(Dieci grandi anime) - Antonia Pozzi (2./)
E’ ben strana una ragazza di diciassette
anni che scrive già con questa intensità.
Una ragazza di diciassette anni capace perfino di offrirsi di dare un figlio al
professore, perché lo compensi del lutto inconsolabile del fratello – Annunzio
Cervi, poeta, caduto in guerra sul Monte Grappa, nel 1918 – e che ne porti lo stesso nome.
Si direbbe una smisurata capacità di amare. Che difatti resterà inadeguata, causa di
sofferenza, di mancanze sempre più
difficili da sopportare.
Sì, perché l’amore con il professore, Cervi,
non è di quelli destinati a trovare una soddisfazione terrestre: quando il
padre di Antonia scopre la tresca, dapprima ottiene il trasferimento del
professore a Roma, poi rifiuta la sua proposta di matrimonio, infine fa
allontanare la ragazza da Milano, nel luglio del 1932.
In questi anni di drammatica lacerazione,
vissuti con la sensibilità esasperata della giovinezza, Antonia elabora un
particolare percorso di maturità, a prezzo di un sacrificio che le appare
impossibile da scontare.
E’ la poesia a salvarla, a riempirla
veramente. Nella poesia trova l’unica completezza che le è possibile
sperimentare.
Il 29 gennaio del 1933 scrive a Tullio
Gadenz, un giovane amico poeta a cui invia delle memorabili lettere che hanno
per argomento principale la bellezza della montagna: Vivo della poesia come le vene vivono nel sangue. Io so cosa vuol dire
raccogliere negli occhi tutta l’anima e bere con quelli l’anima delle cose e le
povere cose, torturate nel loro gigantesco silenzio, sentire mute sorelle al
nostro dolore. Perché per me Dio è e
non può essere altro che un Infinito, si concreta incessantemente entro forme
determinate che ad ogni attimo si spezzano per l’urgere del fluire divino e ad
ogni attimo si riplasmano per esprimere e concretare quella Vita che,
inespressa, si annienterebbe. Ora Lei
vede che un Dio così non si può né chiamare né
pregare né porre lungi da noi per
adorarLo; Lo si può soltanto vivere nel profondo, poi che è Lui l’occhio che ci
fa vedere, la voce che ci fa cantare,
l’amore, ed il dolore che ci fa insonni.
Io
credo che il nostro compito, mentre attendiamo di tornare a Dio, sia proprio
questo: di scoprire quanto più possibile Dio in questa vita, di crearLo, di
farLo balzare lucendo dall’urto delle nostre anime con le cose (poesia e
dolore), dal contatto delle nostre anime tra di loro (carità e fraternità) (2).
Antonia riesce a cogliere l’essenza delle
cose. Forse proprio perché non avrà mai
delle cose veramente sue: una casa, una vita, un compagno. (3)
Scrive infatti, in una delle sue poesie
più conosciute:
Sulle
rovine della mia casa non nata
Ho
sparso
Cenere e sale. (4)
In
questo spirito errabondo che la pervade,
questa giovane donna riesce ad incarnare meglio di molti, lo spirito del tempo. Di un tempo,
difficile, estremo. La aiutano, a comprendere e a sentire, i
numerosi viaggi che intraprende in giro per l’Europa, soprattutto in Germania,
paese di cui ama immensamente la lingua.
Poi la Francia , l’Austria, Vienna, e poi Praga,
Budapest. Le foto, che diventano una
specie di ossessione: quelle che Antonia realizza con la sua macchina
fotografica – e che parlano quanto e come le sue poesie – e quelle di altri che
colleziona nel chiuso dei suoi cassetti. Quando morirà se ne troveranno più di
5000, che andranno a formare un fondo permanente.
In una di queste foto Antonia è ritratta,
all’inizio del 1937, a
Berlino, in una giornata di sole, in strada, in piedi accanto ad una grande
macchina sul cui parabrezza posteriore è incollata una svastica nazista.
Antonia sorride, ma qualcosa nella sua espressione, nel suo portamento tradisce
l’inquietudine. Cosa deve aver provato, in quei giorni, così lontana
dall’eremitaggio delle sue montagne, in mezzo alla bolgia inebriante e folle
della Germania che si preparava ad incendiare il mondo ?
(2./ segue)
Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata.
2.
Antonia
Pozzi, L’età delle parole è finita, pag.53
3.
Così
Alessandra Cenni nella prefazione al volume L’età
delle parole è finita, pag.12
4.
E’
la poesia Lamentazione. Questo, come tutti gli altri testi poetici
della Pozzi contenuti in questo capitolo sono tratti dal volume antologico:
Antonia Pozzi, Parole, Garzanti,
1989.
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