Goffredo
Parise era giunto a Roma i primi giorni di marzo del 1960. All’amico Comisso
una settimana prima aveva scritto: Tra
una settimana parto per Roma dove resterò quasi stabilmente data
l’impossibilità per me di stare ancora a Milano. Le ragioni sono molte (…) Mi
annoio atrocemente, e non della dolce noia del Veneto (…) ma di una noia acre e
inutile, impiegatizia e tramviaria, da grandi magazzini asettici. Insomma mi
sento come un aquilone sotto la pioggia (…) basta con questo libeccio che
soffoca i voli. (23)
E’
la noia la grande nemica che già pedina questo trentenne inquieto, venuto dalla
provincia veneta. Eppure Milano è la città che ha regalato a lui, figlio di una
ragazza madre, amicizie importanti, un
lavoro di prestigio (lavora alla Garzanti) e il grandissimo successo a soli 25
anni con Il prete bello.
Parise
però ha bisogno di altro. E sembra trovarlo: nel Corriere della Sera, in un
articolo del ’72 ricorda: Quando a
trent’anni sono sceso a Roma, è stata la liberazione. Ho incontrato l’Italia. E a Comisso scrive: Freneticamente vivo ciò che avevo voglia di vivere e che Milano mi
aveva soffocato, ossia la mia fantasia… Vivo insomma intensamente ancora i
giovani anni che mi restano, nel modo che mi è congeniale, nell’estro e nel
disordine dell’avidità, nel sogno e nell’avventura…
In
effetti a Roma Parise trova una ben calda accoglienza: Montale, Piovene,
Moravia diventano amici, nel 1964 va a vivere in Via della Camilluccia, vicino
di casa a Gadda, comincia a scrivere per il cinema e firma sceneggiature per
Bolognini, Fellini, Tonino Cervi.
Conosce anche Marco Ferreri, e si innamora artisticamente del suo folle genio creativo. Scrive per lui il
copione de L’ape regina, uno dei più
censurati e controversi della filmografia di Ferreri.
Finché
l’irrequietezza non lo ferma, spingendolo a mettersi in viaggio per i famosi
reportage da mezzo mondo, è Roma la casa di Parise. Prima di far ritorno nel
Veneto, dove compra una casa a Salgareda, un piccolo borgo sul Piave, nei primi
anni ’70.
Roma
resta comunque per lo scrittore Parise, sempre un punto di riferimento. Il
punto di ritorno dai suoi viaggi, l’approdo solare e d’ombra, il luogo della
eterna fantasia, del sogno che si rinnova.
E
quando tra il 1971 e il 1981 pubblica i suoi Sillabari, Parise scrive un racconto proprio su Roma, uno degli
ultimi, lasciando incompiuta la sua opera, com’è noto, alla lettera S.
Dodici anni fa giurai a me
stesso, preso dalla mano della poesia, di scrivere tanti racconti sui
sentimenti umani, così labili, partendo dalla A e arrivando alla Z, scrive nella celebre Avvertenza al testo del gennaio 1982, Ma alla lettera S, nonostante i programmi,
la poesia mi ha abbandonato. E a questa lettera ho dovuto fermarmi. La poesia
va e viene, vive e muore quando vuole lei, non quando vogliamo noi e non ha
discendenti. Mi dispiace ma è così. Un poco come la vita, soprattutto come
l’amore. (24)
La
prima cosa che scopriamo allora è che per Parise Roma è un sentimento. Come Amicizia, Dolcezza, Fame, Ozio, Povertà o
Simpatia, che sono altri titoli del Sillabario.
Il
racconto – uno dei più misteriosi del libro – inizia in modo bruciante con un
viaggiatore, un uomo che si sentiva
straniero senza però esserlo, che una
domenica d’inverno, al crepuscolo, arriva con un rapido, dal nord, alla
stazione di Roma. (25)
Già
dai finestrini la città gli appare col suo inconfondibile aspetto, le enormi case innestate sui colli rognosi di
rifiuti e untume e le pietre
dell’Arco di Porta Maggiore da cui sorgono ciuffi d’erba e alberelli.
Il
viaggiatore, appena sceso dal treno, riconosce anzi, sente, la mortale presenza dei secoli e della
storia, come sempre quando arriva.
La
città delle rovine dunque lo accoglie con un canto di morte. Il cielo però,
color violetta e la luce limpida della tramontana, colorano subito la scena di
presenze vive: donne africane vestite di bianco, soldati, uomini delle più
diverse razze che si muovono nel crepuscolo, il colore delle cose che varia
sempre più verso l’ombra.
L’uomo
sale su un taxi ed attraversa la città stranamente deserta, senza traffico, come non l’aveva vista mai.
Giunto
a casa, entra e lascia la borsa ma subito esce di nuovo spinto dalla luce. Prende a passeggiare sul lungotevere, viene
avvicinato da un giovane africano – con
occhi dalla cornea bianchissima -
che vuole vendergli una coperta. Ed è curiosa questa Roma che sembra già
popolata solo di stranieri, di africani in particolare. Molto tempo prima del
dovuto, Parise già è così che la vede.
L’uomo
prosegue a piedi fino al Circo Massimo, mentre non pare sera a causa della luce. E’ un crepuscolo di quelli che regala a Roma,
che sembra non trascolorare mai definitivamente nell’ombra, che permane a lungo
in una condizione di incertezza sospesa, tra ombra e luce.
Al
Circo Massimo, l’uomo si imbatte in un travestito – anche questo di colore –
che con una parrucca bionda in testa sbuca fuori da un cespuglio muovendosi con gesti di danza e aprendo e chiudendo
la grande bocca rossa.
Giunto
alla Passeggiata Archeologica e poi alle Terme di Caracalla il viaggiatore si
sente in uno stato d’animo molto strano,
sentendosi ancora più straniero di quanto
lo fosse in modo leggero e trepidante, camminando molto piano, attratto dal
terreno intorno ai muri e alle rovine. Si sente anche dentro una specie di
narcosi, mentre la luce viola è ancora nel cielo e spunta una prima stella al
di là delle mura romane.
Prende
a rovistare tra i ciuffi di erba polverosa, i kleenex, i rifiuti, le bottiglie
di birra, dai quali affiorano frammenti di pietra bianchissima, quasi porosa,
certamente molto antica.
Ed
è qui che accade qualcosa di veramente inaspettato e terribile.
Il
racconto, che era proseguito fin qui in una sorta di allucinato resoconto di
quieta e inquieta contemplazione, prende una piega completamente diversa: il
viaggiatore si ritrova all’imboccatura di un anfratto, proprio tra quelle
antiche mura. Sulle prime pensa alla
nicchia di guardia delle Terme. E pronuncia tra sé il nome tepidarium ricavandone un senso di totale rilassatezza. Ma ecco che
dopo essersi acceso una sigaretta, scorge una figura muoversi nella luce viola.
E’ una donna molto grassa e anziana, accucciata e con le calze arrotolate.
Vicino a lei c’è un giovane etiope, alto con gran capelli crespi, molto simile
al venditore di coperte incontrato poco prima sul Lungotevere.
E
prima che l’uomo se ne renda conto, ancora avvolto
dalla passività della luce viola nel cielo notturno, viene colpito da un
fendente di coltello, sferrato dall’etiope. Arrivano altri colpi, nel ventre,
nel petto, nel collo e l’uomo quasi senza
sentire dolore, zampilla sangue a
fiotti abbondanti e regolari come in chiaro ma anche oscuro accordo con il
cuore.
E’
la frase con cui si chiude il racconto, e anch’essa sembra tagliente come una
rasoiata.
L’assurdità
della scena e di questa fine – cosa facevano i due nell’oscurità ? La donna con l’aria da portinaia romana e
l’etiope ? Un rapporto sessuale ? O un qualche diverso affare ? E perché l’etiope reagisce con tale violenza
? Per un semplice furto ? O perché l’uomo ha involontariamente scoperto – o sta
per scoprire – un segreto ? – è come un nero sipario che cala apparentemente
senza scopo, senza alcuna finalità.
Eppure
anche questa fine ha qualcosa di catartico. L’uomo muore quasi senza sentire dolore, il suo essere sembra come ingoiato dentro il teatro di quella città
notturna, dalla luce viola, dalle sue rovine. E nel ventre di una rovina egli
trova la fine, quella fine che forse è cercata, forse è auspicata, sembrando
quasi una liberazione: l’abbandono all’effimero destino, alla sua apparente
insensatezza.
Ma
la chiave (anche) di questa morte è nella sua innocenza.
Una parola decisiva per
Parise, che in quegli anni scrisse a proposito di com’era sorta in lui l’idea
di scrivere i Sillabari: Sentivo una grande necessità di parole semplici. Un giorno, nella piazza
sotto casa, su una panchina, vedo un bambino con un sillabario. Sbircio e
leggo:l’erba è verde.
Mi parve una
frase molto bella e poetica nella sua semplicità ma anche nella sua logica.
C’era la vita in quel "l’erba è verde", l’essenzialità della vita e
anche della poesia...
Gli uomini
d’oggi secondo me hanno più bisogno di sentimenti che di ideologie.
Ecco la ragione
intima del sillabario. (26)
Roma è dunque un sentimento, le rovine sono sentimento e anche la morte
è sentimento. Quella morte interiore che Parise ha attraversato così tante
volte nel corso della vita, rinascendo ogni volta dalle proprie rovine.
Le guerre che visitò come inviato, i posti più strani del mondo che
incontrò, non modificarono niente in lui, al punto di invidiare chi era
rimasto, a scrivere, fermo nella sua stanza.
Nel suo eremo di Ponte di Piave, dove si rinchiude per vivere gli
ultimi anni della sua vita, Parise trova forse un senso alla sua eterna
inquietudine. Non ci sono più rovine
intorno. Ma solo la melodia della natura, dei ruscelli e delle campane.
E in lui si incarna forse quella morte vagheggiata nel racconto scritto
per i Sillabari. Una morte soltanto
fisica, che è compimento di quanto fatto, e punto interrogativo per un altrove
sconosciuto. Nel racconto Famiglia,
nei Sillabari, aveva scritto quello che è sembrato il suo perfetto epitaffio:
...godette per un po' le "gioie della vita",
incontrò, vide e amò molti occhi, pelli, le calme e le intelligenze pratiche di
altre famiglie, poi cessò di godere le "gioie della vita" e di lui
non si ebbero più notizie se non per sentito dire.
23. Questa
citazione e quelle che seguono sono rese pubbliche dalla Casa di Cultura
Goffredo Parise, Ponte di Piave (TV).
24.
Goffredo Parise, Sillabari, Adelphi, Milano 2004.
25.
Tutte le citazioni sono tratte dal racconto Roma,
in G. Parise, Sillabari, Op.cit. pag.
327 e ss.
26. da Il Gazzettino, 31 ottobre 1972, in F. Sala,
“Il Sillabario dei sentimenti”
27. Famiglia, in Sillabari,
op. cit. p. 137.
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