28/02/18

"Tutto ciò che ho visto, tutto ciò che ho capito", una bellissima intervista a Liv Ullmann che quest'anno compie 80 anni.


Pubblico questa bellissima intervista realizzata da Giorgio Vasta e uscita sul Venerdì di Repubblica del 6 Febbraio scorso, che ringraziamo. 
Una scogliera filmata in bianco e nero, le rocce piatte e scabre, sullo sfondo un frammento di mare grigio. Dal limite basso dell’inquadratura compare una donna, indossa un lupetto e una giacca impermeabile: ci guarda, solleva una macchina fotografica, fissa nell’oculare del mirino, scatta, impercettibilmente ci sorride, si volta e si allontana verso la costa caliginosa.
È una scena brevissima di Persona, il film con cui nel 1966 Ingmar Bergman ridefinisce la grammatica della narrazione per immagini, eppure, forse proprio per questa sua fugacità, quel lampo di fotogrammi è uno dei modi in cui il volto di Liv Ullmann – il suo sguardo perentorio e disarmato – si è fatto cinematograficamente indimenticabile.
Quando l’attrice norvegese gira Persona ha ventotto anni – nata a Tokyo nel ’38 trascorre l’infanzia in Canada e poi negli Stati Uniti, dopo la fine della Seconda guerra torna in Norvegia, a Trondheim – e, sebbene prima di allora abbia già recitato in altri film, il ruolo di Elisabet Vogler – l’attrice teatrale che all’improvviso smette di parlare trasformando il silenzio in una strategia di disvelamento – è il suo vero e proprio esordio. Una nuova origine, un ennesimo inizio. Qualcosa che non se ne sta immobile alle nostre spalle bensì davanti a noi, una sostanza di cui sentiamo la mancanza e che per una vita intera continuiamo a cercare. Nel suo capolavoro del 1957, Bergman chiamava questa origine là da venire «il posto delle fragole»; per Ullmann è qualcosa di immateriale.
Rispondendo alle nostre domande da Key Largo, in Florida, dove trascorre l’inverno – la voce fluida e sottile, a tratti esitante – Liv Ullmann racconta: «La mia origine è mio padre, che è morto quando avevo sei anni e che sento sempre intorno a me, ed è mia madre, scomparsa dieci anni fa, alla quale ho domandato scusa per tutto ciò che non ho saputo capire. Ma la mia origine è soprattutto mia nonna, l’odore del suo collo quando da piccola mi prendeva sulle ginocchia per raccontarmi le storie della sua infanzia. Per tutta la vita ho cercato qualcuno che avesse quello stesso odore senza trovarlo né in mia madre né nell’uomo che amo né negli uomini di cui sono stata innamorata».
Il senso del dovere e il senso di colpa sono stati un altro modo in cui l’origine si è manifestata. «In tutti i miei film ho avuto la possibilità di elaborare il mio senso del dovere e di vederlo rappresentato nei ruoli che ho interpretato. Il senso di colpa è stato invece parte integrante della mia educazione, un condizionamento determinato anche dall’essere una donna in un mondo di uomini».
Colpa e dovere sono la corazza che Nora, la protagonista di Casa di bambola di Ibsen – per Ullmann una stella polare, un ruolo così lungamente frequentato da diventare la cartina di tornasole delle sue più personali metamorfosi –, riesce infine a spezzare. «Nel tempo il mio desiderio di liberarmi da questa armatura ha combattuto contro la mia educazione, ma in realtà non sono mai riuscita a svincolarmi del tutto. Ancora adesso, ogni mattina appena mi sveglio mi dico: Oggi sarò Liv, sarò una persona perbene ma non farò quanto gli altri si aspettano da me, solo quello che io penso sia ok. Come Nora, anch’io attendo ogni giorno di percepirmi come meraviglia».
In Cambiare, l’autobiografia pubblicata nel ’77 (seguita nell’85 da un secondo libro di memorie, Scelte), Ullmann racconta che negli anni di più intensa attività – durante i quali viaggia da un continente all’altro (spesso insieme a Linn, la figlia nata nel ’66 dalla relazione con Bergman) lavorando anche con Jan Troell, Terence Young, Richard Attenborough, e in Italia con Monicelli e Bolognini – poteva trovarsi, rientrata a casa, a osservare Tasse, la sua gatta, per rubarleun’espressione da usare in scena. Tutto ciò che esisteva era un patrimonio al quale attingere. «Il mondo è stato il mio partner. Nel mio modo di essere attrice c’è la consapevolezza di possedere qualsiasi sentimento, tutto ciò che ho visto e tutto ciò che ho capito. Quel che ho fatto è stato andare dentro di me, trovare questi sentimenti e tradurli all’esterno: in ogni gesto, anche solo in un’andatura».


Senz’altro in quelle espressioni che i close-up di Bergman hanno saputo osservare come nessun altro, da quella di Jenny in L’immagine allo specchio a quella di Anna Fromm in Passione, da quella di Alma in L’ora del lupo a quella di Eva in Sinfonia d’autunno, passando per il volto di Marianne in quel trattato di anatomofisiologia di una coppia che è Scene da un matrimonio – lo sguardo che slitta dalla felicità all’indifferenza fino a una disperazione del legame da cui affiora un ultimo barlume di solidarietà. «Amo il primo piano perché in quel momento il nostro sguardo arriva vicinissimo all’animo umano. È qualcosa che in teatro non può avvenire ma nel cinema sì, e quando avviene è fantastico: in quel momento la recitazione scompare: l’unica cosa che si deve vedere è la realtà di un volto al di là della realtà».
Passando in rassegna quei ritratti-indagine ci rendiamo conto che per il regista svedese il volto della donna con cui condivise una decina di film e cinque anni di vita(in gran parte trascorsi nella tana-rifugio dell’isola di Fårö, situata tra Russia e Svezia: «un relitto dell’età della pietra», nella percezione di Ullmann) è stato un luogo inesauribile da cui non riusciva a distogliere lo sguardo, come non ci riusciamo noi, oggi, constatando la potenza di quell’ovale così saldamente morbido, ortogonale e poroso, altero e delicato, fatto di granito e di cotone: un volto esemplare, essenziale e complesso, all’apparenza imperturbato ma in realtà – in quella particolare realtà che è il cinema – timido, inquieto, profondamente vulnerabile (un volto, quello di Liv – e quindi di Elisabet Jenny Anna Alma Eva Marianne – che nei prossimi mesi verrà visto innumerevoli volte: alla fine del 2018 Ullmann compirà ottant’anni e nello stesso anno in tutto il mondo si celebra il centesimo anniversario della nascita del regista del Settimo sigillo).
«Tutte le immagini scompariranno» ha scritto Annie Ernaux in Gli anni. Tutte le immagini. Tutto ciò che abbiamo pensato, tutto ciò che abbiamo ricordato. Tutte le percezioni. Prima di allora abbiamo però ancora modo di recuperare qualcosa. E dunque, quando la nostra conversazione sta per concludersi, c’è ancora il tempo per contraddire una certezza. «Trent’anni fa ero sull’isola di Macao. Davanti a me un recinto con un cartello che vietava l’ingresso, oltre il recinto decine di persone con la lebbra. Non intendevo entrare ma un prete cattolico mi si era avvicinato e mi aveva condotto all’interno. Addossata al recinto giaceva una donna molto vecchia: il volto deturpato, i moncherini, un pianto da neonata. Quando mi sono chinata e l’ho abbracciata ho sentito che il suo collo aveva lo stesso odore di quello di mia nonna».
Ciò che sparisce – chi sparisce – diventa di colpo reale: diventa l’origine davanti a noi, il nostro posto delle fragole. Un fantasma che prende la forma di un odore o si concentra in un balenare di fotogrammi: la scogliera, la donna, lo scatto della foto: Liv Ullmann che per un istante – dunque, in quella forma di memoria che è il cinema, per sempre – ci guarda, ci sorride, diventa indimenticabile.
Giorgio Vasta per il Venerdì di Repubblica

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