Un breve libro intenso, a metà tra saggio e diario, racconta il mese trascorso a Siena da Hisham Matar, nato nel 1970 a New York da genitori libici, vissuto a Tripoli e poi al Cairo e ora residente a Londra.
Per Einaudi, Matar ha pubblicato Nessuno al mondo (2006), tradotto in ventinove lingue e finalista al Man Booker Prize, Anatomia di una scomparsa (2011), Il ritorno (2017 e 2018), vincitore del Premio Pulitzer 2017 per l'Autobiografia e del Rathbones Folio Prize 2017, e Un punto di approdo (2020).
Il primo folgorante incontro di Hisham Matar con la pittura della Scuola senese risale ai suoi giorni da studente a Londra, poco dopo che il padre era sparito nelle prigioni di Gheddafi senza piú fare ritorno.
Venticinque anni piú tardi, in cerca di rigenerazione e quiete, Matar parte infine per la città che di quella tradizione artistica fu la culla. Il suo viaggio a Siena dura trenta giorni, durante i quali le visite quotidiane alle opere di Duccio di Buoninsegna, Simone Martini, Ambrogio Lorenzetti e gli altri si alternano a lunghe passeggiate senza meta. I vicoli e le piazze della città sono membra di un «organismo vivente» dove un incontro fortuito scatena un ricordo, un’architettura rimanda a un dipinto, nel tracimare continuo di un’esperienza nell’altra che restituisce una visione, compiuta e commovente, del rapporto fra l’arte e la condizione umana.
Alla National Gallery di Londra, nel 1990, pochi mesi dopo che suo padre Jaballa è stato sequestrato dalla polizia segreta libica e fatto sparire per sempre, un Hisham Matar diciannovenne si avvicina per la prima volta all’arte pittorica senese del tredicesimo, quattordicesimo e quindicesimo secolo, e ne rimane affascinato.
È la promessa di un incontro che dovrà attendere a lungo. Solo un quarto di secolo piú tardi, estenuato dalla stesura del memoir Il ritorno, che della sua tragedia familiare e collettiva racconta, e bisognoso del potere lenitivo dell’arte sulle anime tormentate, Matar decide di presentarsi all’appuntamento preso tanto tempo prima con quella tradizione pittorica, e di partire alla volta di Siena.
Qui per un mese intero guarda, cammina, interroga, intesse relazioni. Con i dipinti innanzitutto – la Madonna dei francescani di Duccio di Buoninsegna, espressione di una prospettiva tutta umana; gli affreschi del Buono e del Cattivo Governo di Ambrogio Lorenzetti, densi di impegno civile; il Paradiso di Giovanni di Paolo, e la sua sublime promessa di ricongiungimenti amorosi – e poi con le architetture e gli spazi della città, con le sue persone, la sua lingua e la sua storia.
Su tutto Matar posa uno sguardo intimo e teso che fa di questa fervida flânerie un incessante incontro con l’altro – tela, scorcio o individuo che sia -, capace di stimolare i sensi e proliferare in altri incontri e storie e riflessioni.
Piazza del Campo è lo straordinario «gheriglio» che tutto vede e da cui tutto si vede, a ricordarci l’impossibilità di esistere da soli.
Nello sguardo del Davide con la testa di Golia di Caravaggio vi è lo stesso inesaudibile desiderio di vedere con gli occhi dell’altro che accomuna acerrimi nemici e vecchi amanti.
L’ombra della Peste Nera del 1348 si proietta sulla cappella del Palazzo Pubblico di Siena come sulla Damasco di Ibn Battuta. Ed è dallo sconosciuto Adam e dalla sua ospitale famiglia giordana che Matar apprende l’esatto funzionamento delle contrade nel Palio. Tela, scorcio e individuo sono cose ugualmente vive e comunicanti, nel viaggio di Hisham Matar, che proprio dalla «convinzione che quanto ci accomuna sia piú di quanto ci separa» trae un conquistato sentimento di speranza.
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