In una recente intervista, il premio Nobel per la letteratura 2024 Han Kang, dice qualcosa di notevole: “in questi giorni quando osservo delle ombre sul muro o il sole che batte vicino alle ombre penso che anche quello è bianco. Cerco il bianco nelle cose scure.”
E al bianco, o meglio, alla ricerca del bianco infatti, la scrittrice coreana ha dedicato il suo ultimo libro: Il libro bianco (Adelphi, 2025).
Nel suo romanzo c’è Varsavia distrutta da Hitler, c’è il dolore, ci sono le cicatrici personali. Ma c’è anche una candela accesa in una stanza gelata, per far danzare le ombre.
Ho avvertito quanto ci sia di propizio in questo. Cos’è del resto che facciamo tutti noi? Cos’è il racconto dell’umilissima natività occidentale - innestatosi sui miti arcaici del solstizio invernale - se non la speranza da sempre alimentata di qualcosa di chiaro che rinasce dal cuore più cupo dell’oscuro, quando - come in ogni ciclo annuale - la luce sembra destinata a estinguersi del tutto?
Tutti noi celebriamo il nostro sol invictus e non lo facciamo soltanto in questi giorni inutilmente chiassosi.
Lo facciamo perché è il nostro modo di stare al mondo.
Se fossimo solamente sopraffatti dall’oscurità, se - oltrepassata la linea d’Ombra - non vi fosse altro che l’orrore del comandante Kurtz; se Rust - dopo aver ucciso il mostro a prezzo quasi della propria vita - (True Detective stagione 1) non fosse convinto che “la luce stia vincendo”, nonostante tutta quella oscurità feroce là fuori; se Isaac Newton non avesse dimostrato che il bianco è dato dalla “combinazione di tutti i colori”, mentre il nero, anch’esso senza tinta, è dato dalla sintesi sottrattiva di tutti i colori dello spettro visibile (cioè “assenza di colore”); se le moderne teorie cosmologiche non avessero ipotizzato un destino impensabile (i cosidetti wormholes) anche per i buchi neri dell’Universo, gli oggetti più oscuri esistenti e concepibili, allora, se tutto questo non fosse vero, non resterebbe altro da dire a riguardo dell’impero dell’oscurità, dominante su ogni cosa visibile e invisibile (e quindi anche sul nostro fato mortale).
Invece gli umani a quanto pare non rinunciano mai a “cercare il bianco nelle cose scure” (è forse un vizio o un archetipo che viaggia con noi dalla notte dei tempi?).
Mi vengono in mente quelle foto scattate nel ranch di Roxbury, nel Connecticut, due ore da New York, che ritraggono Arthur Miller e Marilyn Monroe, dopo il loro matrimonio del 1956. Il ranch che Miller aveva comperato per lei e dove sperava riuscissero entrambi ad allontanarsi dalle proprie cruciali ombre.
Miller si dice fosse ossessionato dal bianco e queste famose foto sembrano dimostrarlo. Marilyn è vestita tutta di bianco, come una sposa o una vestale. Suo marito la osserva, tocca la sua pelle bianchissima con prudenza, come fosse un sogno materializzatosi, una visione di luce incarnata, fragile ed eterea, non di questo mondo.
Invece anche questo sarà un matrimonio molto reale, molto concreto, pieno di oscurità. Marilyn voleva un figlio da Miller, ma lei non riusciva a portare avanti le gravidanze. Dodici o quattordici aborti, nella sua intera vita, sembra. In parte dovuti all’endometriosi della quale soffriva.
Appena cinque anni dura il matrimonio: il divorzio arriva appena 19 mesi prima della morte di Marilyn, sopraffatta dalla depressione, dalle delusioni, dall’alcool e dagli psicofarmaci.
Miller, com’è noto, non andò al funerale. Contrariamente a quel che si potrebbe pensare, un indice di quanto gli costasse separarsi definitivamente da tutto quel bianco.
Ma quella “creatura fuori dell’ordinario” (come la definì Miller) continuò a produrre luce anche dopo la sua sfioritura terrestre.
Perché solo la vera poesia, a quanto pare, sa scovare il bianco anche nell’oscurità più disarmante. L’amore ne è un corredo, anche quando non ha speranze.
Perché il bianco può essere scorto soltanto con l’attenzione. E l’attenzione - o la cura - sono soltanto di chi ama.
Quando il poeta-contadino Sergej Esenin ritorna al suo villaggio, nel 1921, tre anni dopo la rivoluzione d’Ottobre, da disertore è già un noto poeta, anche se a Pietrogrado lo hanno snobbato quando lo hanno visto arrivare. Nei circoli intellettuali, lui era una sorta di bifolco. Seppure di bellezza stupefacente.
Al ritorno a casa si incontra con Anna Snègina, una giovane intellettuale, figlia del feudatario del luogo, sposata con un ufficiale. Sergej e Anna, coetanei, si sono amati da adolescenti. Ora Borja, il marito di Anna, è morto, ucciso dai contadini per l’esproprio delle terre. I due, Sergej e Anna, potrebbero ritrovarsi. E così è: si ritrovano e si riamano, ma non possono restare insieme, perché c’è stato troppo dolore.
Esenin che sta raccontando la sua vera storia, ha dato alla donna un nome inventato, che parla di bianco. Snégina viene da sneg, cioè neve: in esso è quasi l’immagine della fanciulla - ciliegio selvatico, quella che è “come la neve chiara e lucente.”
Anna, una donna accorta e sensuale, il cui nome delicato e niveo non è semplicemente un nome: in esso è celata l’immagine della fanciulla in bianca mantellina che diventa simbolo non solo della giovinezza perenne, ma anche di quella Russia celeste di un tempo, che se ne va per sempre. (1).
Immagine destinata a permanere e sopravvivere come fa il bianco, quando viene riconosciuto nell’oscurità:
Lontani, cari anni!… / Quell’immagine in me non s’è spenta.
Tutti noi, in quegli anni abbiamo amato,/ ma certo,/ hanno amato anche noi.
I.De Luca, Anna Snegina, Einaudi, 1976, p.57
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