Non esistono barriere per la poesia,
neppure quelle delle mura di un carcere: per rendersene conto
basta leggere il libro "Aspetto l'attesa e spero la speranza"
(Casa Editrice Pagine), che raccoglie i pensieri in forma
poetica di alcune detenute del penitenziario di Rebibbia.
Presentato nella sezione femminile del carcere, alla
presenza della Direttrice Ida Del Grosso, il libro costituisce
il felice esito del corso "Poesie a Rebibbia" a cui le
detenute hanno partecipato dal novembre scorso con una
straordinaria adesione.
"Sono poesie strappate dalla vita, per
questo non hanno retorica", spiega Plinio Perilli, curatore del
libro e docente del corso insieme con Nina Moroccolo, "e
l'intreccio linguistico ed emotivo di questi scritti e' lo
specchio di ciò che avviene nel nostro Paese".
Dall'Italia al
Burundi, dalla Nigeria alla Romania fino alle Filippine: il
libro offre infatti l'opportunità di un inedito viaggio non solo
tra le parole ma anche intorno al mondo, mescolando culture,
saperi e "colpe" diverse.
Palpabile l'emozione nel piccolo
teatro del carcere, dove erano presenti quasi tutte le detenute
coinvolte nel progetto (sostenuto dalla Fondazione Roma e che
probabilmente replicherà a partire da settembre prossimo).
Timide, impacciate, proprio nel luogo della privazione e
dell'assenza hanno ricevuto il dono dell'ascolto, sentendo
riecheggiare nell'aria le parole che nei mesi scorsi hanno
affidato alla pagina.
Tanti i temi affrontati, tra il dolore,
l'amore e la fiducia in un futuro ancora possibile, grazie anche
a un carcere che non solo punisce ma e' in grado di riabilitare
alla società.
C'e' Grace, che consegna a un pappagallo alla
finestra la speranza di "arrivare ai suoi figli in Africa",
mentre Samanta "con le sue ferite soffre in silenzio chiusa nel
gelo di una cella". Yasmine, italianissima nonostante il nome
esotico, non vuole piu' nascondersi "dietro una terapia per non
pensare", mentre Linda sembra voler gridare tutto il suo dolore
quando afferma "io credo che la vita non e' fatta per me",
chiedendo a gran voce il significato dell'esistenza. Per Anna
Maria la poesia e' una supplica a Dio affinché "il figlio non
vada in adozione". E poi ancora c'e' Rita: e' lei che in carcere
si sente "leggermente libera" quando tutti dormono, che
"aspetta l'attesa e spera la speranza" e che ha capito che
"la tua vera libertà non e' tra le mura ma dentro di te".
Senza
sovrastrutture, recuperando l'essenza vera della lingua, grazie
all'esperienza della poesia si e' riusciti a creare per queste
donne "un'altra possibilita' di relazione, scoprendo ciò che di
bello c'e' in ognuna", afferma Antonella Cristofaro, docente di
Lettere interna al carcere. "Avete tirato fuori le cose che
avevamo nel cuore" dice alla fine Vanessa, una ragazza rom
giunta quasi al fine pena, ringraziando a nome di tutte le
partecipanti. E il suo sorriso sembra davvero la promessa di
quella libertà tanto agognata che ancora puo' attendere tutte la'
fuori.
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