Io so chi sei.
Per tutta la vita, in fondo, rincorriamo qualcuno (un amante focoso, un amico, un compagno, uno sposo) che possa dirci - credibilmente questa frase guardandoci negli occhi.
E' il segno di una intimità che un tempo abbiamo sentito pronunciare dall'essere umano che biologicamente ci ha prodotto e che forse è l'unico ad avere i titoli giusti per pronunciare questa frase: nostra madre.
Chi può dire di conoscerci veramente se non chi ha prodotto biologicamente il nostro sangue, le ossa, i tessuti, le stesse nostre connessioni cerebrali ?
Per tutta la vita cerchiamo dunque qualcuno in grado di emulare questa capacità di introspezione: brameremmo di essere trasparenti, di poter essere guardati - con sguardo compassionevole - senza bisogno di tutta quella fatica che serve normalmente per far partecipi gli altri del nostro mondo interiore: parole, discorsi, gesti, condivisioni, sempre con la paura di essere fraintesi, di non essere mai capiti del tuto, mai compresi e mai - in definitiva - amati.
Allo stesso tempo questa frase che bramiamo ascoltare, ci terrorizza. Chi ci conosce bene, chi sa chi sono potrebbe e può utilizzare le mie fragilità scoperte, le mie ombre, le mie magagne. Farmela pagare, farmi soffrire.
Per questo l'affidamento agli altri è così difficile.
Per questo quella frase preferiamo - in fondo - non sentirla mai. Se no magari, nel segreto di un alcova e nello scambio e momentaneo di altre intimità biologiche.
Preferiamo non sentirla, ci rinunciamo, esausti ci adagiamo - mentendoci - nella rassegnazione che ciascuno è estraneo all'altro e che nessuna conoscenza dell'altro è mai, fino in fondo, possibile.
Fabrizio Falconi
nella foto in testa: Charlton Heston è Mosè nei "Dieci Comandamenti", Drive-in theater, Utah, 1958.
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