Il Palazzo Doria, uno dei più magnifici di Roma, sorge con la sua elegante facciata rococò sul lato sinistro di Via del Corso, subito prima di arrivare in Piazza Venezia. Fu edificato nel 1400 dai cardinali ospitati nella vicina diaconia di Santa Maria in Via Lata, e acquistato successivamente (e ampliato) dai Della Rovere, dagli Aldobrandini e infine dai Pamphilj che si estinsero nei Doria.
All’interno, il sontuoso cortile cinquecentesco permette di accedere alla Galleria Doria-Pamphilj una delle più importanti raccolte di quadri di Roma (e anche d’Italia e d’Europa) dove tra le celebri opere di Tintoretto, Correggio, Raffaello, Lotto, Tiziano, Caravaggio e moltissimi altri è possibile ammirare nella seconda sala del Gabinetto ottagonale, il ritratto di Innocenzo X Pamphilj realizzato da Diego Velàzquez, l’opera più insigne del maestro esistente in Italia.
Dipinto che ha una storia particolare.
Diego Velàzquez, oltre che essere un incredibile artista, pittore di camera del sovrano di Spagna, Filippo IV svolgeva anche mansioni diplomatiche, rivestendo anche la carica di cavaliere dell’Ordine di San Giacomo.
Nel 1649, Velàzquez arrivò a Roma, per incarico del suo sovrano: aveva accettato di buon grado l’incarico, bramoso di confrontarsi con le bellezze classiche della città eterna e di trovarne ispirazione per la sua opera.
Una presenza così importante non sfuggì ai più stretti collaboratori del Papa, che gli consigliarono di farsi ritrarre.
Innocenzo X però, che aveva un carattere piuttosto aspro, rispose che non conosceva la maestria di quel pittore.
Velàzquez, allora, si cimentò con il ritratto di uno dei suoi, uno spagnolo di nome Juan de Pareja, che era discendente dei mori (il celebre ritratto è oggi conservato al Metropolitan Museum di New York che se lo aggiudicò nel 1997 nel corso di un’asta da Christie’s a Londra per la cifra stratosferica di cinque milioni e mezzo di dollari) e quest’opera impressionò talmente Innocenzo da convincerlo a posare per il grande artista.
Quando vide il dipinto finito, il Papa rimase ammirato e allo stesso tempo turbato: non soltanto vi riconosceva infatti i suoi tratti fisici, ma anche tutte le ombre del suo carattere.
Le cronache dell’epoca riferiscono che commentò, osservandolo: “Troppo vero!”
Innocenzo – che all’anagrafe si chiamava Giovanni Battista Pamphilj – si sentì messo a nudo quasi come Velàzquez, con qualche strana dote magica, fosse riuscito a carpire i segreti della sua anima.
Ubbie e gelosie, tormenti e brame derivavano a quel Papa anche a causa della discussa amicizia con quella che fu definita la donna più potente di Roma, Donna Olimpia Maldaichini. Il popolo dell’Urbe la chiamava la Pimpaccia, mutuando il soprannome che alla temuta dama aveva affibbiato l’irriverente Pasquino ( e che derivava dal geniale gioco di parole: «Olim pia, nunc impia», ovvero, una volta religiosa, adesso peccatrice). Nata a Viterbo nel 1592 da una famiglia modesta, Olimpia Maidalchini era riuscita a farsi sposare in seconde nozze da Pamphilio Pamphilj, fratello di quel cardinale, Giovanni Battista, che pochi anni dopo sarebbe diventato papa con il nome di Innocenzo X. La cognata divenne dunque con il passare degli anni, una consigliera molto influente del papa, e in poco tempo così ricca che alla morte lasciò l’incredibile somma di due milioni di scudi d’oro.
I Pamphilj, originari di Gubbio, dal 1470 avevano scalato i vertici del potere nobiliare romano dopo che un antenato della famiglia, Antonio aveva comperato un palazzo vicino Piazza Navona, primo nucleo del futuro grandioso Palazzo Pamphilj.
La scalata al potere della famiglia si consolidò nei due secoli successivi, grazie a una serie di matrimoni fortunati e al trionfo definitivo che si concretizzò proprio con l’elezione al soglio pontificio di Innocenzo X. Giovanni Battista Pamphilij era un uomo severo, che aveva a cuore la sorte dei diseredati e la gloria di Roma, che prima di lui aveva dovuto subire ingenti operazioni di spoglio anche da parte dei suoi predecessori (in particolare da Urbano VIII Barberini).
Avvalendosi dei più grandi architetti e artisti dell’epoca, in primis Bernini e Borromini, Innocenzo cambiò il volto alla città e per far questo dovette tessere relazioni diplomatiche con le più potenti famiglie e confraternite, missione alla quale si dedicò infaticabilmente proprio Olimpia Dopo la morte di Pamphilio, il fratello del futuro papa, che aveva sposato in seconde nozze e che era più vecchio di lei di trent’anni, Olimpia si era ritrovata nel 1639 libera da impegni coniugali: Il sodalizio che si generò con il cognato alimentò dicerie e veleni di ogni tipo, specie dopo l’elezione di Giovanni Battista a Papa.
Si cominciò a diffondere la maldicenza che i due fossero o fossero stati amanti, e che fosse stata la stessa Olimpia ad avvelenare nel sonno il marito. Fatto sta che non v’era praticamente affare importante che a Roma potesse essere deciso senza aver prima consultato Olimpia, divenuta una sorta di papessa. Al figlio della nobildonna, Camillo, fu inoltre concesso l’onore di diventare dapprima capo della flotta e delle forze dell’Ordine della Chiesa, e poi di divenire a sua volta Cardinale, ricevendo la porpora nel concistoro del 1644 direttamente dalle mani dello zio paterno.
Oltre ai numerosi scandali faceva discutere la gestione del denaro, da parte di Olimpia, accusata di esigere laute prebende per ogni questione le fosse affidata, ivi comprese le commissioni degli artisti. Ma forse l’episodio più infamante è quello che riguarda la morte di Innocenzo X che fino a che fu in vita protesse e preservò la cognata dalle vendette e dalle invidie di corte, e anche dalle maldicenze del popolo.
Innocenzo morì il 7 gennaio 1655, all’età di ottantuno anni. Pare che, quando il cadavere del pontefice era ancora caldo, Olimpia non si fece problemi a sottrarre, da sotto al suo letto, due casse piene d’oro, e al contempo, professandosi come ‘una povera vedova’ si rifiutò di pagare una degna cassa da morto. L’ingrata cognata non volle saper nulla né di esequie né di sepoltura o dei convenzionali, lussuosi abiti da lutto che si imponevano al pontefice morto: con il risultato che la salma di Innocenzo fu abbandonata per tre giorni in una segreta del Vaticano, dove venne vegliata da tre operai i quali si incaricarono quanto meno di proteggere il cadavere dall’insidia dei topi (una sorte che ricorda da vicino quella di papa Borgia, Alessandro VI).
Sembra incredibile, ma anche la poverissima bara e le esequie furono poi pagate da due generosi maggiordomi (uno dei quali fra l’altro era stato dal papa perfino malamente licenziato), nella indifferenza totale della cognata Olimpia.
L’onore dei Pamphilj fu salvato dal nipote Camillo che fece erigere un degno sepolcro, opera di Giovanni Battista Majno, nella Chiesa di Sant’Agnese in Agone, che è possibile ancora oggi visitare. In quanto a Olimpia, che sopravvisse di cinque anni il più celebre cognato, dopo la sua morte, per aver contratto la peste, a San Martino del Cimino, non valse l’incredibile somma lasciata in eredità – ben due milioni di scudi – a cancellarle la leggenda nera di dosso: si tramutò in uno dei più celebri fantasmi della storia di Roma, più volte avvistato in circostanze spaventose, sulla collina del Gianicolo, sul Ponte Garibaldi (dove sembra si presentasse a bordo di un cocchio infuocato) e nelle vie dell’odierno quartiere Monteverde dove un grande viale (di Donna Olimpia) porta ancora il suo nome.
Tratto da Fabrizio Falconi, Roma Segreta e Misteriosa, Newton Compton, Roma 2016
All’interno, il sontuoso cortile cinquecentesco permette di accedere alla Galleria Doria-Pamphilj una delle più importanti raccolte di quadri di Roma (e anche d’Italia e d’Europa) dove tra le celebri opere di Tintoretto, Correggio, Raffaello, Lotto, Tiziano, Caravaggio e moltissimi altri è possibile ammirare nella seconda sala del Gabinetto ottagonale, il ritratto di Innocenzo X Pamphilj realizzato da Diego Velàzquez, l’opera più insigne del maestro esistente in Italia.
Dipinto che ha una storia particolare.
Diego Velàzquez, oltre che essere un incredibile artista, pittore di camera del sovrano di Spagna, Filippo IV svolgeva anche mansioni diplomatiche, rivestendo anche la carica di cavaliere dell’Ordine di San Giacomo.
Nel 1649, Velàzquez arrivò a Roma, per incarico del suo sovrano: aveva accettato di buon grado l’incarico, bramoso di confrontarsi con le bellezze classiche della città eterna e di trovarne ispirazione per la sua opera.
Una presenza così importante non sfuggì ai più stretti collaboratori del Papa, che gli consigliarono di farsi ritrarre.
Innocenzo X però, che aveva un carattere piuttosto aspro, rispose che non conosceva la maestria di quel pittore.
Velàzquez, allora, si cimentò con il ritratto di uno dei suoi, uno spagnolo di nome Juan de Pareja, che era discendente dei mori (il celebre ritratto è oggi conservato al Metropolitan Museum di New York che se lo aggiudicò nel 1997 nel corso di un’asta da Christie’s a Londra per la cifra stratosferica di cinque milioni e mezzo di dollari) e quest’opera impressionò talmente Innocenzo da convincerlo a posare per il grande artista.
Quando vide il dipinto finito, il Papa rimase ammirato e allo stesso tempo turbato: non soltanto vi riconosceva infatti i suoi tratti fisici, ma anche tutte le ombre del suo carattere.
Le cronache dell’epoca riferiscono che commentò, osservandolo: “Troppo vero!”
Innocenzo – che all’anagrafe si chiamava Giovanni Battista Pamphilj – si sentì messo a nudo quasi come Velàzquez, con qualche strana dote magica, fosse riuscito a carpire i segreti della sua anima.
Ubbie e gelosie, tormenti e brame derivavano a quel Papa anche a causa della discussa amicizia con quella che fu definita la donna più potente di Roma, Donna Olimpia Maldaichini. Il popolo dell’Urbe la chiamava la Pimpaccia, mutuando il soprannome che alla temuta dama aveva affibbiato l’irriverente Pasquino ( e che derivava dal geniale gioco di parole: «Olim pia, nunc impia», ovvero, una volta religiosa, adesso peccatrice). Nata a Viterbo nel 1592 da una famiglia modesta, Olimpia Maidalchini era riuscita a farsi sposare in seconde nozze da Pamphilio Pamphilj, fratello di quel cardinale, Giovanni Battista, che pochi anni dopo sarebbe diventato papa con il nome di Innocenzo X. La cognata divenne dunque con il passare degli anni, una consigliera molto influente del papa, e in poco tempo così ricca che alla morte lasciò l’incredibile somma di due milioni di scudi d’oro.
I Pamphilj, originari di Gubbio, dal 1470 avevano scalato i vertici del potere nobiliare romano dopo che un antenato della famiglia, Antonio aveva comperato un palazzo vicino Piazza Navona, primo nucleo del futuro grandioso Palazzo Pamphilj.
La scalata al potere della famiglia si consolidò nei due secoli successivi, grazie a una serie di matrimoni fortunati e al trionfo definitivo che si concretizzò proprio con l’elezione al soglio pontificio di Innocenzo X. Giovanni Battista Pamphilij era un uomo severo, che aveva a cuore la sorte dei diseredati e la gloria di Roma, che prima di lui aveva dovuto subire ingenti operazioni di spoglio anche da parte dei suoi predecessori (in particolare da Urbano VIII Barberini).
Avvalendosi dei più grandi architetti e artisti dell’epoca, in primis Bernini e Borromini, Innocenzo cambiò il volto alla città e per far questo dovette tessere relazioni diplomatiche con le più potenti famiglie e confraternite, missione alla quale si dedicò infaticabilmente proprio Olimpia Dopo la morte di Pamphilio, il fratello del futuro papa, che aveva sposato in seconde nozze e che era più vecchio di lei di trent’anni, Olimpia si era ritrovata nel 1639 libera da impegni coniugali: Il sodalizio che si generò con il cognato alimentò dicerie e veleni di ogni tipo, specie dopo l’elezione di Giovanni Battista a Papa.
Si cominciò a diffondere la maldicenza che i due fossero o fossero stati amanti, e che fosse stata la stessa Olimpia ad avvelenare nel sonno il marito. Fatto sta che non v’era praticamente affare importante che a Roma potesse essere deciso senza aver prima consultato Olimpia, divenuta una sorta di papessa. Al figlio della nobildonna, Camillo, fu inoltre concesso l’onore di diventare dapprima capo della flotta e delle forze dell’Ordine della Chiesa, e poi di divenire a sua volta Cardinale, ricevendo la porpora nel concistoro del 1644 direttamente dalle mani dello zio paterno.
Oltre ai numerosi scandali faceva discutere la gestione del denaro, da parte di Olimpia, accusata di esigere laute prebende per ogni questione le fosse affidata, ivi comprese le commissioni degli artisti. Ma forse l’episodio più infamante è quello che riguarda la morte di Innocenzo X che fino a che fu in vita protesse e preservò la cognata dalle vendette e dalle invidie di corte, e anche dalle maldicenze del popolo.
Innocenzo morì il 7 gennaio 1655, all’età di ottantuno anni. Pare che, quando il cadavere del pontefice era ancora caldo, Olimpia non si fece problemi a sottrarre, da sotto al suo letto, due casse piene d’oro, e al contempo, professandosi come ‘una povera vedova’ si rifiutò di pagare una degna cassa da morto. L’ingrata cognata non volle saper nulla né di esequie né di sepoltura o dei convenzionali, lussuosi abiti da lutto che si imponevano al pontefice morto: con il risultato che la salma di Innocenzo fu abbandonata per tre giorni in una segreta del Vaticano, dove venne vegliata da tre operai i quali si incaricarono quanto meno di proteggere il cadavere dall’insidia dei topi (una sorte che ricorda da vicino quella di papa Borgia, Alessandro VI).
Sembra incredibile, ma anche la poverissima bara e le esequie furono poi pagate da due generosi maggiordomi (uno dei quali fra l’altro era stato dal papa perfino malamente licenziato), nella indifferenza totale della cognata Olimpia.
L’onore dei Pamphilj fu salvato dal nipote Camillo che fece erigere un degno sepolcro, opera di Giovanni Battista Majno, nella Chiesa di Sant’Agnese in Agone, che è possibile ancora oggi visitare. In quanto a Olimpia, che sopravvisse di cinque anni il più celebre cognato, dopo la sua morte, per aver contratto la peste, a San Martino del Cimino, non valse l’incredibile somma lasciata in eredità – ben due milioni di scudi – a cancellarle la leggenda nera di dosso: si tramutò in uno dei più celebri fantasmi della storia di Roma, più volte avvistato in circostanze spaventose, sulla collina del Gianicolo, sul Ponte Garibaldi (dove sembra si presentasse a bordo di un cocchio infuocato) e nelle vie dell’odierno quartiere Monteverde dove un grande viale (di Donna Olimpia) porta ancora il suo nome.
Tratto da Fabrizio Falconi, Roma Segreta e Misteriosa, Newton Compton, Roma 2016
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