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29/10/18

La ridicolizzazione della realtà. Un interessante intervento di Caterina Serra




For fun, il potere della comodità 

Idiocracy, film di Mike Judge del 2006, comincia così, con un uomo che si mette orizzontale dentro una bara e aspetta ibernato.

L’azione di cui è protagonista è un’azione passiva.

All’interno di un programma militare segreto scelgono lui, mediocre, semplice, con un quoziente intellettivo che un mondo di intelligenti definisce da idioti.

Scelgono anche una donna, una prostituta, (tralascio il dettaglio Cristo e Maddalena eroi di un altro mondo e la necessità narrativa di una sexworker). Ma il messia-capro è anche qui maschio, anche lui chiamato al miracolo.

Il futuro in cui i due si risvegliano è un tempo in cui essere intelligenti non funziona più, sempre che avesse mai funzionato in un passato competitivo efficientista.

Ammutoliti tutti gli idealisti, paralizzati i più sensibili, morti di fame gli intelligenti senza fini di lucro, suicidati quelli che Mark Fischer chiama i malati di depressione di massa, colpiti dal morbo della nullità – se non sei diventato nessuno è colpa tua, la società capitalistica ti avrebbe accolto a braccia aperte se solo avessi dimostrato di volere uscire dalla tua miseria, di classe, di sesso, di razza.

Il mondo in cui si risvegliano è sciatto, abbruttito, impigrito, ipnotizzato tutto il giorno davanti a un video idiota che distrae, rincoglionisce, appiattisce tutto per non impegnare l’audience che è diventata tutta deficiente.

Tra cumuli di immondizie dentro e fuori casa, tra facce spente instupidite, la bocca piena di cibo industriale e di risate davanti a una tv finta di reality, un cinema con l’immagine fissa di un culo gigante, o dentro un parlamento stile show in cui il premier è un omone seminudo ignorante e aggressivo in piedi su uno scranno sponsorizzato da banche e multinazionali, kalashnikov in pugno a ogni mugugno di platea.

Insomma, un mondo non tanti anni luce dal nostro (premier o presidente che sia). Un mondo in cui qualcuno bravo con l’ottundimento di massa ha convertito l’acqua in Gatorade, niente vino questa volta, in cui non cresce più una singola pianta perché l’acqua potabile è finita nel cesso – è gratis, cioè, per la ragione sbagliata – e la gente senza un solo moto di dissenso beve tutto come da una fonte sacra.

Di nuovo, non proprio anni luce lontano da qui, un mondo che dalla tv al parlamento al tinello conosce e ama il ridicolo, la ridicolizzazione della realtà.

Come accade in certi film di Hollywood, Idiocracy ironizza di un mondo devastato dal capitalismo consumista, e quindi di noi.

Siamo seduti, guardiamo la tv spazzatura che sta guardando il protagonista, vediamo la spazzatura che produce mangiando guardando la tv che produciamo anche noi, seppur differenziata, in un paese di idioti che ridono governato da idioti che ridono.

Cosa vediamo e cosa ci diverte?

Vediamo una proiezione di quello che saremo o che siamo, il mondo capitalista com’è nelle sue rappresentazioni tipiche e semplificate, desiderio, consumo, spettacolarizzazione, decadenza, bisogno indotto di scambiare un bene comune con un bene economico.

Un neanche tanto velato classismo razzista pessimista che vede espandersi solo l’ignoranza e la volgarità come un magma indistinto che pervade ogni piazza-centro commerciale, con un protagonista deficiente-sapiente perché agli occhi degli stupidi il meno stupido appare intelligente. In scena c’è il cinismo capitalista e quindi l’elisir dell’anticapitalismo, e noi ci mettiamo in una posizione anticapitalista, seduta, comoda. Ironica e cinica quindi comoda.

Così, continuiamo a fare quello che vediamo e che deridiamo. Continuiamo divertiti e passivi a consumare e urlare e votare esattamente come i protagonisti di Idiocracy. L’ironia e il cinismo sono per noi e contro di noi, in una mise en abîme, che è il modo migliore per dirci siete voi e allo stesso tempo quelli che vogliamo noi e però anche quelli che volete voi. Abisso e paradosso si tengono. Di questa divertente passività mi interessa la consonanza con la comodità (ci sono altre consonanze, ribellione, resistenza, protesta in cui forse la passività è un’azione meno divertente). Comodo è confortevole, accogliente ma anche opportuno, conveniente. Perché una certa cosa risulti comoda non deve costare fatica, nessun talento inteso come esercizio di una certa predisposizione, nessuna abilità da allenare, nessuna tecnica da acquisire col tempo, nessun tempo passato a imparare.

Basta lasciarsi andare, farsi fare tutto, farsi guardare senza saper fare veramente niente se non mettersi in mostra, non in scena. Questo tipo di comodità vale soprattutto per il godimento, il divertimento: il business più fruttuoso della terra, dallo sport allo spettacolo al sesso ma anche alla scuola al lavoro. Ciò che conta è divertirsi e divertire.

Vogliamo che tutto sia funny, divertente, che ci deresponsabilizzi, che sia tutto un po’ turistico, un giro di giostra, programmato facilitato. Di recente mi è capitata tra le mani la prospettiva di una escursione subacquea. Let’s have fun. No experience required.

Divertitevi, non occorre avere alcuna esperienza, dicono i volantini. Anche se non l’abbiamo mai fatto, se non abbiamo idea di cosa voglia dire immergersi nell’acqua, perfino se non sappiamo nuotare (sic) non importa, faremo la stessa esperienza di uno che ci ha messo anni e passione e fatica, e che finalmente ha la sensazione di avere il corpo leggero e fluido di un pesce. Potenza persuasiva della narrazione pubblicitaria.

La foto sui volantini è allo stesso tempo ridicola e tecnologica o ridicolmente tecnologica, non so. Sembra un po’ Idiocracy.

I visi sorridenti di un ragazzo e una ragazza sono infilati in un casco, una palla di vetro, un vaso per i pesci, un casco spaziale – acquario o mare, oceano o spazio, fa un po’ lo stesso, quello che vogliamo alla fine è sempre la luna. Dunque, si respira aria con l’acqua che non arriva mai alla bocca, e si nuota.

No, non si nuota, ci si siede, di nuovo!, su una specie di moto-poltrona teleguidata che fa stare tra i pesci seguiti da due in bombole maschera e pinne, loro sì, pronti a guardare dove vai, cosa fai, e in nome della sicurezza a salvarti la vita, che così seduto non si sa mai. E così, ce l’hai fatta, hai visto quello che per vederlo ci avresti messo mesi anni, senza contare il rischio, il pericolo, e la meraviglia di farlo da solo. Invece, qualcuno ti ha tenuto per mano, ti ha guidato, non ti ha insegnato niente ma ti ha fatto divertire.

Non ti è costato niente, pardon, ti è costato ma solo denaro, e intanto quell’esperienza l’hai avuta, consumata come le tante in cui basta comprare. È il pensiero magico della società dei consumi, essere già arrivati senza la fatica di arrivare, diventare ricchi per miracolo, far coincidere il desiderio delle cose con il loro consumo, all’infinito. 

Una vita da imbecilli felici, come ci definisce George Perec in Le cose, siamo nel 1965, quando parla di felicità. “…tra le cose del mondo moderno e la felicità [c’è] un rapporto obbligato. Una certa ricchezza nella nostra società rende possibile un certo tipo di felicità: si può parlare della felicità di Orly (l’aeroporto di Orly, inaugurato nel 1961, fu per anni il «monumento» più visitato di Francia)… Ma questa felicità resta una possibilità, perché nel capitalismo vale il detto: cose promesse non sono cose dovute.

Libro ironico ambiguo freddo. Per nulla divertente, ma forse erano anni in cui la felicità non coincideva con il divertimento. Un libro molto ironico, un’ironia che non mette comodi perché non è cinica, non condanna personaggi e lettori per la loro miseria morale, l’ignoranza, la banalità, la stupidità, ma non ci prende in giro, non ci fa ridere di essere così felici e così imbecilli. Forse ci intristisce, o ci fa anche venir voglia di alzarci.

Caterina Serra, L'Espresso, 23 settembre 2018 p.79