Dieci grandi anime. 8. Ingmar Bergman (4. - fine)
Nell’ultimo
film di quella che è stata chiamata la trilogia
teologica, Il silenzio, uscito
nel 1962, Bergman sembrò sfidare il pubblico e la critica in maniera ancora più
estrema con una storia – quella del viaggio allucinato di due sorelle, Anna e
Ester che attraversano un paese ostile, pieno di strane figure, in cui tutti
parlano una lingua incomprensibile – che incappò anche nelle ire della censura,
per scene di trasgressione molto esplicite, per l’epoca. L’intento del regista
era, stavolta, quello di mostrare – si potrebbe dire nietzschianamente – gli effetti della espulsione di Dio dalle vite
degli uomini. Entrambe le sorelle – che
rappresentano l’una l’aspetto materialistico/edonistico dell’esistenza e
l’altra quello puramente intellettuale/razionale – non raggiungono nessun
barlume di senso, nelle loro vite disperate.
E la morte di una delle due Ester, la coglie con l’ultima parola scritta
su una lettera per il nipote adolescente: ‘anima’. Lo spirituale – rappresentato anche dalla
musica di Bach che compare in diversi punti del film - è l’unica possibilità di uscire dalla
prigione che rinchiude l’uomo nella sua gabbia di disperazione.
“L’uomo
mutilato dei suoi valori spirituali” scrisse un critico italiano subito
dopo l’uscita del film nel nostro paese, “si abbrutisce in una solitudine che è
il suo inferno. Bergman è troppo intriso di cristianesimo per condividere la
persuasione di un Camus che soltanto l’ateismo può generare una carità
autentica… Il silenzio proclama la
tesi opposta. L’assenza dei valori spirituali mura l’uomo nel suo egoismo.”
(11) Ovvero, “ quando Dio tace, il mondo
diventa un inferno.” (12)
E a Bach, alla impressione forte di
quell’oltre rappresentato dal sublime
della musica, che indica la possibilità di una via allo spirituale, Bergman
torna più volte e nelle ultime pagine della sua autobiografia. Lo fa, in questo caso, rievocando una scena
della sua infanzia: Una domenica di dicembre ascoltai l’Oratorio di Natale di Bach alla
chiesa di Hedvig Eleonora (dove il
padre di Bergman teneva i suoi sermoni, NdA).
Era di pomeriggio, la neve era
caduta per tutto il giorno, silenziosa e senza vento. Ora apparve il sole. Ero seduto nella cantoria di sinistra,
proprio sotto la volta. La mobile luce
del sole, scintillante come oro, si rifletteva sulle finestre della Canonica di
fronte alla chiesa e formava figure all’interno della volta. Il corale si diffuse pieno di speranza nella
chiesa che s’immergeva nell’oscurità: la devozione di Bach allevia il tormento
della nostra incredulità.. Le trombe levano al Redentore grida di giubilo in re
maggiore. Una dolce penombra grigioazzurra riempie la chiesa d’una calma
improvvisa, d’una calma fuori dal tempo…
I corali di Bach si muovono ancora come veli colorati nello spazio della
coscienza, avanti e indietro sulle soglie, attraverso porte aperte, gioia. (13)
La musica era per Bergman, come il cinema,
una specie di occhio su un altro mondo.
Il cinema, in più permetteva l’approfondimento dell’analisi. Nessun’altra arte come il cinema, diceva il
regista (14) arriva a cogliere lo
spazio crepuscolare nascosto nel profondo della nostra anima.
Negli ultimi anni della sua vita, anche il
cinema divenne per Bergman, superfluo. Il congedo dal set, più volte annunciato,
si concretizzò con tre piccoli film, Dopo la Prova (1984), Il segno (1986) e Verità e
affanni (1997) che non intaccarono l’impressione che il vero testamento
spirituale del regista restasse Fanny &
Alexander. Bergman si era già
ritirato da tempo nella sua isola di Faro, in una completa solitudine, in una
austerità quasi monacale, interrotta soltanto dalla visita dei suoi otto figli
– divenuti nel frattempo quasi tutti attori - degli amici intimi e degli
attori, compagni di lavoro dei suoi film più famosi.
“Mangiava poco. Si vestiva male. Non
aveva bisogno di comodità: nell’isola di Faro dove ha vissuto quando poteva
perché amava quel paesaggio ideale per la rappresentazione di una condizione
umana desolante, per lungo tempo è mancata persino l’energia elettrica. Si
alzava alle sette del mattino, andava a letto alle dieci di sera ma non sempre
dormiva, soffriva di insonnia in maniera angosciosa.” Così descrisse questo uomo inquieto – inquieto
fino alla fine – Lietta Tornabuoni (15) il giorno dopo la sua morte, avvenuta
il 30 luglio del 2007, pochi giorni dopo che il regista aveva compiuto 89 anni.
Nel 1995 era morta la sua ultima
amatissima moglie, Ingrid Von Rosen, di dodici anni più giovane di lui. Bergman ne fu sconvolto. Tornarono i fantasmi della depressione, di
cui non si era mai del tutto liberato, e che vent’anni prima, nel 1977 –
all’indomani di uno scandalo fiscale nel quale era stato coinvolto – lo avevano
portato al ricovero per tre mesi in un istituto psichiatrico di Stoccolma. Del resto, come ha scritto Goffredo Fofi,
Bergman, epigono del cinema ‘religioso’, preoccupato di interrogarsi sulle
inquietudini esistenziali dell’uomo e sul suo bisogno di trascendenza, pagò lo scotto
dell’assiduità con queste inquietudini a un caro prezzo personale. (16)
Ma ancora una volta, il cinema – la sua
arte – gli venne in soccorso. Tornò ancora una volta dietro la macchina da
presa, e in Verità e affanni ambientò la sua ultima storia per il cinema,
proprio in un ospedale psichiatrico.
L’arte come sublimazione di inquietudini
e aspirazioni spirituali trovò dunque probabilmente in Ingmar Bergman - il suo
migliore interprete.
Ed è probabile, che alla fine della sua
vita, una serenità consapevole lo abbia accolto.
"La morte lo ha raggiunto serenamente” ha
detto la figlia Eva, annunciando al mondo la scomparsa del padre. Il marito di
Eva, lo scrittore Henning Mankell ha riferito in quella occasione le parole di
Bergman nel suo ultimo colloquio con il suocero: “Ho 89 anni, e vorrei tanto
festeggiare i 90 con la famiglia. Ma tutti i miei amici se ne sono già andati,
e così sono pronto…”
Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata.
11. Luigi Bini, Ingmar Bergman, Op. cit. p.41
12. Giacinto Ciaccio, Il silenzio, Rivista del Cinematografo, n.5 1964, pag. 219 e ss.
13.
Ingmar Bergman, La lanterna magica,
op.cit. pag. 252.
14.
La citazione è riportata da Lietta Tornabuoni, in La cinepresa nell’anima, La Stampa , 31 luglio 2007.
15. Lietta Tornabuoni, art. cit.
16. Goffredo Fofi nell’articolo in questione
– La crisi della modernità riletta attraverso le pagine di Kierkagaard,
Avvenire, 21 luglio 2007 - aggiunge: “Ma
anche se molti suoi film possono sembrarci meno riusciti di altri, quale
coerenza e quale così evidente e così commovente sincerità in questa ricerca !”
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