Una visita a Roma nei giorni di Pasqua, può riservare molte sorprese.
Ne è un esempio la cosiddetta Chiesa dei Cappuccini in Via Veneto – il cui nome esatto è in realtà Santa Maria dell’Immacolata - celebre soprattutto per l’antico cimitero nel sotterraneo dell’edificio: la cripta, le cui cinque cappelle sono interamente ricoperte e decorate con parti di scheletri – omeri, femori, vertebre, teschi, scapole, clavicole - appartenenti a frati cappuccini che vissero per secoli nell’adiacente convento: più di quattromila scheletri formano una fantasmagorica e lugubre scenografia che serviva come memento mori, come ammonimento riguardo alla caducità della vita terrena.
Oggi
alle cripte si accede attraverso un modernissimo e funzionale Museo dedicato
alla confraternita dei Cappuccini (adiacente alla Chiesa), molto interessante,
che ricostruisce la storia dell’Ordine attraverso i suoi personaggi, le
curiosità, i luoghi e gli strumenti
della predicazione, sull’esempio del Santo assisiano.
Noi eravamo quello che voi siete e quello che noi siamo voi sarete, ammonisce
un cartello all’entrata, piantato direttamente nella terra delle sepolture.
Ma i
cappuccini professavano la loro fede nella Resurrezione e l’ultima delle
Cappelle è in questo senso, liberatoria, perché si assiste, in una tela, alla
raffigurazione del miracolo della resurrezione di Lazzaro. L’intera cripta è
quindi un passaggio pasquale,
attraverso la morte, nella sua rappresentazione più gotica, fino alla Resurrezione. E non è un caso che
questo luogo nei secoli abbia suscitato l’interesse di illustri e diversi
artisti, da Nathaniel Hawthorne e Goethe, fino al Marchese De Sade, che ne
rimase fortemente impressionato.
Ma se ancora oggi la Chiesa richiama molti visitatori per questa particolarità,
molti altri sono i motivi di interesse, prima di tutto quella grande tela
d’altare nella prima cappella a destra firmata dal genio di Guido Reni e
raffigurante San Michele Arcangelo che schiaccia con il piede la testa di
Satana.
Questo
dipinto ha una storia molto particolare, che pochi conoscono. Il bolognese Guido Reni era quel che si dice
uno spirito inquieto. Ammirato e ricercatissimo nella Roma di allora, era
quello che si potrebbe definire un dandy
ante-litteram. Sempre elegante e azzimato, orgoglioso e curioso, si sentiva
attratto dal soprannaturale, dalla magia e dall’azzardo.
Quando
nel 1635 ricevette da Antonio Barberini, che era il fratello del Papa di allora
– Urbano VIII, al secolo Maffeo Vincenzo Barberini – l’incarico di realizzare
una grande pala d’altare per la Chiesa dell’Ordine al quale lo stesso Antonio
apparteneva, Guido Reni pensò bene di prendersi una rivincita, a modo suo, nei
confronti di uno dei personaggi più influenti della Capitale, quel Giovanni
Battista Pamphilj, destinato a diventare qualche anno più tardi anch’esso Papa,
succedendo ad Urbano VIII con il nome di Innocenzo X.
Barberini
e Pamphilj si contendevano la scena a Roma, in quel periodo. Erano le due
famiglie più facoltose, le più potenti, quelle che con più numeri ambivano alla
elezione del Pontefice.
Guido
Reni era dalla parte dei Barberini. Anche per motivi personali che gli avevano
reso inviso Giovanni Battista Pamphilj, brillante avvocato di curia. Non si
conosce bene il motivo di questa antipatia: se si trattò di un affronto
personale, di una maldicenza o di un danno alla reputazione del pittore. Forse per vendicarsi di qualche torto subito,
Guido Reni ritrasse nella tela della Chiesa dei Cappuccini la testa del demonio
schiacciata dall’Arcangelo con i lineamenti di Giovanni Battista Pamphilj: lo
stesso viso allungato, la fronte stempiata e quel pizzetto che lo rendevano un
ottimo soggetto per la rappresentazione del Diavolo..
Quel
che è certo è che sin da quando il quadro fu esposto, la somiglianza parve a
molti innegabile. E lo stesso Giovanni
Battista, all’epoca Cardinale, ne rimase scandalizzato, chiedendo anche per vie
diplomatiche che si provvedesse a nasconderlo.
Ma quella Chiesa era territorio
dei Barberini e nonostante le rimostranze, furono creduti i motivi di discolpa
dell’artista il quale si giustificò dicendo che si era semplicemente ispirato
all’immagine del Demonio che più volte aveva segnato, nel corso dei suoi incubi
notturni..
Dunque
il quadro non fu mai spostato. Anche se i motivi di imbarazzo crebbero
ulteriormente qualche anno più tardi quando Giovanni Battista divenne
addirittura Papa.
E qualche voce maligna, nella Roma di allora, si
affrettò a constatare che “anche se in quella città si era visto di tutto, dall’epoca
di Romolo e poi di Nerone, non s’era mai visto un Papa assomigliare così tanto
ad un Demonio!”
Fabrizio Falconi - riproduzione riservata 2021
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