Quando morì Edmund Jabès, il 2 gennaio del 1991, si disse subito: uno dei massimi poeti contemporanei. Ma non solo, perché Jabès, l’esule egiziano trapiantato a Parigi, lasciando un corpus di riflessioni e testi filosofici, ha anche esplorato – sempre in modo poetico – alcuni temi capitali della contemporaneità. Uno di questi è il tema dell’accoglienza, dell’essere straniero, dell’ospitalità che sembra, mai come in questi tempi, cruciale per le sorti del mondo.
Cruciale anche per noi cristiani, che dovremmo fare dell'ospitalità all'altro, al clandestino, al rifugiato, all'esiliato, al derelitto, al sofferente, al fuggitivo, al povero, all'emarginato, la nostra bandiera di vita. Purtroppo invece nella nostra bella Italia cristiana succede esattamente il contrario, come illustrato, assai amaramente dal pezzo pubblicato oggi in prima pagina sul Corriere della Sera da Gian Antonio Stella e che potete leggere cliccando qui.
All’ospitalità Jabès dedicò un libro ( in Italia: Il libro dell’Ospitalità – Edmund Jabès, Raffaello Cortina Editore, 1991 ).
E l’ospitalità di cui parla Jabès, la ricchezza maggiore per un individuo, per una persona: è quella che permette a due estranei di incontrarsi e di (ri)conoscersi. Con l’incontro, lo svelamento reciproco:
Posso rivelare il mio nome soltanto a colui che non mi conosce.
Colui che conosce il mio nome, lo rivela a me.
E’ dunque solo l’altro, colui attraverso il quale io posso imparare il mio nome. E’ grazie alla sua accoglienza/ospitalità che io posso identificarmi. Ed è l’attesa di/per qualcuno che genera la sua presenza, le concede significato:
Tu esisti perché io ti attendo.
Anche attendere non è quindi un’operazione passiva, ma creativa. La parola ospite, infatti ha in lingua italiana, una doppia valenza, attiva e passiva: colui che ospita, e colui che è ospitato
L’ospitalità, dice Jabès, è crocevia di cammini. Ma noi sappiamo aspettare l'atteso ? Sappiamo riconoscerlo ? Sappiamo ospitarlo ?
Cruciale anche per noi cristiani, che dovremmo fare dell'ospitalità all'altro, al clandestino, al rifugiato, all'esiliato, al derelitto, al sofferente, al fuggitivo, al povero, all'emarginato, la nostra bandiera di vita. Purtroppo invece nella nostra bella Italia cristiana succede esattamente il contrario, come illustrato, assai amaramente dal pezzo pubblicato oggi in prima pagina sul Corriere della Sera da Gian Antonio Stella e che potete leggere cliccando qui.
All’ospitalità Jabès dedicò un libro ( in Italia: Il libro dell’Ospitalità – Edmund Jabès, Raffaello Cortina Editore, 1991 ).
E l’ospitalità di cui parla Jabès, la ricchezza maggiore per un individuo, per una persona: è quella che permette a due estranei di incontrarsi e di (ri)conoscersi. Con l’incontro, lo svelamento reciproco:
Posso rivelare il mio nome soltanto a colui che non mi conosce.
Colui che conosce il mio nome, lo rivela a me.
E’ dunque solo l’altro, colui attraverso il quale io posso imparare il mio nome. E’ grazie alla sua accoglienza/ospitalità che io posso identificarmi. Ed è l’attesa di/per qualcuno che genera la sua presenza, le concede significato:
Tu esisti perché io ti attendo.
Anche attendere non è quindi un’operazione passiva, ma creativa. La parola ospite, infatti ha in lingua italiana, una doppia valenza, attiva e passiva: colui che ospita, e colui che è ospitato
L’ospitalità, dice Jabès, è crocevia di cammini. Ma noi sappiamo aspettare l'atteso ? Sappiamo riconoscerlo ? Sappiamo ospitarlo ?
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...no! no! no! sino a che non impareremo ad amare nella diversità le infinite possibilità dell'uomo: l'umanità piena che solo Gesù esprime...l'unico ospite che siamo capaci di ospitare e solo quello che ci ospita con più o meno eguale corrispondenza...in perfetta coincidenza con l'aria culturale mercenaria di cui siamo impregnati...
RispondiEliminaSottoscrivo pienamente !
RispondiEliminaahimè.
F.
E' molto difficile oggi, o perlomeno lo è per me in modo forte al limite dell'impossibilità, essere ospite.
RispondiEliminaIntendo in entrambe le valenze di cui tu parlavi Faber che però per me non sono necessariamente una attiva e l'altra passiva, ma possono essere tutte e due sia attive che passive. C'è oggi una tendenza, che sembra quasi inarrestabile, a cosificare tutto quello che vive al di fuori del nostro recinto nel quale bramiamo di vivere una vita tranquilla senza problemi e nel caso di sopraggiunti drammi preferiamo tenere tutto per noi con il terrore che una qualsivoglia forma di solidarietà possa toccarci. Purtroppo questo accade, mi accade spesso, anche e soprattutto con l'altro, ovvero la persona che è per me un incognita e che non rientra nel mio mondo idealizzato. Tutto questo, a ben vedere, palesa solo una grande paura segno a sua volta di un'immaturità che mi fa essere legato, e ad compiacermene il più delle volte, ad un'immagine idealizzata di me stesso e degli altri. Ma forse per avvicinarmi a quella umanità piena, che come giustamente tu dici Alessandro solo Gesù sa esprimeed ha espresso con la sua vita, devo mettermi nella condizione di saper ascoltare. Forse prima Dio, perché solo chi sa ascoltare Dio sa ascoltare anche l'atro.
...occorre trovare le radici in se stessi, nella nostra umanità come Dio l'ha pensata e allora l'abbracciare la diversità dell'altro non teme il disorientamento ma consente l'esperienza dalla comune umanità...li tutto ci unisce a ciascuno nonostante e al di delle distanze e differenza culturali....
RispondiEliminaCaro Angelo,
RispondiEliminaperdona il ritardo.
Tu scrivi:
"Tutto questo, a ben vedere, palesa solo una grande paura".
Credo che in effetti tutto derivi semplicemente da questo: la paura.
Tutte le nostre ferite, mancanze, omissioni, chiusure, rivolte, piccole e grandi violenze, porte chiuse, nascono da questo: paura.
Paura perchè abbiamo la pretesa di controllare la nostra vita. Di decidere cosa metterci dentro, cosa lasciare fuori della porta.
E invece ogni volta che pensiamo di avere il controllo delle nostre vite, la vita ci porta lontano, in una direzione che non pensavamo mai di dover intraprendere.
E quando corriamo ai ripari, spesso è tardi.
Per questo dovremmo, tutti, cercare, quando siamo vivi e vigili, e consci, e quando preghiamo, e siamo consapevoli, di chiedere al Signore di intercedere principalmente per il nostro reale, effettivo cambiamento.
Liberaci, Signore, dalle nostre inutili paure.
Facci vivere una vita piena, vera, piena, intera, piena, piena di amore dato e ricevuto, senza paura.