autore sconosciuto, Ingmar Bergman fotografato sul divano di casa, 1960.
Dieci grandi anime. 8. Ingmar Bergman (1./)
Per un uomo del Nord, i conti con la solitudine si fanno in fretta. Non è un caso se il tema della solitudine
impregni la cultura scandinava dai suoi primordi. Bergman, uomo
del Nord, lo è stato fino in fondo, come Kierkegaard, August Strindberg e
Carl Theodor Dreyer . Un destino segnato
già dal fatto di nascere nella colta Uppsala – patria di Celsius e di Linneo,
ma anche di Dag Hammarskjold – e di nascervi da un padre severo pastore
luterano (Erik Bergman) e da una madre ambigua e temuta (Karin Akerblom,
discendente di una famiglia benestante olandese), in una famiglia costruita –
secondo il racconto stesso che ne ha fatto il regista nei suoi film e nella sua
autobiografia (1) - su principi rigidi e
oppressivi. Un clima di freddezza, nel
quale sin da piccolo Bergman fu chiamato a sperimentare la solitudine e le
difficoltà di comunicazione tra le coscienze degli uomini, che furono due tra i
temi dominanti della sua filmografia.
La
solitudine di un uomo consapevole del suo stato è assoluta, disse una volta
(2), ma il desiderio di una intesa con
gli altri non cessa mai di alimentare una grande speranza. C’è sempre, nella
giornata di un uomo, un’ora o un minuto o appena un momento in cui si viene a
trovare a contatto con il prossimo. L’arte è un mezzo meraviglioso e forse
unico di creare questo magico contatto, di avvicinare gli uomini.
C’è molto di Bergman, in questa
frase. La solitudine, che pure fu una
costante della sua vita - fino agli ultimi anni di totale eremitaggio
nell’isola di Faro, immersa nella calma glaciale del Mar Baltico, dove il
regista è morto nel 2007 – non gli impedì di ricercare a tutti i costi, e con
ogni mezzo che il suo genio gli mise a disposizione, una forma di comunicazione alta e personale – quasi a cuore aperto - con ogni uomo che si ponesse di fronte ad un
suo nuovo film.
I temi prediletti di Bergman, della sua
opera, la difficoltà della coppia, le
insufficienze dell’amore, la morte, la presenza o l’assenza di Dio, il nostro
posto nel mondo, sono già tutti scritti nella biografia del grande regista. Nato
il 14 luglio del 1918, a pochi
mesi dalla fine del primo conflitto mondiale, con la madre ammalata di febbre
spagnola, al piccolo Ingmar fu subito impartita l’estrema unzione, perché si
riteneva improbabile potesse sopravvivere. “Morirà di denutrizione” decretò il
medico. Invece il bambino sopravvisse,
sufficientemente temprato anche per cavarsela negli anni seguenti, quando in
famiglia dovette affrontare l’irritabilità paterna – il padre, valente predicatore
luterano si spostava nelle chiese di paese, fino a far carriera e divenire
addirittura cappellano della Corte Reale – le ansie della madre, e le punizioni
che venivano inflitte a lui, al fratello maggiore e alla sorella minore, dalla
cuoca Alma, che sadicamente lo rinchiudeva in un oscuro ripostiglio dove viveva
“un mostriciattolo che si nutriva mangiando le dita dei bambini cattivi”.
L’atmosfera familiare vissuta in quegli
anni era fu resa in modo magistrale in quel grande affresco che è Fanny & Alexander, il suo film
testamento realizzato nel 1982 e vincitore di premi in tutto il mondo –
compreso l’Oscar - nel quale Bergman descrisse minuziosamente
l’ambiente della grande casa di Uppsala, i volti e le presenze dell’infanzia, e
in particolar modo il devastante rapporto con la figura paterna, sdoppiata
nella immagine mefistofelica del vescovo Vergerus (che nel film è il secondo
marito della madre) e in quella di Oscar Ekdahl, il padre buono e umano che Bergman
avrebbe voluto avere.
L’infanzia
fu per Bergman una esperienza totalizzante. Tutto il suo mondo di adulto è edificato nei o sui primi anni di vita. Ed è normale, per un artista,
ritornarvi continuamente. In realtà, scrive il regista nella sua
autobiografia, io vivo continuamente
nella mia infanzia: giro negli appartamenti nella penombra, passeggio per le
vie silenziose di Uppsala, e mi fermo davanti alla Sommarhuset ad ascoltare
l'enorme betulla a due tronchi, mi sposto con la velocità a secondi, e abito
sempre nel mio sogno: di tanto in tanto, faccio una piccola visita alla realtà.
(3)
Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata.
1.
L’autobiografia di
Ingmar Bergman, Lanterna Magica, è
pubblicata in Italia da Garzanti, prima edizione ottobre 1987, Milano.
2.
La frase attribuita a
Bergman è riportata nell’articolo L’arte,
unico antidoto alla nostra solitudine,
firmato da Massimo di Forti per il Messaggero, 31 luglio 2007.
3.
Ingmar Bergman, La lanterna magica,
op.cit.
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