Peter Handke
Sembra quasi un controsenso, che una parola come questa possa far parte del lessicodei poeti, anime per definizione inquiete, sempre tese verso l’indicibile.
Eppure ci sono tanti modi di intendere la stanchezza, un sentimento con il
quale si ha molto a che fare nella vita di tutti i giorni. Uno dei modi
possibili è quello descritto da Peter Handke, nel bellissimo Saggio sulla
stanchezza ( Garzanti, 1991 ).
Qui lo scrittore austriaco racconta di cosa
gli accadde dopo un interminabile e scomodo viaggio dall’Alaska a New York.
Giunto in albergo, dopo una notte insonne, e pieno solo di stanchezza, rinunciò
a coricarsi. Scese in strada, soltanto
per assistere alla solita confusione di passanti e traffico che si svolgeva di
fronte ai suoi occhi di fronte ai cancelli del Central Park.
E qui, ecco il
miracolo, ecco la sorpresa: l’angoscia si trasforma in pura stanchezza, la
stanchezza in bellezza. Fino a sera inoltrata – scrive Handke – non
feci più altro se non stare seduto e guardare; era come se intanto non avessi
neanche bisogno di respirare. Dalla stanchezza venne tolto come per miracolo
l’Io solipsistico, eterna causa di irrequietezza: niente altro più che occhi
liberati.
Una
stanchezza come risanamento, dunque, come riconciliazione con se stessi. Come
accettazione di un destino umano, in fondo. Contro la stanchezza, infatti, solitamente
non facciamo altro che combattere, rifiutandola, cercando disperatamente qualcosa che ci occupi, che ci distragga.
Questa
stessa stanchezza, contemplativa e sublime, si ritrova spesso nei versi dei
poeti. Luciano Erba, milanese, ha scritto nella raccolta L’ippopotamo (Einaudi,
1989 ) diverse poesie nelle quali riecheggia questo mood. Lo stesso
animale, l’ippopotamo, è quanto di più perfettamente rispondente all’immagine
della stanchezza, eternamente immerso nei suoi bagni di fango.
E’ un
giorno di bianchi pennacchi
di fumo stampato sul cielo
da un vento che porta
la neve
e arrossa le mani dei preti
è un prato un po’ fuori città
tra cose
in uso e in disuso
tra case senza balconi
e un margine di ferrovia
vi
asciugano molte lenzuola
con panni di vari colori
dal viola a lievissimi
rosa
vi corre accanto il mio treno
annoto: bucato sui fili
più altri
segnali femminili.
E’ la
poesia intitolata Viaggiatori, e tutto il dolce mistero è in quella
parola al penultimo verso: annoto.
La stanchezza del vivere non permette
di fare altro: annotare. Ma è già molto.
Significa sottrarre le cose, gli
eventi, anche quelli apparentemente insignificanti, all’oblio. E questo rende
consapevoli, rende felici.
Qui le altre voci del Lessico dei Poeti:
Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata.
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