Ci manca.
Manca il grande genio nevrotico di Federico Fellini. Sentiamo la sua mancanza ogni giorno di più, perché solo attraverso quell'occhio forse avremmo potuto oggi decifrare, accendere una luce su giorni sempre più caotici, insensati, grotteschi.
Ho il sospetto che in fondo Fellini si sia sentito sempre un alieno rispetto al tempo che viveva. Era come se provenisse da un altro mondo. La sua anima si elevava probabilmente su strati diversi, lontana dalle apparenze, anche se le apparenze degli altri, le manie, i tic, le deformazioni, le deformità, erano quelle che più affascinavano il suo cinema.
Si sentiva un alieno perché - pur essendo pienamente epigono della italianità (un concetto ambiguo e temporalmente breve visto che l'Italia esiste solo da un secolo e mezzo) - era estraneo alle masse, come recitava uno slogan di qualche tempo fa.
Anche se - ennesima contraddizione - delle masse egli seppe perfino diventare il cantore.
Si sentiva un alieno perché era sostanzialmente un nevrotico, tendenzialmente depressivo. Gli giovò l'analisi (junghiana), gli giovarono le escursioni nel folle e nel magico (come le visite da Rol), gli giovò la contiguità con il senso cattolico dell'esistenza, di cui seppe essere - estrema contraddizione - il massimo dissacratore, come nella celebre scena della sfilata degli abiti talari.
Fu tutto sommato sempre un sofferente (e massimo gaudente), fragile e potentissimo dal punto di vista psicologico. Sofferente perché disadattato alla realtà che viveva e che non riusciva ad accettare per colmo di volgarità (il vero tarlo che lo uccideva e che riusciva ad esorcizzare pienamente solo traducendolo in paradigma).
Sofferente perché estraneo in un mondo sbagliato che lo affascinava oltre ogni misura e che gli incuteva timore.
Sofferente al punto che aveva bisogno di ricrearlo, il mondo, nel chiuso confortevole dello Studio 5 di Cinecittà.
Soltanto tra quelle mura si sentiva padrone del gioco, si sentiva libero, in grado di trasformare e sublimare la sua nevrosi in arte creativa.
Ricreato il mondo, lui era finalmente libero di rovesciarne i lati angosciosi in gioco, le ossessioni in girandole, la morale in sentimento nostalgico.
Nostalgia di quello che non esiste e non può esistere, di ciò che è libero e non è prigioniero degli incardinati meccanismi della prosa.
Nella vita si sentiva spesso vittima - di se stesso, degli eventi, della fortuna, delle relazioni - nell'arte era libero e vittorioso perché libero di poter fallire.
Il Genio in fondo è questo. Libertà dall'essere e dal dover essere. Libertà di essere (tutto) per se stessi e quindi per il mondo e nel mondo.
Fabrizio Falconi
(riproduzione riservata).
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