Dieci grandi anime. 8. Ingmar Bergman (3./)
In questo senso la parabola di questo
grande regista è forse raccontata in un modo che più esemplare non si potrebbe
nella trilogia che Bergman dedicò espressamente al problema religioso, e che
comprende tre capolavori, Come in uno
specchio (1960), Luci d’Inverno
(1961) e Il silenzio (1962).
Il regista, già famoso, voleva realizzare con il primo un’opera
“completamente nuova”, un’opera da camera per il cinema, e voleva ambientarlo
su un’isola del mare del nord. Fu in quell’occasione che qualcuno gli suggerì
la brulla isola di Faro, nel mar Baltico, che con i suoi paesaggi
estremi affascinò a tal punto Bergman da indurlo a stabilirvi la sua residenza,
alla fine del film. Forse anche la suggestione di questo paesaggio spinse il
regista a rendere il suo cinema ancora più essenziale rispetto ai film
precedenti, ancora più nudo, radicale, in un crescente “ascetismo visivo”, come
lo definì il padre gesuita Luigi Bini (7).
Già il titolo del film – Come in
uno specchio – fu scelto da Bergman dal testo della Prima Lettera ai
Corinzi, quando Paolo scrive: Adesso noi
vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; allora vedremo faccia a faccia
(7). Sull’isola il regista rappresenta le vicende dello scrittore
David che trascorre le vacanze estive in
compagnia del figlio Minus, della figlia Kårin - recentemente dimessa da una
clinica psichiatrica - e del marito di Kårin, Martin. Ognuno di loro
costituisce per gli altri una sorta di specchio, nel quale si riflettono le
angosce e la difficoltà di comunicare di ciascuno. Nel confronto tra Karin, che
crede di vedere Dio nella sua follia – è celebre l’angoscioso sogno in cui Dio
si manifesta sotto forma di ragno – e David, che è un peccatore che ha
sbagliato tutto nella sua vita, ma è disposto a con-vertire la sua anima, si
gioca la dicotomia nel quale ogni uomo si dibatte quando si pone alla ricerca
di Dio. Cercare Dio come fa Karin, e
come fanno in molti, non serve a niente, se non a vedere – come in uno specchio
– le proprie deformità e le proprie distorsioni, che nulla aggiungono alla
propria solitudine come condizione esistenziale.
La ricerca sensata è invece quella di
David – che ha perso e sbagliato tutto, ma che è disposto a mettersi in gioco, fino
in fondo. E quando il figlio gli chiede,
angosciato: “Dio? Dammi una prova di Dio. Non puoi,” il padre, David, risponde: “ Sì che posso.
Dio è la certezza che l’amore esiste come cosa concreta in questo mondo di
uomini… Ogni genere di amore, il più elevato e il più infimo, il più oscuro e
il più splendido. Ogni specie d’amore… Non so se l’amore dimostri l’esistenza di
Dio o se l’amore sia Dio stesso… Questo pensiero è il solo conforto alla mia
miseria e alla mia disperazione. Di colpo la miseria è diventata ricchezza e la
disperazione speranza. E’ come essere
graziati in punto di morte.”
Il figlio, Minus, dimostra di aver
capito, e risponde pensando alla sorella pazza:
“Allora Karin è tutta circondata da Dio, perché noi l’amiamo davvero.”
Il secondo film della trilogia, Luci d’inverno, nacque invece, l’anno
seguente, dopo che Bergman era rimasto profondamente colpito dal Diario di un curato di campagna, che
Robert Bresson aveva tratto da Bernanos, rielaborando una vecchia idea sulla
quale il regista rimuginava da anni e che prendeva lo spunto dalla scena di un
uomo che entrato d’inverno, in una piccola chiesa di campagna, chiude la porta
si avvicina all’altare e dice al Cristo: “ Resterò qui fino a quando non mi
parlerai.”
Quel che ne venne fuori fu il film forse
più drammatico, riguardo ai temi esistenziali, di quelli diretti da Bergman, un
film che inizia e finisce con una funzione religiosa, e che mostra il
dibattersi del pastore protestante Tomas Ericsson, solo di fronte ai dilemmi
della fede, incapace di convertirsi realmente e di trovare risposte in
Dio. Luci
d’inverno, che termina in sostanza con un nulla di fatto, fu all’epoca usato, allo stesso modo da coloro che
ci vedevano una proclamazione di ateismo e da altri che all’opposto, lo
leggevano come una confessione di fede, seppure drammatica e dubitativa. Lo stesso Bergman non aiutò a decifrare il
significato del suo film in un modo o nell’altro: pare che alla fine del
manoscritto con la sceneggiatura di Luci d’inverno egli avesse apposto, di suo
pugno, le parole Soli Deo Gloria (9).
Ma se davvero questo stesse ad indicare la
ritrovata fede del pastore Tomas, è tutto da dimostrare. Quel che è certo è che anche in questo
film, Bergman si dichiara convinto che la fede in Dio non la si trova
comodamente arroccati nelle formule liturgiche e nei dogmi, ma semmai essa
“fiorisce nelle anime che hanno ormai conosciuto la disperazione più
nera.” (10)
Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata.
7.
Luigi Bini, Ingmar Bergman da
“Come in uno specchio” a “Sinfonia d’Autunno”, Milano, Edizioni Letture,
1980, pag.13.
8. Lettera ai Corinzi, 13, 12.
9.
Questo particolare fu
rivelato da Jorn Donner ne Il volto del
diavolo, articolo su Cineforum
del 1966, e confermato da Vilgot Sjoman, amico e portavoce del regista,
intervistato dai Cahiers du Cinema,
nel numero 165, del 1965, pag. 54.
10.
Così Guglielmo Biraghi, Luci
d’inverno, Il Messaggero, 18 aprile 1963.
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