E' un libro ricchissimo e straniante, I Vagabondi, che erroneamente viene definito romanzo. E' vero che questa definizione oggi viene usata come il soffione di un organetto per contenere ogni forma più o meno irregolare di narrazione.
I Vagabondi però, appare fin dall'inizio, una meditazione sul tema del viaggio e del viaggiare, che coinvolge esperienze personali, memorie, informazioni saggistiche, mini racconti che a volte ritornano durante la narrazione, che apparentemente non segue alcun filo logico, se non quello di esplorare la proprietà dell'essere umano - come di ogni essere vivente - di vivere nello svolgersi della condizione temporale, la quale a sua volta si articola sulla dimensione spaziale, dimostrando l'esattezza della formulazione einsteiniana secondo la quale spazio e tempo interagiscono, formando una unica e terza dimensione, influenzando anche la percezione del tempo umano.
Olga Tokarczuk è nata nel 1962 e ha studiato psicologia a Varsavia. Scrittrice e poetessa tra le più acclamate della Polonia, la sua opera è stata tradotta in trenta paesi e in oltre quarantacinque lingue.
La notorietà delle sue opere e da ultimo il successo de I Vagabondi le ha meritato il Premio Nobel per la Letteratura 2018 “per la sua immaginazione narrativa che con passione enciclopedica rappresenta l’attraversamento dei confini come forma di vita”.
Il romanzo I vagabondi (Bompiani, 2019) le è valso anche il Man Booker International Prize 2018 ed è stato finalista al National Book Award.
La narratrice che ci accoglie all’inizio di questo romanzo confida che fin da piccola, quando osservava lo scorrere dell’Oder, desiderava una cosa sola: essere una barca su quel fiume, essere eterno movimento.
È questo spirito-guida che ci conduce attraverso le esistenze fluide di uomini e donne fuori dell’ordinario, come la sorella di Chopin, che porta il cuore del musicista da Parigi a Varsavia, per seppellirlo a casa; come l’anatomista olandese scopritore del tendine di Achille che usa il proprio corpo come terreno di ricerca; come Soliman, rapito bambino dalla Nigeria e portato alla corte d’Austria come mascotte, infine, alla morte, impagliato e messo in mostra; e un popolo di nomadi slavi, i bieguni, i vagabondi del titolo, che conducono una vita itinerante, contando sulla gentilezza altrui.
Come tanti affluenti, queste esistenze si raccolgono in una corrente, una prosa che procede secondo un andamento talvolta guizzante, come le rapide, talvolta più lento, come se attraversasse le vaste pianure dell’est, per raccontarci chi siamo stati, chi siamo e forse chi saremo: individui capaci di raccogliere il richiamo al nomadismo che fa parte di noi, ci rende vivi e ci trasforma, perché “il cambiamento è sempre più nobile della stabilità”.
Nessun commento:
Posta un commento
Se ti interessa questo post e vuoi aggiungere qualcosa o commentare, fallo.