19/04/14

Dieci grandi anime. 8. Ingmar Bergman (3./)



Dieci grandi anime. 8. Ingmar Bergman (3./) 

   In questo senso la parabola di questo grande regista è forse raccontata in un modo che più esemplare non si potrebbe nella trilogia che Bergman dedicò espressamente al problema religioso, e che comprende tre capolavori, Come in uno specchio (1960), Luci d’Inverno (1961) e Il silenzio (1962).  
  Il regista, già famoso,  voleva realizzare con il primo un’opera “completamente nuova”, un’opera da camera per il cinema, e voleva ambientarlo su un’isola del mare del nord. Fu in quell’occasione che qualcuno gli suggerì la brulla isola di Faro,  nel mar Baltico, che con i suoi paesaggi estremi affascinò a tal punto Bergman da indurlo a stabilirvi la sua residenza, alla fine del film. Forse anche la suggestione di questo paesaggio spinse il regista a rendere il suo cinema ancora più essenziale rispetto ai film precedenti, ancora più nudo, radicale, in un crescente “ascetismo visivo”, come lo definì il padre gesuita Luigi Bini (7).  

  Già il titolo del film – Come in uno specchio – fu scelto da Bergman dal testo della Prima Lettera ai Corinzi, quando Paolo scrive: Adesso noi vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; allora vedremo faccia a faccia (7).  Sull’isola il regista rappresenta le vicende dello scrittore David che  trascorre le vacanze estive in compagnia del figlio Minus, della figlia Kårin - recentemente dimessa da una clinica psichiatrica - e del marito di Kårin, Martin. Ognuno di loro costituisce per gli altri una sorta di specchio, nel quale si riflettono le angosce e la difficoltà di comunicare di ciascuno. Nel confronto tra Karin, che crede di vedere Dio nella sua follia – è celebre l’angoscioso sogno in cui Dio si manifesta sotto forma di ragno – e David, che è un peccatore che ha sbagliato tutto nella sua vita, ma è disposto a con-vertire la sua anima, si gioca la dicotomia nel quale ogni uomo si dibatte quando si pone alla ricerca di Dio.  Cercare Dio come fa Karin, e come fanno in molti, non serve a niente, se non a vedere – come in uno specchio – le proprie deformità e le proprie distorsioni, che nulla aggiungono alla propria solitudine come condizione esistenziale.
   
   La ricerca sensata è invece quella di David – che ha perso e sbagliato tutto, ma che è disposto a mettersi in gioco, fino in fondo. E quando il figlio  gli chiede, angosciato: “Dio? Dammi una prova di Dio. Non puoi,”  il padre, David, risponde: “ Sì che posso. Dio è la certezza che l’amore esiste come cosa concreta in questo mondo di uomini… Ogni genere di amore, il più elevato e il più infimo, il più oscuro e il più splendido. Ogni specie d’amore… Non so se l’amore dimostri l’esistenza di Dio o se l’amore sia Dio stesso… Questo pensiero è il solo conforto alla mia miseria e alla mia disperazione. Di colpo la miseria è diventata ricchezza e la disperazione speranza.  E’ come essere graziati in punto di morte.”
      
   Il figlio, Minus, dimostra di aver capito, e risponde pensando alla sorella pazza: “Allora Karin è tutta circondata da Dio, perché noi l’amiamo davvero.”
   
   Il secondo film della trilogia, Luci d’inverno, nacque invece, l’anno seguente, dopo che Bergman era rimasto profondamente colpito dal Diario di un curato di campagna, che Robert Bresson aveva tratto da Bernanos, rielaborando una vecchia idea sulla quale il regista rimuginava da anni e che prendeva lo spunto dalla scena di un uomo che entrato d’inverno, in una piccola chiesa di campagna, chiude la porta si avvicina all’altare e dice al Cristo: “ Resterò qui fino a quando non mi parlerai.”  

    
    Quel che ne venne fuori fu il film forse più drammatico, riguardo ai temi esistenziali, di quelli diretti da Bergman, un film che inizia e finisce con una funzione religiosa, e che mostra il dibattersi del pastore protestante Tomas Ericsson, solo di fronte ai dilemmi della fede, incapace di convertirsi realmente e di trovare risposte in Dio.  Luci d’inverno, che termina in sostanza con un nulla di fatto, fu all’epoca usato, allo stesso modo da coloro che ci vedevano una proclamazione di ateismo e da altri che all’opposto, lo leggevano come una confessione di fede, seppure drammatica e dubitativa.   Lo stesso Bergman non aiutò a decifrare il significato del suo film in un modo o nell’altro: pare che alla fine del manoscritto con la sceneggiatura di Luci d’inverno egli avesse apposto, di suo pugno, le parole Soli Deo Gloria (9).  

    Ma se davvero questo stesse ad indicare la ritrovata fede del pastore Tomas, è tutto da dimostrare.    Quel che è certo è che anche in questo film, Bergman si dichiara convinto che la fede in Dio non la si trova comodamente arroccati nelle formule liturgiche e nei dogmi, ma semmai essa “fiorisce nelle anime che hanno ormai conosciuto la disperazione più nera.”   (10) 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

7.  Luigi Bini, Ingmar Bergman da “Come in uno specchio” a “Sinfonia d’Autunno”, Milano, Edizioni Letture, 1980, pag.13.
8.  Lettera ai Corinzi, 13, 12.
9. Questo particolare fu rivelato da Jorn Donner ne Il volto del diavolo, articolo su Cineforum del 1966, e confermato da Vilgot Sjoman, amico e portavoce del regista, intervistato dai Cahiers du Cinema, nel numero 165, del 1965, pag. 54.
10.  Così Guglielmo Biraghi, Luci d’inverno, Il Messaggero, 18 aprile 1963.

Nessun commento:

Posta un commento

Se ti interessa questo post e vuoi aggiungere qualcosa o commentare, fallo.