisogna pagare per tutto nella vita, Nikita». 

Come hanno riportato le agenzie Keystone-SDA, Nikita Mikhalkov è stato intervistato recentemente e richiesto di un parere sulla guerra in Ucraina. Mikhalkov ha spiazzato un po' tutti, schierandosi completamente con il presidente russo Putin e  accusando l'Occidente di essersi coalizzato per distruggere la civiltà russa e i suoi valori. 

Citato dalla Tanjug, Mikhalkov ha attaccato - anche qui sposando completamente i toni e la propaganda russa - il presidente ucraino Volodymyr Zelensky da lui accusato di esprimersi alla stregua dei nazisti. "Accusano la Russia di mettere in pericolo la sicurezza, mentre è la Nato ad avvicinarsi ai confini russi", ha detto il noto regista russo. "Personalmente sono convinto che questa non sia una guerra fra Russia e Ucraina, ma una guerra di Russia, Europa e America. Non è una guerra per la democrazia nella quale i nostri partner vogliono convincerci di qualcosa. Questo è il tentativo globale e forse l'ultimo della civiltà occidentale di attaccare il mondo russo, l'etica ortodossa, i valori tradizionali", ha affermato Mikhalkov. 

A suo avviso, a partire dall'indipendenza dell'Ucraina nel 1991, a generazioni di ragazzi è stato inculcato "l'odio per la Russia", e il mondo ha chiuso gli occhi sul neofascismo in Europa. 

Insomma, gli stessi identici argomenti (piuttosto paranoici) che si sentono tutti i giorni amplificati dalla propaganda della televisione, della stampa russa, e dagli interventi dell'uomo forte del Cremlino.

Davvero, dal grande regista russo era lecito aspettarsi altro. 

09/05/22

Krishnamurti e la Guerra. Che fare?



In questi tempi così complessi, è utile rileggere le parole di Krishnamurti (1895-1986) sulla guerra, le cause e ciò che l'uomo, ogni singolo uomo può fare. In particolare, queste furono pronunciate a Ojai, California, il 27 maggio 1945, nella imminenza della fine della Seconda Guerra Mondiale. 

Domanda: Sicuramente la maggior parte di noi ha visto al cinema o sui giornali le immagini degli orrori e delle barbarie dei campi di concentramento. Che cosa bisognerebbe fare, secondo lei, a coloro che hanno perpetrato tali mostruose atrocità? Non dovrebbero venire puniti? 

Krishnamurti: Chi li punirà? Il giudice non è spesso colpevole come l’accusato? Ciascuno di noi ha creato questa civiltà, ha contribuito alla sua infelicità, è responsabile delle sue azioni. Noi siamo il risultato delle azioni e reazioni reciproche, questa civiltà è un prodotto collettivo. Nessun paese e nessun popolo è separato da un altro, siamo tutti interrelati, siamo tutti uno. 

Che lo riconosciamo o no, partecipiamo alla sfortuna di un popolo come partecipiamo alla sua fortuna. Non potete prendere le distanze per condannare o elogiare. 

Il potere che opprime è male, e qualunque gruppo abbastanza grande e organizzato diventa una fonte potenziale del male. Strillando sulle crudeltà di un altro paese, pensate di poter trascurare quelle del vostro. Non solo la nazione vinta, ma tutte le nazioni sono responsabili degli orrori della guerra. 

La guerra è una delle massime catastrofi; il male più grande è uccidere un’altra persona. Se lasciate entrare questo male nel vostro cuore, spianerete la strada a un numero infinito di atrocità più piccole. Non condannerete la guerra in se stessa, ma colui che in guerra commette atrocità. 

Voi siete i responsabili della guerra, voi l’avete provocata con le vostre azioni quotidiane segnate dall’avidità, dalla cattiveria, dalla passione. 

Ognuno di noi ha costruito questa civiltà spietata e competitiva in cui l’uomo è contro l’uomo. Volete sradicare le cause della guerra e della barbarie negli altri, mentre dentro di voi continuate ad alimentarle. Ciò conduce all’ipocrisia e ad altre guerre. 

Dovete sradicare le cause della guerra, della violenza, dentro di voi, il che richiede pazienza e gentilezza, non questa maledetta condanna degli altri. L’umanità non ha bisogno di altra sofferenza per poter capire, ma ciò che occorre è che voi siate consapevoli delle vostre azioni, che vi risvegliate alla vostra ignoranza e al vostro dolore, per far nascere in voi stessi la compassione e la tolleranza. Non dovete preoccuparvi di punizioni e ricompense, ma di sradicare in voi stessi quelle cause che si manifestano nella violenza e nell’odio, nella rivalità e nell’ostilità. Uccidendo l’uccisore diventate come lui, diventate voi i criminali. Ciò che è sbagliato non viene raddrizzato con mezzi sbagliati, solo con giusti mezzi si può raggiungere un giusto fine. 

Se volete la pace, dovete usare mezzi pacifici; mentre lo sterminio di massa e la guerra conducono solo a ulteriore sterminio, ulteriore sofferenza. Non si raggiunge l’amore con lo spargimento di sangue, un esercito non è uno strumento di pace. Solo la benevolenza e la compassione possono portare pace nel mondo, non la forza, l’inganno, e neppure le leggi. Voi siete i responsabili per l’infelicità e i disastri, voi che nella vostra vita quotidiana siete crudeli, avidi, ambiziosi, oppressori. La sofferenza continuerà finché non avrete sradicato dentro di voi le cause che generano la passione, l’avidità, la crudeltà. Abbia pace e compassione nel cuore, e troverà la giusta risposta alla sua domanda.

Ojai, 27 maggio 1945

A qualcuno o a tanti, potrà sembrare del tutto utopistico. Ma, a ben guardare è così: ogni possibile cambiamento dell'umanità dipende solo ed esclusivamente dal cambiamento dei singoli. 

21/04/22

"L'uomo è un distruttore": La profezia della "Terra Desolata" di Eliot


 

Aprile è il più crudele dei mesi: uno dei più celebri incipit della poesia mondiale è anche - non del tutto stranamente, viste le capacità profetiche di T. S. Eliot - incredibilmente attuale. 

Lo sono i versi che introducono La Terra Desolata (The Waste Land) e tutto il poemetto pubblicato nel 1922, una delle pietre miliari della poesia del Novecento. 

Eliot compose il poemetto tra il dicembre del 1921 ed il gennaio del 1922 mentre era con la moglie in Svizzera, a Losanna, dove fu ricoverato per problemi di instabilità psichica, in seguito ad un forte esaurimento nervoso

Il poeta veniva da un periodo durissimo: alla crisi personale - e relazionale con la moglie - si legava la sofferenza psichica conseguente agli eventi catastrofici del primo conflitto mondiale. 

La "terra desolata" è contemporaneamente la terre gaste (terra guasta) dei poemi epici medievali, cioè un territorio privo di vita, sterile e mortale che devono attraversare i cavalieri per arrivare al Graal (uno dei simboli centrali del poemetto), e il mondo moderno, contrassegnato dalla crisi e dalla sterilità della civiltà occidentale, giunta forse al termine del suo percorso: la prima guerra mondiale, terminata neanche quattro anni prima della pubblicazione del poemetto, era stata vissuta da Eliot come un'inutile e folle strage che aveva dilapidato milioni di vite e portato quasi alla bancarotta le grandi nazioni europee. 

La "terra desolata" è infine anche Londra, città dove Eliot risiedeva, e nella quale ha ambientato alcune scene del poemetto 

Tra le molte voci narranti che intervengono nel poeta, quella di Tiresia, che funge da alter ego del poeta, ma è al tempo stesso il personaggio ripreso dall'Odissea di Omero: Tiresia, che tutto ha visto e tutto sa, funge in più punti da disincarnato e distaccato narratore. 

L'epigrafe in apertura del poema doveva essere “The horror! The horror!” ("L'orrore, l'orrore!"), da Cuore di tenebra di Joseph Conrad, ma Ezra Pound, che non stimava affatto Conrad e che intervenne drasticamente a "tagliare" The Waste Land su richiesta dell'amico, dissuase il poeta: fu così che il poemetto si aprì con un frammento dal Satyricon, in ogni caso assai adatto.

La Sibilla di cui parla la citazione è naturalmente la profetessa greca che risiedeva a Cuma, celebre per gli oracoli enigmatici. La sua aspirazione più profonda era quella di invecchiare senza mai morire: il dio Apollo esaudì il suo desiderio, ma la sua vita - secondo Petronio - divenne un'agonia di noia, poiché essa, rinsecchita e chiusa in un'ampolla, veniva tormentata da gruppi di ragazzi fastidiosi. 

La citazione dal Satyricon recita, in un misto di latino e greco:

«Nam Sibyllam quidem Cumis ego ipse oculis meis vidi in ampulla pendere, et cum illi pueri dicerent: “Σίβυλλα, τί θέλεις;” respondebat illa: “ἀποθανεῖν θέλω”». 

E cioè: «Infatti ho visto la Sibilla con i miei occhi, a Cuma, pendere in un’ampolla, e quando quei ragazzi le chiedevano: “Sibilla, cosa desideri?”, ella rispondeva: “Morire”».

Se il mondo è una Terra Desolata - per causa principale dell'uomo, che è un distruttore (distruttore peraltro anche della natura, nonostante la natura possa vivere benissimo senza uomo, ma non viceversa) - la scelta estrema è quella di non giocare al gioco degli uomini, quindi morire. 

Eliot, già l'anno dopo, prenderà le distanze da una interpretazione così cupa del suo poemetto, ma quel che è certo che in The Waste Land sono configurate con esattezza insuperabile - perché poetica - i frutti velenosi piantati dalle guerre passate e presenti e di quelle future, nel cuore della Terra degli uomini.


in testa: una illustrazione di Noah Reagan 

28/03/22

Il film definitivo sulla guerra: "Apocalypse Now" e i versi profetici di T. S. Eliot che Coppola utilizzò nel film

 


Se c'è un film che bisognerebbe riguardare oggi, mentre la guerra insensata e feroce infuria in Ucraina, dopo l'invasione russa, quello è Apocalypse Now, il capolavoro di Francis Ford Coppola (1979), che soprattutto nell'ultima mezz'ora, in cui giganteggia la figura di Marlon Brando nei panni del misterioso e terrorizzante colonnello Kurtz, ci si interroga sul senso profondo della guerra, di questa terribile contro-figurazione umana, che sembra inscritta nel nostro Dna e comunque inestirpabile. 

Coppola lo fa utilizzando, nelle sequenze precedenti la morte del colonnello Kurtz, i versi della poesia di T. S. Eliot " The Hollow Men" (Gli uomini vuoti, 1925). 

La poesia, quando fu pubblicata, era preceduta nelle edizioni a stampa dall'epigrafe che Eliot aveva tratto da Heart of Darkness (Cuore di Tenebra, 1899), il celebre racconto di Joseph Conrad e che recita "Mistah Kurtz - he dead", ovvero la frase pronunciata da un servitore nero che annuncia la morte di Kurtz (sarebbe "Il Signore Kurtz .. è morto"). 

Nella famosa sequenza finale del film, quella con Marlon Brando, avvolto nella penombra, si intravedono chiaramente anche le copertine di due libri aperti sulla scrivania di Kurtz, che sono esattamente From Ritual to Romance di Jessie Weston e The Golden Bough di Sir James Frazer, proprio i due libri che T. S. Eliot citò come le principali fonti e ispirazione per il suo celebre poema "The Waste Land" (La Terra Desolata, 1922). 

Anche in questo caso l'epigrafe originale di Eliot per "The Waste Land" è un passaggio da Heart of Darkness, che termina con le ultime parole di Kurtz descritte dal suo servitore:  " (Kurtz) ha vissuto di nuovo la sua vita in ogni dettaglio di desiderio, tentazione e resa durante quel momento supremo di completa conoscenza? Di sicuro a un certo punto iniziò a piangere in un sussurro in seguito a qualche immagine, a una visione,gridò due volte, un grido che non era altro che un respiro – "L'orrore! L'orrore!" 

Sono le parole pronunciate appunto da Marlon Brando nel celebre finale monologo: è l'orrore che Kurtz ha seminato, di cui è stato l'artefice implacabile e il fiero servitore, che si riduce in polvere nella consapevolezza di un fallimento estremo che conduce a una solitudine dannata e finale. 

Quando, nel film, Willard (Martin Sheen) viene presentato per la prima volta al personaggio di Dennis Hopper, il fotoreporter descrive il proprio valore in relazione a quello di Kurtz con una frase anch'essa tratta da un'altra famosissima poesia di Eliot,  "The Love Song of J. Alfred Prufrock" (Il canto d'amore di J. Alfred Prufrock, 1910/11): "I should have been a pair of ragged claws/Scuttling across the floors of silent seas", ovvero Avrei potuto essere un paio di ruvidi artigli Che corrono sul fondo di mari silenziosi" 

Inoltre, il personaggio di Dennis Hopper parafrasa i versi finali di "The Hollow Men", in uno dei dialoghi con Martin Sheen con queste parole: "This is the way the /expletive/ world ends! [...] Not with a bang, but with a whimper.", ovvero: E’ questo il modo in cui finisce il mondo/ Non già con uno schianto ma con un lamento."

La profezia di Eliot si adatta bene ad ogni guerra e anche alla guerra a cui stiamo assistendo.

Una volta, spiegando il significato di Apocalypse Now, Coppola, ha detto che il film può essere considerato contro la guerra, ma è ancora più contrario alla menzogna: "... il fatto che una cultura può mentire su ciò che sta realmente accadendo nella guerra, che le persone vengono brutalizzate, torturate , mutilato e ucciso, e in qualche modo presentare questo come morale è ciò che mi fa orrore e perpetua la possibilità di una guerra".

E anche queste, sono parole che oggi fanno riflettere.

Fabrizio Falconi - 2022 

17/03/22

Putin e il Monaco Nero - una chiave per capire la psicologia di questa guerra

Anton Cechov in una foto del 1903 colorizzata da Klimbim


Credo che chiunque voglia capire un po' di più dello spirito russo, della psicologia di questa guerra e di colui che l'ha scatenata, farebbe bene a riprendere o prendere per la prima volta in mano uno dei più grandi racconti Anton Cechov, Il Monaco Nero, pubblicato nel 1894.

Il racconto ha per protagonista Andrej Vasil'ič Kovrin, un giovane professore universitario di psicologia, stanco e oberato dal lavoro, che decide perciò di trascorrere qualche mese in campagna presso il suo ex tutore Egor Pesockij, un orticultore che vive con la figlia Tanâ in una tenuta ricca di giardini e frutteti meravigliosi. 

La trama, come quasi sempre nei grandiosi testi di Cechov, è piuttosto semplice e può essere descritta così: 

Andrej è affascinato da una leggenda riguardante le apparizioni soprannaturali un monaco nero, e finisce per vederlo. 

Dapprima si preoccupa, sapendo che le allucinazioni sono segno di malattia mentale. Il monaco tuttavia gli parla, mette a tacere i suoi timori e lo convince di dover svolgere un compito importante per il progresso dell'umanità. 

Andrej si sente un eletto destinato a «servire la verità eterna, annoverarsi fra quelli che con migliaia d'anni d'anticipo avrebbero reso l'umanità degna del regno di Dio». 

Andrej sposa Tanâ e ritorna in città con la moglie. Costei si accorge però della malattia del marito e lo convince a farsi curare. Andrej guarisce, le allucinazioni sono scomparse, ma con esse è scomparsa anche la gioia di vivere, essendo Andrej convinto che senza il monaco nero come guida sarà destinato alla mediocrità («Come furono fortunati Buddha, Maometto e Shakespeare che i buoni parenti e i medici non li avessero curati dall'estasi o dall'ispirazione! (...) I dottori e i buoni parenti tanto faranno che alla fin fine l'umanità rimbecillirà, la mediocrità sarà considerata genio e la civiltà perirà»). 

Insofferente Andrej si separa da Tanâ e si unisce a Varvara Nikolaevna, una donna «che aveva due anni più di lui e lo accudiva come un bambino». 

Intanto Andrej si ammala di tubercolosi polmonare. Per giovare alla propria salute si reca in Crimea con Varvara. La malattia progredisce e nelle fasi finali appare nuovamente il monaco nero il quale rimprovera Andrej di non aver avuto fiducia nella sua missione di genio. 

«Quando Varvara Nikolaevna si svegliò e uscì da dietro il paravento, Kovrin era già morto, e sul suo volto si era fissato un sorriso di beatitudine».

Perché è grande questo racconto e perché ha qualcosa di così attuale che riguarda da vicino quello a cui stiamo assistendo in queste settimane di guerra?

Perché nello spirito umano - e particolarmente nello spirito russo, così incline alle perturbazioni dell'anima e alla esaltazione - è insito questo desiderio di grandezza, questo istinto di megalomania che la coscienza e la ragione tengono normalmente a bada in limiti considerati sociali, ma che sono pronti a esplodere quando una psicologia si "ammala". 

Il Monaco Nero è suadente perché dice a Andrej quello che lui vuole sentirsi dire: che lui non è nato per caso, che è venuto al mondo per uno scopo molto preciso e per un compito grandioso. Lui non sarà un mediocre, lui influirà nella storia, addirittura preparerà il cammino al regno di Dio! 

Andrej intuisce di essere pazzo, ma lentamente si lascia convincere che quel che il monaco ha da dirgli sia la cosa più importante, il motivo stesso per cui vive. Senza quella visione, e cioè "guarito", Andrej è profondamente infelice, nel suo ritorno alla "normalità". 

In fondo, un qualche Monaco Nero sussurra sicuramente anche alle orecchie di Putin, gli suggerisce che c'è per lui un posto privilegiato nella storia, un compito fondamentale da portare avanti prima di morire, e che gli garantirà forse, perfino una vita dopo la morte. 

Non c'è nulla di più irresistibile - e di più pericoloso - di una pazzia che si trasforma in ragione di vita e di autoaffermazione. 

Fabrizio Falconi . 2022




15/03/22

Guerra in Ucraina - Una delle più grandi leggende dello sport, Sergej Bubka "Difenderò il nostro paese con tutti i mezzi a mia disposizione"


"Amo la mia Ucraina con tutto il cuore, sotto la sua bandiera ho ricevuto le più alte onorificenze: vinceremo!". Così Sergey Bubka, leggenda del salto con l'asta prima da sovietico e poi da ucraino, in merito all'invasione militare russa nel territorio ucraino.

Bubka, 58 anni originario di Lugansk nell'omonima autoproclamata Repubblica Popolare e nella sua stupenda carriera capace di stabilire ben 35 record mondiali tra indoor ed outdoor, è stato nominato dal presidente del Comitato Olimpico Internazionale, Thomas Bach, coordinatore degli aiuti umanitari dal Movimento Olimpico a favore dell'Ucraina.  

"Miei cari ucraini, la famiglia olimpica non è indifferente al nostro dolore, come ogni ucraino, non riesco a dormire, difenderò il nostro Paese con tutti i mezzi a mia disposizione, utilizzando tutti i miei collegamenti internazionali, la guerra deve finire, la pace e l'umanita' devono prevalere", ha scritto ancora Bubka su Twitter.

Sergey Bubka è presidente in carica del Comitato olimpico nazionale ucraino ma anche vicepresidente di World Athletics e membro del Comitato Olimpico Internazionale.   

Mariia Bulatova, vicepresidente del Comitato olimpico nazionale ucraino, ha ringraziato la comunità olimpica per il sostegno, "non siamo dimenticati, stiamo ricevendo offerte per alloggi per gli atleti che hanno lasciato il nostro amato Paese e stiamo ricevendo donazioni".  

Fonte - AGI 

13/03/22

Poesia della Domenica: "Per l'Ucraina" di Taras Ševčenko

 


Ricordate, fratelli miei… – 
Affinché quella sventura non ritorni – 
Come voi e io guardavamo 
Per bene da dietro le sbarre. 
E, certo, pensavamo: 
“Quando 
 Per un consiglio quieto, una chiacchiera, 
Quando ci incontreremo di nuovo 
Su questa terra devastata? ”
Mai, fratelli, mai berremo 
Insieme l’acqua del Dniepr! 
Ci separeremo, disperderemo nelle steppe, 
Nelle selve la nostra sventura, 
Crederemo ancora un po’ alla libertà, 
Poi cominceremo a vivere 
Tra la gente, come la gente. 
E finché sarà così, 
Amatevi, fratelli miei, 
Amate l’Ucraina, 
E pregate il Signore 
Per lei, povera di talento, 
Dimenticate, amici, 
E non maledite. 
Talora ricordatevi di me 
Nella crudele schiavitù. 


(scritta nel 1847, Fortezza di Orsk)
traduzione – Anna Panassukova

08/03/22

Quando Pasolini andò in Russia: "Mosca come la Garbatella"

 


L'interesse di Pier Paolo Pasolini per la letteratura russa è talmente ampio da meritare un posto a sé nell'ormai sconfinata bibliografia sulla sua opera. Dall'illimitatezza del mondo contadino sempre vagheggiato e poi cantato ne La religione del mio tempo sino al saccheggio di temi e immagini dostoevskijane, la scrittura del poeta di Casarsa risulta essere attraversata da un costante filo rosso che lega parte della sua produzione a quanto sperimentato in terra russa.

Pasolini era stato inviato per “Vie Nuove” al Festival della Gioventù a Mosca nel 1957, e lì, ospite del Congresso degli scrittori, Pasolini non vede che anime buone. Passa in Russia in tutto tre settimane, dal 27 luglio al 16 agosto, tra Mosca e Odessa, con una delegazione di cui facevano parte il filosofo senatore Banfi, Sandro Curzi, Mario La Cava, e subito si disveste dei “vizi acquisiti in secoli di storia”, dei russi “pigri, complicati ed eccessivi come al tempo di Dostoevskij”, per testimoniare una società “veramente diversa”. Semplice, diretta, umile.

Un idillio, “un’esperienza meravigliosa e fondamentale”. 

Mosca, poi, è ““una immensa Garbatella: un misto dunque di liberty e di Novecento, con pareti colossali e graticci di finestre. Spesso tuttavia con file di casette basse, ad un piano o due piani”. Ci sono grattacieli, “quegli «orrendi» edifici, condannati da Krusciov. Ma non sono insopportabili. Ispirano anzi della simpatia. Sono cose commoventi, come tutti gli sforzi degli umili per apparire grandi. Mosca è una città di contadini”. Un’altra storia, senza più classi sociali, non sottomessa, come si dice, a una “classe dirigente”. I russi sono i contadini padani della domenica, naturali tra di loro come “i ragazzini nelle piazzette dei paesi”. L’aria è pulita, il cibo sano, i rumori naturali, rapporti sinceri e solidali. Sono temi che riprenderà in una sezione di La religione del mio tempo.

Tra gli autori da egli più amati - oltre al citato Dostoevskij e a Osip Mandel'štam - spicca senz'altro la figura intellettuale e umana di Anna Achmatova. La poetessa, che conosceva bene l'italiano tanto da tradurre i "Canti" di Leopardi, è ammirata da Pasolini soprattutto in virtù della sua natura 'scomoda', da intellettuale disorganica come lui stesso si imponeva di essere. A lei dedica una poesia struggente, in cui la comunione ideale di anime e intenti è resa attraverso un'immersione nello stile dell'autrice, di cui sono riconosciuti la bellezza e il 'mistero'.
Pier Paolo Pasolini - Quasi alla maniera dell'Achmatova, per lei
Un poeta dice che un poeta è un passero
che ripete tutta la vita le stesse note.
Le tue sono le note di un passero che crede
che la sua vita sia tutta la vita.
Nessuno va a disilludere un passero, perché
un passero non può farsi disilludere:
la sua sicurezza è come la presenza –
sulla terra – del paese di Tsarskoe Selò.
È passata su Tsarskoe Selò la rivoluzione?
Certo, è passata, ma semplicemente come
"un evento che non ha l’eguale"
e il passero continua a cantare.
Nulla esiste se non si misura col mistero:
che testimonianza avremmo degli "eventi"
se non cantasse prima e dopo di loro
un passero col suo canto lieve e severo?
(Poesie marxiste, 1964-1965, in Tutte le poesie, Mondadori)

Fonte: Pier Paolo Pasolini e la Russia: una poesia per Anna Achmatov di Ginevra Amadio

07/03/22

Russians di Sting: perché la canzone è tornata di grande attualità ?

 


E' una delle grandi hits di Sting, della sua carriera solista, iniziata dopo la separazione dai Police, e contenuta nel suo primo meraviglioso album, The Dream of the Blue TurtlesRussians, che tutti ricordiamo, è tornata strettamente d'attualità in questi giorni, vediamo perché.

Russians, fu pubblicata, insieme al resto dell'album nel giugno 1985, e in seguito come come singolo a novembre. 

La canzone è un commento e un appello che critica la politica estera e la dottrina della distruzione reciproca assicurata (MAD) allora dominante della Guerra Fredda da parte degli Stati Uniti e dell'allora esistente Unione Sovietica

Nel 2010, Sting ha spiegato che la canzone è stata ispirata guardando la TV sovietica tramite il ricevitore satellitare alla Columbia University:  "Avevo un amico all'università che ha inventato un modo per rubare il segnale satellitare della TV russa. Bevevamo qualche birra e salivamo questa piccola scala per guardare la televisione russa... A quell'ora della notte ci arrivavano solo i bambini.  Sono rimasto colpito dalla cura e dall'attenzione che hanno riservato ai programmi dei loro figli. Mi dispiace che i nostri attuali nemici non abbiano la stessa etica". 

Pochi giorni fa, il 5 marzo 2022, durante l'invasione russa dell'Ucraina , Sting ha pubblicato un video di se stesso mentre si esibiva in "Russians" su Instagram affermando: "Ho cantato questa canzone solo di rado nei molti anni trascorsi da quando è stata scritta, perché non avrei mai pensato che sarebbe stata di nuovo rilevante. Ma, alla luce della decisione sanguinosa e tristemente sbagliata di un uomo di invadere un vicino pacifico e non minaccioso, la canzone è, ancora una volta, un appello alla nostra comune umanità. Per i coraggiosi ucraini che combattono contro questa brutale tirannia e anche per i tanti russi che stanno protestando contro questo oltraggio nonostante la minaccia di arresto e reclusione - Noi, tutti noi, amiamo i nostri figli. Fermate la guerra.

Il video musicale di accompagnamento del singolo fu diretto da Jean-Baptiste Mondino ed è stato girato in uno stile in bianco e nero simile, influenzato dalla New Wave francese. 

Il video presentava anche in primo piano l'attore bambino Felix Howard. 

La canzone come è noto, utilizza il tema romantico della suite del tenente Kijé del compositore russo Sergei Prokofiev,  e la sua introduzione include un frammento del programma di notizie sovietico Vremya in cui il famoso giornalista televisivo sovietico Igor Kirillov dice in russo: ".. .Il primo ministro britannico ha descritto i colloqui con il capo della delegazione, Mikhail Sergeyevich Gorbachev, come uno scambio di opinioni costruttivo, realistico, pratico e amichevole...", riferendosi all'incontro di Mikhail Gorbachev e Margaret Thatcher nel 1984. 

Il leader sovietico all'epoca era Konstantin Chernenko. Sempre in sottofondo si sentono le comunicazioni della missione Apollo-Soyuz

In un'intervista del 2021, il regista James Cameron, autore e produttore di Terminator 2 , ha affermato che la canzone lo ha ispirato a creare il personaggio di John Connor, il bambino di 10 anni che sarebbe stato il personaggio centrale della trama. : "Ricordo di essermi seduto una volta, a scrivere appunti per Terminator, e sono rimasto colpito dalla canzone di Sting, che "Spero che anche i russi amino i loro figli". E ho pensato: "Sai una cosa? L'idea di una guerra nucleare è così antitetica alla vita stessa". Ecco da dove viene il ragazzo". 

marzo 2022

Il video originale di Russians di Sting: 


04/03/22

Come nacque il meraviglioso discorso di Chaplin nel "Grande Dittatore" ?


Specialmente in questi tempi di ansia e di guerra, torna alla mente il monologo finale del Grande Dittatore, uno dei più famosi monologhi cinematografici di sempre, nel capolavoro scritto, diretto, prodotto e interpretato da Charlie Chaplin. 

Come si sa, uscito negli Stati Uniti nel 1940, dunque all'inizio della Seconda Guerra Mondiale, il film rappresenta una geniale parodia dei regimi nazi-fascisti che a quel tempo imperversavano in Europa, mettendo alla berlina i dittatori e i loro aiutanti  di quel tempo, da Hitler a Mussolini, da Goebbels a Goering. 

Si tratta del primo lungometraggio interamente parlato di Chaplin: il regista sapeva che far parlare il suo personaggio più famoso, Charlot, avrebbe potuto snaturarlo fino a ucciderlo, ma sentiva anche di vivere in un contesto storico in cui parlare era diventato un dovere

Ciò che ancora oggi colpisce del monologo pronunciato da Chaplin, nei panni del barbiere ebreo scambiato per la sua somiglianza con il dittatore, è la sua universalità, il suo messaggio umanista e pacifista, che non è mai invecchiato. 

Il testo del monologo è interamente opera di Chaplin che scrisse interamente da solo la sceneggiatura del film. 

Nel discorso finale, il barbiere, nei panni di Hynkel, adotta un tono radicalmente diverso dal resto del film (per lo più una serie di gag visive ) per una sequenza genuinamente seria e piena di dramma, un messaggio politico profondo, apparendo in un'inquadratura statica  per più di sei minuti, un tempo eccezionalmente lungo, durante i quali Chaplin si rivolge direttamente allo spettatore e il personaggio del barbiere lascia il posto allo stesso Charles Chaplin. 

Nella celebre scena, Chaplin sbatte le palpebre meno di dieci volte durante l'intero discorso finale.

Charlie Chaplin ebbe l'idea del film quando un amico, Alexander Korda, notò che il suo personaggio sullo schermo e Adolf Hitler sembravano in qualche modo simili. 

Chaplin, in seguito, apprese che lui e il dittatore erano nati entrambi a una settimana di distanza e avevano più o meno la stessa altezza e peso ed entrambi hanno lottato nella povertà, fino a raggiungere un grande successo in campi diametralmente opposti: quello del potere assoluto politico e quello artistico. 

Quando Chaplin venne a conoscenza delle politiche di Hitler di oppressione razziale e aggressione nazionalista, usò le loro somiglianze come ispirazione per attaccare Hitler mediante la pellicola. 

Il cineasta - originariamente - intendeva chiamare il film The Dictator, ma ricevette un avviso dalla Paramount Pictures che, qualora avesse scelto questo titolo, gli avrebbero addebitato 25.000 dollari: Chaplin accettò le imposizioni della Paramount Pictures e inserì Great nel titolo.

Il regista raccontò in seguito che indossare il costume di Hynkel lo aveva fatto sentire più aggressivo e quelli a lui vicini ricordano che era più difficile lavorare con lui nei giorni in cui stava girando nei panni del personaggio.

Fabrizio Falconi -2022 

03/03/22

Guerra in Ucraina - Perché invece di censurare Dostoevskij, andrebbe letto per far rinascere la Russia

 


Sconcertato come tutti dalla folle decisione di una università italiana di annullare il corso di uno scrittore italiano tra i massimi conoscitori di Dostoevskij, decisione per fortuna subito ritrattata e frutto evidentemente di un colpo di sole, o di una scellerata concezione del politically correct, ho ritrovato questa pregevole intervista di qualche anno fa (2012) realizzata da Alessandro Zaccuri a Tat’jana Kasatkina, filologa e critica letteraria che presso l’Accademia delle scienze di Mosca ha presieduto la commissione per lo studio dell’autore di Delitto e castigo. Le sue parole, rilette oggi, suonano profetiche e spiegano perché Dostoevskij può e deve essere proprio il punto di ripartenza della Russia, arrivata a un punto di non ritorno nel suo processo di putinizzazione

«Dostoevskij – diceva la Kasatkina – è lo scrittore russo della sua epoca più vicino ai lettori di oggi, giovani compresi. Più di Tolstoj, grandissimo romanziere, certo, che però finisce per allontanarsi da noi per la sua preoccupazione di impartire precetti morali. Si presenta come un maestro, vuole insegnarci la bontà, ma davanti a questa pretesa l’essere umano si sottrae, perché intuisce l’accusa nascosta in un simile atteggiamento: “Così non va bene, pare che sostenga Tolstoj, non sei come dovresti essere, non sei abbastanza buono”. Dostoevskij, al contrario, lancia un richiamo al qual l’essere umano non può non rispondere. “Sii, dice a ciascuno di noi, diventa te stesso”. È una sfida completamente diversa, che implica il rischio, l’avventura, un totale abbandono all’inatteso».

Anche il pericolo di perdersi? Il concetto dostoevskijano di «sottosuolo» non è del tutto rassicurante, obietta Zaccuri.

«Perché viene frainteso», risponde al Kasatkina, «nei Ricordi del sottosuolo Dostoevskij rappresenta l’uomo del suo tempo, al quale non è stata neppure data la possibilità di credere in Dio. Una condizione terribile, con il mondo ripiegato su se stesso, chiuso a ogni occasione di incontro con l’Assoluto. È il momento in cui l’umanità crede di salvarsi con le sue sole forze, facendo affidamento sulla propria intelligenza. Il cosiddetto “uomo del sottosuolo” non rappresenta il nostro lato di tenebra, ma il disaccordo radicale nei confronti di questa limitazione. Sente di essere più grande di ciò che gli viene imposto, è come se dovesse sottoporsi a un intervento chirurgico che lo mutili per adeguarlo alle richieste della mentalità corrente. Ma lui sa che nella sua persona non c’è nulla di superfluo e quindi non può smettere di picchiare conto la “parete di pietra” eretta dalle leggi di natura, a causa della quale sarebbe condannato a un’esistenza solo orizzontale

Del resto, già prima di scrivere Ricordi del sottosuolo, in alcune pagine poi espunte da Memoria da una casa morta Dostoevskij aveva affermato con chiarezza che la vera pena non sta nella sofferenza e neppure nella reclusione: l’uomo soffre veramente solo quando sa di non essere più libero».

«Ho scoperto L’idiota a undici anni: allora (all'epoca della Unione Sovietica, ndr) non potevamo conoscere il Vangelo, ma potevamo conoscere il principe Myskin. È stata la mia e la nostra salvezza. Dostoevskij ci ha fatto capire che eravamo costretti a vivere sotto un cielo artificiale. Meglio, sotto una stuoia che era stata stesa al posto del cielo. Intendiamoci, anche oggi c’è qualcuno che si adatta a stare sotto una specie di ombrello che lo separa da Dio. Ma per la maggior parte di noi quella era la morte. Dostoevskij è stato più di uno scrittore: è stata la persona che ci ha aiutato a liberarci di quella stuoia, in modo da ritrovare il cielo. Andando oltre la parete di pietra, insomma».

Vale anche per la Russia di oggi?

«Dopo le scorse elezioni è accaduto qualcosa di sorprendente per la sua naturalezza. A Mosca sono scese in piazza non meno di trentamila persone (cinquantamila, secondo alcuni), non con l’intento di creare disordini, ma per guardare finalmente il potere negli occhi. “Non capiamo come sia possibile continuare a mentire così”, questa è la sostanza della ribellione, che coincide con la richiesta di essere trattati non come sudditi, bensì come esseri umani. Le proposte che hanno preso a circolare sul web non sono rivolte alle autorità, ma ai singoli cittadini, alle persone nella loro straordinaria e irripetibile singolarità. Il compito è lo stesso indicato da Dostoevskij: “Sii”, e cioè “diventa uomo in tutta la tua pienezza, lì dove ti trovi, in ciò che fai ogni giorno”. La vera rivoluzione russa sta in questo cambiamento interiore, che prescinde dai passi che il governo vorrà o non vorrà compiere».

25/02/22

Guerra in Ucraina: Le 10 frasi profetiche di Anna Politkovskaja sulla Russia e su Putin

 



Ora che la Guerra in Ucraina è stata dichiarata e l'esercito russo ha invaso quel paese, con conseguenze che al momento non sono prevedibili, è utile ricordare Anna Politkovskaja,  nata a New York, il 30 agosto 1958 e assassinata a Mosca, il 7 ottobre 2006).

Una grande giornalista e una grande scrittrice divenuta una martire della libertà di espressione e di informazione. 

Politkovskaja fu ritrovata morta nell'ascensore del suo palazzo a Mosca il 7 ottobre 2006. La polizia rinvenne accanto al cadavere una pistola Makarov con quattro bossoli ed uno dei proiettili sparati l'aveva colpita alla testa. Si seguì quindi la pista di un omicidio premeditato operato da un killer a contratto. 

Il giorno successivo la polizia russa sequestrò il suo computer e tutto il materiale dell'inchiesta che la giornalista stava compiendo.

Particolarmente attiva sul fronte dei diritti umani, Politkovskaja è nota principalmente per i suoi reportage sulla seconda guerra cecena e per le sue aspre critiche contro le forze armate e il governo russi sotto la presidenza di Vladimir Putin, accusati del mancato rispetto dei diritti civili e dello stato di diritto. 

Vale la pena rileggere 10 sue frasi, tratte dai suoi scritti, che oggi appaiono quanto mai profetiche:

1. L'unico dovere di un giornalista è scrivere quello che vede.

2. Io vedo tutto. Questo è il mio problema.

3. La Cecenia è lo strumento con cui Putin ha conquistato il Cremlino e che lo ha spinto a cercare di soffocare la società civile e la libertà di espressione.

4. La Russia sta per precipitare in un abisso, scavato da Putin e dalla sua miopia politica.

5.  (A proposito delle fonti giornalistiche) Ormai possiamo incontrarci solo in segreto perché sono considerata una nemica impossibile da “rieducare”.

6. Impedire a una persona che fa il suo lavoro con passione di raccontare il mondo che la circonda è un’impresa impossibile.

7. (Sulla guerra in Cecenia) È una guerra terribile; medievale, letteralmente, anche se la si combatte mentre il Ventesimo secolo scivola nel Ventunesimo, per giunta in Europa.

8. Il motivo è semplice: diventato presidente Putin - figlio del più nefasto tra i servizi segreti del Paese - non ha saputo estirpare il tenente colonnello del KGB che vive in lui, e pertanto insiste nel voler raddrizzare i propri connazionali amanti della libertà, come ha sempre fatto nel corso della sua precedente professione.

9. Con il presidente Putin non riusciremo a dare forma alla nostra democrazia, torneremo solo al passato. Non sono ottimista in questo senso e quindi il mio libro è pessimista. Non ho più speranza nella mia anima. Solo un cambio di leadership potrebbe consentirmi di sperare.

10. Certe volte, le persone pagano con la vita il fatto di dire ad alta voce ciò che pensano.

Tristemente profetico, quanto mai oggi.

Fabrizio Falconi - 2022