Un saggio meraviglioso, pubblicato da Robert P. Harrison nel 1992 e divenuto in breve un classico, dove ecologia, letteratura, filosofia, antropologia e destino umano si fondono mirabilmente.
Riporto qui sotto la recensione/intervista di Enrico Regazzoni per Repubblica:
"L' ordine delle cose umane procedette: che prima furono le selve, dopo i tuguri, quindi i villaggi, appresso le città, finalmente l' accademie". E' Vico, con la sua Scienza nuova, a far da epigrafe al libro dello studioso americano Robert Pogue Harrison: quel Foreste che è appena apparso da Garzanti (pagg. 273) e che, con una tempestività perfino imbarazzante, fa coincidere il lavoro silenzioso della riflessione storica con gli echi assordanti della cronaca.
Mentre a Rio de Janeiro i politici promettono pietà per il patrimonio forestale, Foreste ci ricorda che quel patrimonio è anche e soprattutto culturale, che alle radici dei boschi è saldamente ancorato tutto il pensiero dell' Occidente, in un rapporto complesso, fitto di negazioni e riconoscimenti, ma certo così profondo da non poter essere impunemente violato.
Nato a Smirne trentott' anni fa, da padre americano e madre italiana (che ha fra l' altro una sede a Firenze), Harrison insegna letteratura italiana alla Stanford University e ha una vaga somiglianza fisica con Sam Shepard.
Fa una certa impressione dissertare con lui delle zone d' ombra che le foreste hanno creato e protetto nel nostro immaginario: non foss' altro perché i docenti anglosassoni ci hanno abituato a una saggistica più attenta alle risposte che alle domande.
Mentre lui - mal celando trascorsi heideggeriani - si è aperto fra i rovi un percorso tutto suo, in un viaggio imperfetto, appassionato, solitario.
Un viaggio iniziato per caso, sette anni fa, quando le foreste in rovina erano ben lontane dai nostri incubi e dalle prime pagine dei giornali.
"Tutto è accaduto in modo involontario", spiega con modestia. "Volevo approfondire il ruolo del bosco nella letteratura medievale, e lentamente ho scoperto questo ruolo nella letteratura d' ogni tempo. E mi sono stupito che nessuno, prima di me, se ne fosse occupato".
Come mai ha scelto Vico per nume tutelare? In fondo Vico guarda alle foreste come qualcosa in cui occorre aprirsi un varco, per potersi insediare e piantare l' albero genealogico.
"Certo, ma proprio per questo Vico mi ha fornito l' idea di un rapporto antagonistico, e non di beneficenza fra l' uomo e la foresta. E poi La scienza nuova è un trattato che si avventura nell' immaginario più primitivo dell' Occidente e cerca di trovare le origini metaforiche del pensiero e della conoscenza poetica. Da qui, ho pensato di fare una storia poetica e non empirica del nostro immaginario".
Ecco, partiamo dalla parola "primitivo". Il libro esordisce con l' affermazione che la foresta è "prima" di tutto.
"E' vero, e lo è in senso letterale. Il mondo occidentale è all'origine fitto di boschi, e ogni insediamento umano nasce da un disboscamento. I limiti dell' insediamento restano però affidati al bosco, che circonda la civiltà e le conferisce topograficamente il ruolo di centro".
Lei scrive che questo confine fra città e foresta viene perfettamente sceneggiato dalla tragedia classica. In che senso?
"Prima del cristianesimo, e quindi del monoteismo, la tragedia è uno scontro fra diverse leggi, ciascuna con una sua legittimità. Non è il male contro il bene: la natura ha una sua legge, del tutto legittima, e la città ne ha un' altra, altrettanto legittima. Nella mia lettura Dioniso, che è il dio della foresta, esce dal bosco per imporre alla città la legge più antica, che è la sua. E la legge più antica prevale su quella più recente".
Con la latinità questo antagonismo sembra placarsi. Le Metamorfosi di Ovidio teorizzano un' osmosi fra legge umana e legge naturale, un processo di trasformazione che le accomuna.
"In Ovidio c' è un materialismo che livella la natura delle cose. Ma io mi domando se ciò non nasconda anche la nostalgia per una natura già perduta. In Virgilio, senz' altro, c' è il rimpianto per una civiltà agricola che è stata spazzata via dalla città. Ma anche nella latinità, l' idea di foresta resta almeno doppia. Romolo, il fondatore della città, è una creatura boschiva per eccellenza. Allattato da una lupa, fa nascere Roma in una radura e i primi romani li chiama "i rifugiati della foresta. Chi decide di diventare romano deve insediarsi nella radura e accettare il confine della foresta, oltre il quale è la res nullius. Quindi la foresta è un' origine continuamente fuggita e ritrovata, in un rapporto molto ambiguo".
Questo rapporto diventerà più chiaro nell' età medievale.
"Ma la doppiezza resterà. Allegoricamente, la foresta medievale è la selva oscura di Dante, il luogo del peccato, dell' alienazione da Dio. Ma proprio Dante, alla fine del suo viaggio, si ritroverà in un giardino terrestre, la selva antica che è la stessa selva di prima, ma più umanizzata, liberata dagli animali selvaggi. Prima di Dante, nei romanzi cavallereschi la foresta è invece il luogo dello sconosciuto, del pericolo: il cavaliere deve affrontarla per liberare la città dalla minaccia".
Ma Robin Hood vive nella foresta...
"E infatti è un fuorilegge, anche se rappresenta una legge più vera di quella di corte. Con lui, avviene un capovolgimento dei punti di vista che trasforma la foresta nel luogo del comico, dell' ironia. Ma i racconti di Robin Hood hanno comunque un lieto fine, in cui il fuorilegge è perdonato e riaccolto nella città".
E Boccaccio? C' è una foresta boccaccesca?
"Certo. Da par suo, Boccaccio vedrà nella foresta il regno del desiderio, il luogo dove tutto può venir sottratto senza tener conto della volontà del soggetto. Nella terza novella della quinta giornata del Decamerone, ci sono due ragazzi che vogliono sposarsi, Pietro e Agnolella. Spinti dal desiderio, fuggono nel bosco. Entrano vergini nella foresta, e quando ne escono non lo sono più, pur non avendo fatto l' amore".
E quand' è che il bosco diventa l' albergo della follia?
"Fin dall' inizio. Fin da Gilgamesh, se vogliamo, che è la più antica opera letteraria della storia. Ma soprattutto con l' Ivano di Chrétien de Troyes, con l' Orlando... La foresta come luogo di follia è un tema tipicamente medievale: nel bosco la mente è buia, non raggiunta dalla luce divina. Per Descartes sarà qualcosa di analogo, la foresta come fuga dalla ragione, come ambito supremo della confusione dove il metodo non può aver presa".
Cerchiamo di riassumere. Ci sono come due strade del pensiero: una si fonda sull' antagonismo, l' altra sulla nostalgia. La prima collega Socrate a Descartes, la seconda Virgilio a...
"A Shakespeare, ai romantici. Di Shakespeare è la prima domanda ecologica della storia. ' Chi può costringer la foresta a prestar servizio come soldato arruolato?' , si chiede Macbeth, il nemico della legge naturale. La foresta che muove contro Macbeth è la vendetta della natura. Shakespeare ci avvisa che se distruggiamo la natura compiamo un' autodistruzione".
"Sì, ma in un modo molto diverso. Nell' ottica illuministica, la foresta va sfruttata responsabilmente, per avere risorse di legno. Non c' è affatto il concetto di luogo, di habitat di specie diverse. L' unico rimpianto illuminista, assai cartesiano, è quello della perdita di un metodo di gestione della foresta".
E il rimpianto romantico, invece?
"Rousseau, che sogna la selva benevolente del selvaggio. Wordsworth, per cui la foresta è il luogo dell' eterna infanzia. Leopardi, che vede nel bosco il regno della memoria, che sola può salvare il presente".
Ma insomma: la nostalgia, cioè il passato, è a favore della foresta. La ragione, e cioè il futuro, le è contro. Possibile che sia tutto così schematico?
"Altro che! Ha visto il manifesto che 250 scienziati hanno presentato a Rio, sostenendo il diritto dell' uomo di imporsi sulla natura, e in pratica affermando che l' ecologia va bene finché non ostacola il progresso? La frattura permane: umanesimo progressivo da un lato, nostalgia romantica dall' altro".
E noi arruoliamo altri nostalgici! Lei cita Baudelaire, i frateli Grimm... Poi c' è il caso Conrad, un caso un po' a sé.
"Sì, perché Conrad ha vissuto la conquista delle terre nelle colonie, ha visto la distruzione. Però, pur avendo compreso le debolezze della razza bianca, non arriva a discuterne il primato ideologico. La foresta diventa per lui l' immagine della colpa, e anche la metafora di quanto c' è di selvaggio nelle metropoli civili".
Per contro, nella schiera dei razionalisti, lei precetta Sartre.
"E' inevitabile. Roquentin, il protagonista della Nausea, impietrisce di fronte a un albero di castagno. Il mondo vegetale gli appare come un incubo, l' aggressione a quegli spazi cittadini che sono l' ultimo rifugio dell' umanesimo".
Fra i due poli, a un certo punto del suo libro, sembra che foresta e futuro trovino una mediazione. Non letteraria ma d' architettura, grazie a Frank Lloyd Wright.
"Già. A mio avviso, Wright cercò di inserire l' uomo nell' ambiente senza la violenza dell' architettura del modernismo. Il suo fu un tentativo di mediazione violenza dell' architettura del modernismo. Il suo fu un tentativo di mediazione fra progresso umano e mondo naturale. Un tentativo concreto, non poetico. E io cito la sua Casa sulla cascata proprio per segnalare che non ci sono solo i rimpianti e la nostalgia: che è possibile, insomma, abitare con la natura, non contro la natura".
Il libro si chiude con il suo incontro con Andrea Zanzotto. In Veneto, dalla sua casa, il poeta continua a far visita al bosco, quasi per testimoniare all' uomo che c' è ancora un confine, e quindi ancora un centro.
"Sì, ma il bosco del Montello, la selva antica di Zanzotto, è sempre più minacciato dal cemento. Di fatto, se vincerà il filone storico dell' Illuminismo, che rifiuta ogni limite al progresso, anche il centro andrà perduto, e con esso la nostra identità". Ma questo, confusamente, la gente ormai l' avverte. Capisce che la perdita di questo "al di fuori" - che poi è l' etimo della parola "foresta" - potrebbe cambiare la vita di tutti. "Il nodo dell' intera questione è, a mio avviso, l' idea della morte. Non accettare confini significa in fondo non accettare la morte e cercare di rimuoverla. L' ecologia è per me anche un richiamo alla nozione della nostra finitezza e quindi della nostra morte. Zanzotto, con la sua poesia, ci richiama a questa consapevolezza, cercando di tener viva la memoria culturale. La memoria è negli oggetti, non nella psiche. Proust, per ricordare, ha bisogno fisicamente di un dolce, di una madeleine. La nostra memoria più profonda è nella foresta: chiunque vi entri, anche se non vi è mai stato, si imbatte nella memoria collettiva. La scomparsa della foresta è la scomparsa della memoria. Perciò Zanzotto entra nella sua selva antica come se entrasse nel fondo del pensiero...".
Sta per dirmi che i poeti possono salvare il mondo?
"Il mondo no, ma il nostro rapporto col mondo sì. Nella parola poetica viene preservato ciò che stiamo distruggendo. Forse in un' altra epoca - quando sarà finito questo nichilismo - la parola poetica servirà a ricostruire. Purché sia rimasta viva qualche foresta".
è totalmente introvabile al momento purtroppo. Lei sa per caso come aiutarmi? :)
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